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Relazione finale 3 alla “Grammatica alla Sherlock Holmes”

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Quando ho iniziato a lavorare, insieme ai miei colleghi, alla preparazione di questo seminario e, nel caso specifico, dell’ultimo laboratorio  mi sono venute in mente, in ordine sparso, parole e concetti  che avevo letto da qualche parte, chissà dove: SECCHIELLO, CONSEGNARE, OCEANO, LE SUE FORZE, STRUMENTI PER RICERCARE, RICERCA, CONOSCENZA, QUANTITA’, INSEGNARE A NUOTARE…. Pensa e ripensa finalmente mi sono ricordata! Ecco!

Al bambino noi non possiamo consegnare l’oceano un secchiello alla volta, però possiamo insegnare a nuotare nell’oceano e allora andrà fin dove le sue forze lo porteranno, poi inventerà una barca e navigherà con la barca, poi con la nave…
Dobbiamo cioè consegnare degli strumenti culturali. La conoscenza non è una quantità, è una ricerca.
Non dobbiamo dare ai bambini delle quantità di sapere ma degli strumenti per ricercare, degli strumenti culturali perché lui crei, spinga la sua ricerca fin dove può; poi certamente toccherà sempre a noi spingere più in là e aiutarlo ad affinare i suoi strumenti.                                                                                                                                  Gianni Rodari, La grammatica della fantasia

Ovviamente una deformazione professionale ormai macroscopica ed inguaribile mi ha portato a pensare che Gianni Rodari mentre scriveva queste parole stesse pensando alla lettura analitica e in particolare proprio alla Lettura analitica semiautogestita, quella dell’ultimo laboratorio.

Oltre agli obiettivi già ampiamente indagati da Roberto Aiello nel suo intervento, la versione semiautogestita presenta anche un altro obiettivo: IMPARARE AD IMPARARE.

La Lettura analitica semiautogestita è un’attività formativa per lo studente (e di conseguenza anche per l’insegnante), un’attività che promuove l’autonomia nell’apprendimento linguistico nella convinzione che l’apprendimento significativo, come dice Carl Rogers, sia quello autopromosso e autogestito poiché produce risultati migliori e soprattutto genera nuova motivazione.

L’autonomia dell’apprendente, però, secondo Henri Holec, il “padre” del concetto,  non è un’abilità innata e quindi va acquisita. È qualcosa che l’apprendente può sviluppare “in modo naturale o, più frequentemente, in modo più formale o sistematico”.

Il nostro studente/Sherlock Holmes, quindi, mentre è alle prese con la Lettura analitica semiautogestita, mentre decostruisce e ricostruisce opinioni e percezioni, mentre scruta ogni indizio e analizza e mette in relazione fenomeni linguistici, sta sì contribuendo alla complessificazione della propria interlingua, ma sta anche affinando la sua abilità ad usare  “STRUMENTI CULTURALI per imparare a NUOTARE NELL’OCEANO”.

L’OCEANO, nel nostro caso, è ovviamente  la lingua bersaglio o, come siamo spesso abituati a definirla, l’input.

Forse, però, proprio il paragone con l’oceano, in costante movimento, mai uguale a se stesso, caotico e incoercibile rende la parola input meno appropriata, riduttiva, come ci fa notare Leo Van Lier nel suo libro “The Ecology and Semiotics of Language Learning”.

La parola input fa pensare alla lingua come ad un codice fisso, ad un pacchetto preconfezionato e all’apprendimento  come ad un  passivo incameramento di pezzi di quel codice (le QUANTITÀ  DI SAPERE), come se le menti degli studenti fossero computer nei quali vengono immessi (inputted) dei dati che solo una volta inseriti verranno poi processati.

Ma Rodari ci ricorda che non possiamo CONSEGNARE L’OCEANO UN SECCHIELLO ALLA VOLTA perché una persona non impara ricevendo pezzi che gli vengono consegnati, non se ne sta lì ferma, immobile, in attesa di essere riempita.

L’apprendimento, così come il vivere, è azione, è flusso biunivoco, è dialogo, è condivisione e la lingua, così come la vita in tutti i suoi aspetti, non è un’entità pronta all’uso.

Ogni nostra azione, ogni nostra parola è per metà anche di qualcun altro e difficilmente la stessa parola o la stessa espressione hanno due volte lo stesso significato, persino all’interno della stessa conversazione. Il significato di una parola viene costantemente rinegoziato in base al contesto, al momento, all’interlocutore, ai bisogni di chi parla e di chi ascolta, perché se qualcuno parla c’è sempre, sempre qualcuno che ascolta.

Affordance

Ora vi voglio parlare di affordance. Di che si tratta?
(Immagine di una sedia) Questa è una sedia. A che serve?
(Immagine di un uomo seduto su una sedia) La sedia serve per sedersi.
(Immagine di una sedia che blocca una porta) Oppure serve per bloccare una porta in caso di eventuale intrusione.
(Immagine di una sedia con sopra un bambino in piedi che prende dei biscotti) Oppure? beh, …è abbastanza evidente!

Quindi le affordance sono “l’insieme di azioni che un oggetto “invita” a compiere su di esso “ J. Gibson 1966. Questo concetto non appartiene né all’oggetto stesso né a chi lo utilizza ma si crea dalla relazione che si instaura tra i due e dal contesto in cui l’oggetto si trova. Alcune cose, per una persona, segnalano chiaramente la loro rilevanza, la loro potenzialità d’uso in una particolare situazione: quel bambino, in quel momento non è stato nemmeno lontanamente sfiorato dall’idea che la sedia potesse servire per sedersi. Per lui era uno strumento che gli avrebbe permesso di arrivare ai biscotti!

Questo significa che quando noi percepiamo qualcosa, la percepiamo in relazione a noi stessi in quel determinato momento.

Quindi un oggetto non è come è, ma è come è per noi.

In qualche modo il concetto di affordance è connesso a quello di “significato potenziale” a patto che non si consideri il significato come qualcosa di insito nelle parole, nelle frasi o negli oggetti.

Prendiamo una parola facile facile: CASA. Definizione dal dizionario Treccani: costruzione eretta dall’uomo per propria abitazione; più propriamente, il complesso di ambienti costruiti in muratura, legno, pannelli prefabbricati o altro materiale, e riuniti in un organismo architettonico.  Temo che non sia tutto qui. Infatti, se dico alla persona che amo che, quando sto con lui o lei, mi sento a casa, spero che non pensi ai pannelli prefabbricati o in legno o muratura, ma a qualcosa simile a “ti amo”.

In tal senso il significato potenziale è più precisamente un’azione potenziale ed emerge, pronto per essere colto, nel momento in cui interagiamo con il mondo fisico e sociale.

Affinché il significato emerga, devono però sussistere delle precondizioni che sono: azione, percezione e interpretazione che interagiscono fra loro contemporaneamente e reciprocamente.

Quindi, vediamo lo studente come agente, colui che agisce, colui che stabilisce relazioni con l’ambiente e nell’ambiente. È lui che con la partecipazione e l’uso fa sì che le affordance emergano e con loro le opportunità di apprendimento linguistico che lui percepisce agendo e che raccoglie guidato dai suoi bisogni, come sostiene Van Lier.

Questo cambia molto la prospettiva dell’apprendimento e, di conseguenza, dell’insegnamento linguistico: date queste premesse il curricolo dovrebbe partire dalle attività, dai bisogni e dagli scopi emergenti dell’apprendente.

Non ha infatti molto senso che parta dall’individuazione da parte dell’insegnante di “argomenti” messi in sequenza e pronti per essere gradualmente somministrati. Quanti SECCHIELLI deve portare l’insegnante? 10? 100? 10000?  E davvero l’acqua contenuta in quei secchielli è rappresentativa dell’OCEANO.

E non ha molto senso neppure sottrarre il nostro studente alla ricca complessità della lingua perché se noi concepiamo l’apprendente come colui che si muove fisicamente, socialmente e mentalmente in uno spazio semiotico multidimensionale è evidente allora che qualsiasi ambiente linguistico si arricchisce automaticamente in complessità.

E indipendentemente dalla complessità dell’ambiente, sarà lui, l’apprendente/agente a determinare cosa scegliere e cosa cogliere. E questo suo agire, potrebbe a volte davvero sorprenderci, scardinando i pre-giudizi che condizionano le nostre scelte didattiche.

Vi invito a pensare all’ultimo laboratorio e agli aspetti linguistici che hanno incuriosito gli studenti. Poi pensate al curricolo che sottoponiamo agli studenti. Non sarebbe il caso di ripensare la prassi di imporre programmi che pre-esistono allo studente?