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La grammatica della frase, la grammatica del pensiero

Le mie riflessioni su linguaggio e apprendimento devono molto alle teorie di Gregory Bateson sul fondamento biologico della vita e della conoscenza. Qual è la “struttura che connette” gli organismi viventi?, si chiede Bateson nella Introduzione a Mente e natura (1).

È Mente e natura. Un’unità necessaria il libro dove Bateson fonda le premesse di una teoria della complessità e di una scienza unificata, una scienza in cui natura e cultura, evoluzione dei sistemi complessi e apprendimento di singoli individui si combinano in un equilibrio dinamico.

Dovendo ora parlare di educazione e apprendimento, ho scelto di iniziare con il passo conclusivo dell’ “Ultima conferenza” (in Una sacra unità (2)), una conferenza che, un anno prima di morire, Bateson tenne a Londra. Illustrando il passaggio di tipi logici nel gioco dei mammiferi non-umani, egli esprime la convinzione che, in materia di apprendimento, noi umani potremmo ambire a ordini di complessità ancora più grandi. A inscrivere cioè le nostre azioni in una Gestalt più vasta.

Immaginando che i presenti gli chiedano “Ma come faremo a conseguire una educazione olistica di questo genere?”, così Bateson risponde: “E già questa domanda rivela che in genere non la conseguiamo, perché è una domanda che scaturisce da un universo già suddiviso e non da un universo organizzato [un universo fatto cioè non di parti separate ma i parti tra loro in relazione]; perciò – continua Bateson – [la vostra domanda] richiede una risposta che non può essere la risposta. Richiede una risposta in termini di un universo suddiviso e questa risposta non ve la darò. Non sarebbe una risposta” (p. 462).

Sono passati 30 anni da quella conferenza, e non è più vero nel campo dell’educazione a quel genere di domande non vengano date risposte (questo convegno ne è una testimonianza). In tempi recenti l’insegnamento a scuola si propone di cercare e di evidenziare le connessioni tra le diverse discipline, e, oggi, la teoria della complessità ha – con l’educazione scientifica – un posto niente affatto secondario, sin dai primi anni di scolarizzazione. Non sempre però la scuola riesce nell’intento di educare il pensiero dei giovani verso un agire coerente con l’idea che il mondo è complesso, che è organizzato.

Molto spesso i fenomeni naturali vengono definiti in termini quantitativi (piuttosto che qualitativi), con il ricorso a un linguaggio descrittivo che, nella nostra cultura, si è specializzato a parlare di ‘cose’ e non di relazioni, e che ci porta a pensare la natura come ‘altro’ da noi: un pensiero, questo, che trova rinforzo e legittimazione dalla nostra straordinaria capacità di incidere sull’ambiente esterno – e su noi stessi – con il linguaggio e con la tecnica.

Entro ora nel tema che è oggetto della mia relazione con alcune considerazioni preliminari sulla differenza tra oralità e scrittura: sulle differenti modalità espressive e di pensiero, sulle strategie che adottano le culture orali e le culture scritte per formalizzare e trasmettere (nel linguaggio) i rispettivi patrimoni di conoscenze.

La letteratura in materia è vasta. Qui mi limito a ricordare Oralità e scrittura di W. Ong (il Mulino, Bologna 1986) e Alfabetizzazione e oralità, atti di un convegno del 1987 (3).
Da questo secondo libro, in particolare dai saggi di Havelock, Denny e Olson, prendo spunto per porre l’attenzione su due aspetti dell’evoluzione del linguaggio verbale: la memoria e la sintassi.

La memoria

Gli antichi poemi epici sono per noi fonte di informazioni culturali, e di essi abbiamo  testimonianza in quanto furono trascritti. Il loro contenuto era adatto a una società  prealfabetizzata, e sbaglieremmo a pensare che il linguaggio di quei poemi sia lo stesso linguaggio usato nelle normali conversazioni:

“I segreti dell’oralità – osserva Havelock – stanno nel linguaggio usato per immagazzinare informazioni nella memoria” (p. 26, corsivo aggiunto).

E affinché le informazioni siano immagazzinate nella memoria, il discorso deve soddisfare due requisiti:

  1. deve essere ritmico e
  2. deve essere ‘narrativizzato

La lingua usata da Omero è infatti una cantilena metrica ripetibile per centinaia di versi, memorizzabile proprio in quanto metrica. In conclusione, Havelock considera il verso come prodotto dell’oralità, il quale, per poter essere conservato, sfrutta le risorse dell’orecchio; la prosa come un prodotto della alfabetizzazione, liberato dalle costrizioni della memorizzazione.

Nella cultura greca l’alfabeto venne inizialmente usato per registrare la lingua orale nella tragedia. Ciò non portò a un radicale cambiamento. La vera rivoluzione concettuale iniziò quando ci si rese conto che “l’intero registro dei suoni linguistici poteva essere collocato in un nuovo tipo di immagazzinamento, non più dipendente dai ritmi usati nel ricordo dalla memoria orale” (p. 27).

Poteva diventare un documento – per esempio testi storici, filosofici, giuridici-: un insieme permananente di forme affidate questa volta non all’udito ma visibili, forme che potevano essere messe da parte e riesaminate in seguito, e che potevano essere perfino dimenticate.

La sintassi

Nella cultura orale anche la sintassi e il lessico assicurano la memorabilità. I soggetti vengono esplicitati e vengono descritte azioni o passioni, e non principi o concetti. Per fare un esempio, non troveremo mai frasi come “l’onestà è la migliore politica”, ma “l’uomo onesto prospera sempre”. Insomma, il discorso orale e poetico è contestualizzato (cfr. p. 26), circoscritto cioè nei soggetti e nel tempo.

La prosa invece si svilupperà sempre più, nella cultura occidentale, come prodotto decontestualizzato. La sua sintassi è riflessiva: la sintassi della definizione, della descrizione e dell’analisi. Tale era la prosa di Platone e di tutti i suoi successori, fosse essa prosa filosofica, scientifica, storica, descrittiva, legale o morale.

La cultura europea entrava così nella sfera del discorso analitico, riflessivo, interpretativo e concettuale. E veniva formalizzato il discorso ‘scientifico’ in senso lato.
Diversamente dalle forme orali, il linguaggio scientifico fa un uso limitato sia dei pronomi in prima persona, sia delle forme verbali locative e temporali, e usa i soggetti astratti e i verbi passivi. La sua sintassi preferisce la frase subordinante alle congiunzioni coordinanti e alla giustapposizione. Sviluppa inoltre – scrive Denny – il pensiero “proposizionale”, un insieme di frasi logicamente connesse tra loro, e crea, sviluppa il pensiero ipotetico circa gli aspetti della natura che non sono percepibili direttamente dai sensi – ad esempio la forza elettromagnetica, gli atomi, i codici genetici, ecc. -: questa è la modalità attraverso cui, a partire dal Rinascimento, è stato fondato il pensiero scientifico occidentale (cfr. pp. 89-90).

Le ‘arti orali’

Sui vantaggi di una tale alfabetizzazione non mi soffermo: è sotto i nostri occhi il successo che le culture alfabetizzate e industrializzate hanno sulle altre, nel bene e nel male. Ciò che mi preme sottolineare è questo: noi possiamo meglio conoscere, apprezzare, criticare la nostra cultura quando la poniamo a confronto con le altre, con altri percorsi evolutivi: nel nostro caso, con le culture “a oralità primaria” (Olson chiama così le culture che non conoscono affatto la scrittura) – culture in verità ormai quasi del tutto scomparse.

Per completare questa premessa storica farò un passo indietro fino a un milione di anni fa, quando, con il bipedismo e con la crescita della capacità cubica del cervello, negli ominidi si creano le premesse del linguaggio articolato: un passaggio evolutivo che fu accompagnato da una parallela specializzazione degli organi che articolano i suoni del linguaggio.

Sono stati fatti molti studi sulla specifica natura delle lingue umane, caratterizzate tutte da suoni discreti, vale a dire distinti e organizzati, e che de Saussure ha chiamato “doppia articolazione”.

E molte sono le ipotesi relative alla nascita e alla evoluzione del linguaggio verbale. Quello che sappiamo per certo è che si è evoluto insieme alla specifica fisiologia degli esseri umani: 200.000 anni fa, Homo sapiens cominciò a modulare una enorme quantità di suoni.

Scrive Raffaele Simone:

“Il passaggio dalla comunicazione gestuale a quella fonico-acustica … portò conseguenze anche strutturali sull’organismo…, in primo luogo la discesa della laringe – originariamente disposta subito dietro la base della lingua (com’è ancora nei neonati) … E comportò la creazione di un apparato a due canne, in cui cioè l’esofago e la trachea (rispettivamente gli organi per deglutire e per respirare) si resero indipendenti l’uno dall’altro. Questo quadro di adattamenti si completò con un raffinato riaggiustamento delle capacità discriminatorie dell’udito, che divenne capace di distinguere differenze di frequenza molto più sottili”. (4).

E aggiungeremo che connessa strettamente all’evoluzione dell’udito è, come già abbiamo visto, la nascita della poesia.

Dovremo pertanto considerare che l’essere umano, dal punto di vista ‘naturale’, non è né uno scrittore né un lettore, ma un parlante e un ascoltatore. Ciò è vero oggi come lo era settemila anni fa, al tempo della invenzione della scrittura. L’alfabetizzazione, in qualsiasi stadio del suo sviluppo, è quindi, in termini evolutivi, un semplice nuovo arrivato, è un’opera della cultura, non della natura in senso stretto.

Per molti millenni, sia che fossero raccoglitori-cacciatori, sia che fossero agricoltori o altro, le società cosiddette preistoriche trattarono i loro affari – accordi, consuetudini sociali e così via – mediante l’uso del solo linguaggio orale. Essi agivano, pensavano, reagivano oralmente. Di conseguenza, questa eredità che essi ci hanno lasciato è una parte di noi come lo è la capacità di camminare eretti o di usare le mani: una eredità di così grande portata da non permettere che sia velocemente sostituita da una precoce alfabetizzazione. Anticipare a scuola lettura e scrittura sarebbe perciò una scelta sconsiderata.

“Esercitare una prematura pressione sull’occhio del bambino perché legga un testo – osserva Havelock -, piuttosto che allenare l’orecchio all’ascolto accurato e alla ripetizione orale può inibire il pieno sviluppo alfabetizzato, in quanto omette uno stadio necessario nel processo di sviluppo in cui la pratica orale diventa la compagna indivisibile della parola letta visivamente” (p. 24, corsivo aggiunto).

Dovremmo allora augurarci che il bambino, nell’età dello sviluppo, riviva in qualche modo l’eredità culturale propria dell’oralità primaria. Ciò avviene del resto nella nostra attuale scuola dell’infanzia, dove all’insegnamento della lettura e della scrittura viene preferito l’insegnamento di arti quali il canto, la danza, la recitazione – meglio la recitazione narrativa e ritmica: la più naturale nei bambini.

Oltre alle filastrocche e a testi semplici e comprensibili da un bambino, non andrebbe escluso, a mio parere, l’apprendimento mnemonico di testi poetici di cui i bambini non conoscono il significato: potremmo considerare questo un apprendimento (inconsapevole) di modelli di frasi la cui estetica risiede sia nel ritmo e nell’armonia, sia nelle parole e nelle locuzioni evocative.

L’ortografia è una grammatica

Proseguendo a livelli di istruzione superiori, la scuola prevede l’attraversamento  progressivo di conoscenze più astratte e consapevoli; anche lontane dall’esperienza.

Conviene ricordare che l’apprendimento scolastico è fondato, in larga parte, sui manuali scolastici, i quali contengono resoconti (compendiati) di ricerche condotte in vari campi, e staccati quindi dal contesto entro cui sono stati prodotti. La capacità di comprendere e di costruire testi de-contestualizzati viene tenuta in gran conto nelle nostre scuole. La logica formale e matematica – tanto diversa dalla logica ‘naturale’ – collabora a formare una ‘mente’ in grado di fare ragionamenti astratti e lontani dalla (cosiddetta) vita ‘reale’.

Riflettiamo ora su uno degli insegnamenti di livello astratto e consapevole che ci riguarda da vicino: lo studio della lingua. La riflessione sulle strutture della lingua molto probabilmente ha affascinato l’umanità ancor prima dell’invenzione della scrittura. Ma è nelle culture alfabetizzate che tale interesse diventa oggetto di studio programmato, uno studio che obbliga per di più a un salto di livello logico: il passaggio dal significato delle strutture linguistiche alle strutture in quanto tali, astratte dal significato. Operazione mentale, questa, che ragazzi scolarizzati sono in grado di fare. Tuttavia può capitare che qualcuno sbagli, che cada in quello che altrove ho chiamato “l’errore di Pomponio” (5).

Quando insegniamo la grammatica, noi spostiamo l’attenzione dal piano referenziale e contestuale allo studio del linguaggio per come esso è fatto. Per esempio, posta la frase:

“Nel giardino di mia zia è fiorito un cespuglio di rose rampicanti, e siamo a dicembre”,

ciò che dirò della zia e del suo giardino non avrà alcuna rilevanza: al fine di conseguire una competenza grammaticale, saranno invece rilevanti le concordanze, la posizione del soggetto, la punteggiatura (la virgola prima della e), la ortografia ecc.

Fermiamoci ora sull’ortografia. Qui riprendo una interessante osservazione di Olson, il quale considera l’ortografia come grammatica. Le convenzioni ortografiche sono modi di rappresentare, di dare una forma grafica ai costrutti linguistici (alle parole, ai sintagmi ecc.), pertanto un sistema di scrittura – conclude Olson – può essere considerata una grammatica, e cioè la descrizione (convenzionale) di un linguaggio.

Ed è qui, nella consapevolezza del significato grammaticale (vale a dire descrittivo) della forma scritta della lingua, che gli studenti (a qualsiasi età) trovano un facile accesso alla competenza formale-grammaticale richiesta dal nostro tipo di istruzione. Nell’apprendere l’ortografia, essi possono facilmente avere consapevolezza che stanno tracciando una ‘mappa’ di un ‘territorio’, e che mappa (la scrittura delle parole) e territorio (le parole in quanto tali), oltre a non coincidere mai (mai del tutto), sono due livelli differenti. (Trovo illuminante questa tesi di Olson, e ne ho tratto vantaggio nell’insegnamento.)

Di conseguenza, volendo stabilire una priorità per lo sviluppo di competenze grammaticali, diremo che il fattore primario è l’ortografia, anche a partire da uno stadio iniziale di alfabetizzazione.

L’insegnante non limiterà, certo, l’insegnamento dell’ortografia al suo apprendimento  meccanico: egli spiega le caratteristiche dell’ortografia; tuttavia è l’attenzione ostinata all’ortografia, “è la cura dell’ortografia in sé e per sé a fare della lingua un oggetto di consapevolezza” (p. 275, corsivo aggiunto).

Mai meccanico ma sempre ragionato è invece lo studio della sintassi. Presa in esame una frase semplice o complessa, noi a scuola insegniamo ad analizzarne il livello morfologico e il livello sintattico (analisi grammaticale e analisi logica). Di norma facciamo una preliminare distinzione tra

  • le ‘parole’, e cioè sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi, che sono elementi dotati in sé di significato,
  • e i connettivi (preposizioni, congiunzioni), i quali, pur non dotati in sé di significato, attribuiscono un certo (e non un altro) significato al combinarsi tra loro delle ‘parole’

Basterà una semplice (si fa per dire) variazione: es.: “Ho preso il libro da/di Luigi”; “Verrò a trovarti anche se/perché sei malato”), e il significato della frase cambia.

Questi e altri aspetti della riflessione sulla lingua collaborano a far comprendere agli studenti che la frase è un insieme organizzato: fatto non di parti ma di relazioni. E queste relazioni trovano forma e sostanza nelle ‘parole’ (congiunzioni e preposizioni) che legano le parti tra loro.

Tutto ciò è necessario perché si sviluppi negli allievi una competenza linguistica circa le strutture e su come procedere per analizzarle. Ma perché tali strutture risultino così familiari da generare la costruzione di frasi ‘ben formate’ (siano semplici o complesse), quello che più conta è, a mio parere, un esercizio di interiorizzazione di modelli, vale a dire che, a livello sintattico, va coltivato un apprendimento di secondo livello, questa volta molto poco consapevole, legato all’ascolto, alla lettura a voce alta di testi lunghi o brevi, tali che possano essere ricordati – magari nella memoria profonda, fino a che si generi un apprendimento duraturo, ‘incorporato’, che sarà tale proprio perché inconsapevole (6).

L’organizzazione della frase (la separazione tra ‘soggetto’ e ‘oggetto’)

Volendo adesso guardare la grammatica della frase da una prospettiva più ampia, seguirò l’insegnamento di Bateson.

Bateson suggerisce sempre di salire di un grado di astrazione quando si vuole capire meglio una questione ‘concreta’. Perciò, dalle differenze tra oralità e scrittura sposterò l’attenzione  sugli elementi che le connettono.

Bateson era interessato non tanto alle differenze quanto ai requisiti fondamentali che sono comuni a entrambe le strategie comunicative: che il linguaggio verbale sia formalizzato nella oralità o nella scrittura, egli considera un passaggio decisivo la separazione tra soggetto e oggetto tramite il predicato (7).

Entriamo allora nel merito di quel sistema organizzato che è la frase. È molto probabile che quella parte del discorso che chiamiamo frase ‘semplice’ (convenzionalmente delimitata da due punti) sia stata usata inizialmente per messaggi di tipo ingiuntivo, per messaggi cioè che danno ordini o indicazioni rivolti a un tu, quindi a un interlocutore presente. In una fase successiva – oppure, chissà, contemporaneamente – la frase si modellò in forme adatte a narrare, descrivere, a catalogare, definire, spiegare …, in ogni caso a parlare di un ‘oggetto’: cose, persone, o fatti lontani dai soggetti implicati nella relazione comunicativa (chi parla e chi ascolta).

A sostegno di questa tesi troviamo in tutte le lingue storico-naturali il pronome “esso” che identifica un qualche ‘oggetto’. Troviamo inoltre in tutte le lingue anche un grande numero di tempi verbali necessari al racconto – presente, futuro, passato prossimo e remoto, trapassato, e altri tempi ancora (8).

In conclusione, la presenza della terza persona e la varietà dei tempi verbali rendono possibile sia la contestualizzazione (il racconto) sia la decontestualizzazione, come nel caso del linguaggio scientifico, il quale, nel formalizzare, per esempio, una legge fisica ricorre al si impersonale e ignorare il contesto temporale.

Ho usato finora il termine ‘frase’ in senso generico. I linguisti, in verità, distinguono tra “atti linguistici” e “frase” vera e propria. Gli atti linguistici (un esempio: “Dai, su!”) possono essere anche incompleti (“Qui, proprio qui, …”) e, per essere significativi, si avvalgono di segnali, come l’intonazione della voce, i gesti, ecc., che accompagnano le parole. Quella che chiamiamo “frase” è invece una unità di informazione completa, autosufficiente, tale da permetterne la comprensione anche a chi non è presente nel momento in cui essa è prodotta.

Insomma, caratteristica della frase, sul piano comunicativo, è che non ha bisogno di  ricorrere ad altri elementi – linguaggio gestuale, intonazione della voce – che la rendano significativa: posso dire o scrivere “Marco ha viaggiato comodamente in treno da Roma a  Torino” e ragionevolmente supporre non soltanto che questa frase sia in sé completa, ma anche che oggi, domani, ‘in eterno’ questa frase avrà lo stesso significato (ciò è vero fino a un certo punto… ovviamente).

La frase, così come l’abbiamo definita, può essere formalizzata, detta o scritta anche se il destinatario è assente. Questa mia relazione ne è un esempio: l’ho scritta immaginando voi come interlocutori, e forse avrei potuto scriverla non riferendola a nessuno.

La linearità

Se finora ho richiamato cose già a voi note è per ribadire due considerazioni più generali:

  1. la possibilità che una frase e un lungo testo possano essere concepiti e prodotti indipendentemente dalla presenza di interlocutori è un ulteriore argomento a sostegno della tesi che il linguaggio verbale, affinandosi per parlare d’altro, e cioè per riferire cose che potrebbero trovarsi fuori della portata (visiva, uditiva) degli interlocutori, si sia specializzato  a narrare l’altrove e il passato, cosa che troviamo in tutte le società umane, nelle culture orali e scritte.
  2. La frase così come l’abbiamo definita – un sistema organizzato – è una caratteristica (e una necessità) del linguaggio verbale sin dalle sue origini.

Accolgo pertanto l’ipotesi – formulata anche da Bateson – che il linguaggio verbale (articolato) sia nato non per la semplice ‘nominazione’ di cose e persone, ma che sin dalle origini fosse composto di unità più piccole dotate di significato (congiunzioni, preposizioni, desinenze).

Proviamo ora a isolare da un testo alcuni sintagmi, per es. /il gatto/; /quella sedia/; /sono stato invitato/…. Ho tolto questi sintagmi da alcune frasi, ma nella frase essi si troveranno in una successione (ovviamente) lineare.

Il vincolo della linearità viene tuttavia superato, nelle scritture alfabetiche, da rimandi morfologici, come nel caso della concordanza tra soggetto e predicato, che si trova non in tutte ma in molte lingue storico-naturali:

“Il gatto afferra – i gatti afferrano – il topo con un balzo”.

Tramite la a di ‘afferra’, che costituisce il legame sintattico con il soggetto singolare ‘gatto’, viene lessicalizzato il legame logico.

Questi e altri richiami di tipo morfo-logico comportano la possibilità di non disporre necessariamente uno dopo l’altro due sintagmi; permettono cioè di mantenere la congruenza sintattica tra due o più sintagmi al di là della posizione che essi occupano nella frase lineare:

“Il gatto, / tempestivamente / con un balzo fulmineo / dopo essersi accertato che… /, afferra il topo”.

A quello che viene chiamato ‘nucleo’ della frase (soggetto e predicato: “Il gatto afferra il topo”) ho aggiunto nuovi elementi (complementi, avverbi, frasi incluse ecc.).

Queste cose le insegniamo ai nostri allievi. Un giorno un ragazzo osservò: “Ma allora una frase si può allungare all’infinito!!”…

Il tempo della frase, il tempo del respiro

Chiediamoci allora: qual è la lunghezza, la ‘durata’ ottimale di una frase?
Torniamo alla fisiologia degli esseri umani. È molto probabile che il tempo della frase e il tempo del respiro (il tempo occorrente per ‘prendere fiato’) siano co-evoluti insieme, che cioè la sintassi delle lingue verbali si sia formata “per calco sul movimento respiratorio” (9). Aggiungeremo che entrambi i tempi (della frase e del respiro) si sono evoluti con lo sviluppo di più sottili capacità uditive: di apprendere, attraverso l’ascolto, stili, norme, ‘durate’… Noi infatti nel leggere o nell’ascoltare frasi e più ampi discorsi ne apprendiamo la durata – ritmica, estetica – anche senza rendercene conto. (Nella poesia, la valenza estetica della ‘durata’ appare in chiara evidenza nel verso.)

Come abbiamo visto prima, nel corso di millenni le culture orali si sono evolute per garantire la memorabilità delle informazioni, e avranno anche fissato norme e  ‘grammatiche’ di emissione della voce – si tratta di grammatiche forse inconsapevoli, o formalizzate solo nell’esperienza.

E conosciamo, ma solo nella storia recente dell’umanità, norme e grammatiche relative alla scrittura: norme e grammatiche, queste, per lo più consapevoli – si veda l’insegnamento della retorica (testo argomentativo, descrittivo, esemplificativo ecc. sono oggetto di studio consapevole).

Dalla poesia vera e propria passiamo ora alla scrittura ‘poetica’ – detta anche creativa -, che nasce non finalizzata a usi pratici ed è tuttavia destinata a essere resa pubblica. La scrittura ‘poetica’, nelle forme che diremmo ‘classiche’ – cioè quelle forme letterarie meglio incardinate in una tradizione, o che larga parte degli individui di una data cultura riconoscono come tali -, la scrittura poetica, dicevo, sembra abbia mantenuto alcuni ‘universali’: uno di questi è per l’appunto il modulare segmenti di interi discorsi sulla misura del respiro; le eventuali eccezioni – le frasi incomplete, sospese, le cacofonie, le dis-armonie, ecc. – sono efficaci proprio in quanto ‘scarti dalla norma’, perché evidenziano meglio, per differenza, l’andamento ritmico, regolare dell’intero corpo del testo, il quale potrebbe differenziarsi in tutto da altri testi, quelli che per l’appunto il lettore considera familiari e per così dire ‘nella norma’.

Per la poesia vera e propria è il verso che scandisce le pause. Nella prosa che ripropone l’andamento ritmico della poesia le pause verranno segnalate diversamente. Nella prosa letteraria (ma anche scientifica) troviamo segnali utili al lettore  affinché, leggendo, egli rispetti cesure e pause che danno al tutto significato e armonia (quale che essa sia). La punteggiatura suggerisce infatti al lettore le pause che daranno al testo il ritmo voluto dall’autore. (Tra parentesi, ritengo che l’insegnamento della punteggiatura debba andare di pari passo con la grammatica della frase complessa.)

Tutti noi, e così i nostri allievi, leggendo a voce alta i testi in prosa che riteniamo ‘poetici’, ci rendiamo conto del filo che lega la scrittura alla oralità, nell’ipotesi che, pur essendo quei testi, in quanto scritti, destinati ad essere letti in silenzio, l’autore li abbia costruiti  calibrandoli sulla lettura a voce alta, in un (provvisorio) dialogo con se stesso, che anticipa il dialogo con il lettore (10).

Nella prosa ‘poetica’, che produce in noi lettori una ‘risonanza’ interiore, contenuto e forma non sono separabili tra loro, e qualche volta non lo erano al loro nascere. È probabile infatti che per raggiungere un tale risultato – e cioè la naturalità che si avverte nel linguaggio letterario – l’autore abbia fatto ricorso a quello che Bateson ha definito “Apprendimento 2”, vale a dire un apprendimento non del tutto, anzi, molto poco consapevole (11).

Ed è questo apprendimento di secondo livello – tacito, inconsapevole, incorporato – che conviene continuare a coltivare nella scuola – primaria e secondaria – attraverso la lettura (anche a voce alta) di testi dalla prosa cristallina.

La letteratura si caratterizza per la scelta di espressioni verbali che ci appaiono uniche e insostituibili, degne di essere ricordate così come lo scrittore ha voluto (pazientemente e saggiamente) formalizzarle: nel capitolo “Rapidità” delle Lezioni americane, Calvino si dice convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile:

“Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente ricerca del ‘mot juste’, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato.” (12).

In conclusione, il ritmo, la memorabilità del linguaggio poetico, sia esso in versi, sia in prosa, sia scritto che parlato, aiuterà gli studenti a riconoscere e a ripercorrere i fondamenti e il cammino della nostra storia, culturale e naturale insieme.

Per correggere la “miopia sistemica”

Ogni società ha l’onere di consegnare ai piccoli il patrimonio delle proprie conoscenze – descrizioni del mondo, storie, mitologie … Per essere al mondo come individui e allo stesso tempo come parte di una società (per essere cioè individui sociali) occorre che si perda per strada la visione del mondo primaria – ‘magica’, ‘ingenua’ -, la quale se pure connette un bambino con le società arcaiche, se mantenuta troppo a lungo gli renderebbe complicato vivere con gli altri. Eppure, fatta questa precisazione, aggiungeremo che le forme di espressione e di conoscenza tipiche dell’oralità – contestualizzate, ritmiche, non sottoposte ad analisi – saranno un completamento a una istruzione fondata sull’analisi ragionata di settori della conoscenza e sui loro specifici linguaggi.

Ho richiamato all’inizio la conferenza di Bateson sull’educazione ‘olistica’. Sappiamo bene che le discipline di studio hanno una loro necessaria autonomia: l’intero patrimonio culturale non sarebbe stato possibile né trasmetterlo né impararlo senza gli specialismi propri delle materie, affidate ad altrettanti specialisti.
Tuttavia dovremmo essere cauti allorché oggetto di studio sono sistemi viventi. Sistemi che noi umani possiamo conoscere – per analogia e differenza – perché li ri-conosciamo, perché la nostra crescita e lo sviluppo del nostro pensiero seguono procedimenti analoghi alla evoluzione del più grande sistema che ci comprende.

La scrittura alfabetica, per sua natura lineare, può indurci ad attribuire linearità agli oggetti delle nostre descrizioni e a generare in noi una sorta di “miopia sistemica”. Quando gli studi finalizzati direttamente a uno specifico scopo sono troppo riduttivi (parcellizzati, riduzionisti), potrebbero farci correre il rischio di perdere quella visione ricorsiva e cibernetica che attiene sia alla connessione nostra con i sistemi viventi, sia alle interconnessioni del mondo da noi osservato e descritto.

Interessato alla epistemologia delle “cose vive” e alla loro propria “autodescrizione”, Bateson – da biologo e naturalista – auspicava una “grammatica creaturale”, vale a dire un linguaggio “che fosse in qualche modo isomorfo, che fosse coerente con il linguaggio in base al quale gli esseri viventi stessi sono organizzati”.

E per correggere la “miopia sistemica” un primo passo sarà inscrivere ogni disciplina di studio entro la storia naturale, senza la quale “ogni conoscenza è morta, opaca o bigotta” (Una sacra unità, p. 458).

Un impegno, questo, non da poco. Si tratterà non tanto di negare autonomia e specialismo  delle discipline ma di ‘pensare’ (ed educare a pensare) alle connessioni tra i vari campi del sapere.

Siamo in un mondo dominato dalle tecnologie, le quali ci sono così familiari che possiamo anche non conoscerne il funzionamento, e dove la realtà virtuale ci appare molto più ‘vera’ di quella esperita attraverso il filtro primario dei sensi.

Le Scienze naturali saranno quindi luogo privilegiato per una educazione naturalistica che sia “sensibile alle relazioni”: tale cioè che educhi bambini e ragazzi non soltanto a descrivere e spiegare il mondo vivente, ma anche a osservarlo, a contemplarne varietà e bellezza, armonia e dissonanze tra diverse configurazioni.

Ciò li aiuterà ad acquisire una mentalità scientifica (in senso lato) che sia teoretica ed estetica allo stesso tempo, e che li educhi a pensare entro una più vasta ecologia, e ad agire coerentemente con il pensiero sistemico.

Note

(1) Gregory Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano 1984.
(2) G. Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1997.
(3) Alfabetizzazione e oralità , a cura di David R. Olson e Nancy Torrance, Raffaello Cortina editore, Milano 1995.
Di questo libro, i saggi a cui qui faccio riferimento sono: “L’equazione oralità-alfabetizzazione”, di Eric Havelock; “Il pensiero razionale nella cultura orale e la decontestualizzazione nell’alfabetizzazione” di J. Peter Denny; “Alfabetizzazione e soggettività”, di David R. Olson.
(4) Raffaele Simone, La Terza Fase, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 32.
(5) Anni fa, quando a Bari insegnavo in una scuola media di periferia, tra i miei alunni ce n’era uno – Pomponio – alto e grosso, che di sera faceva il pugile e la mattina, a scuola, dormiva. Un giorno stavo spiegando (lottando per spiegare) le congiunzioni subordinanti, in particolare la differenza tra ‘perché’ e ‘affinché’. Scrissi una frase alla lavagna: “L’ascensore si è fermato perché è andata via la corrente”.
Cosimo Pomponio si svegliò, alzò la testa, lesse la frase, ne fu colpito, e chiese: “Di che marca è l’ascensore?”. Io dissi che questo non c’entrava niente, e tuttavia presi sul serio la sua domanda: gli ascensori – dissi – vanno a corrente elettrica, eccetera. Lui replicò: “Non era un ascensore Bellomo” (suo cognato lavorava nella ditta Bellomo). Alzò le braccia come per annunciare il Verbo, e rivolto alla classe disse: “Gli ascensori Bellomo non si fermano, anche quando non c’è la luce”. Seguì un applauso.
Quando, in anni successivi, ho letto Alfabetizzazione e oralità, ho capito di più sulla “capacità di elaborare costrutti intensionali” (cfr. pp. 238-240). Data una certa frase, gli alfabetizzati sono in grado di esaminarla a prescindere dal suo significato, ignorando cioè il suo riferimento a una qualche realtà ‘esterna’. Ciò che della frase diventa oggetto di studio è il piano ‘interno’: i fonemi, i sintagmi. Come succede per le figure ambigue, dove alterniamo la doppia visione vedendo una figura alla volta senza confonderle, qualcosa di simile pare avvenga con il linguaggio verbale: con l’alfabetizzazione acquistiamo la capacità di tenere separati i due piani: quello del significato e quello della forma, ed è appunto la forma (i segni grafici “intensionali”) che diventerà oggetto di studio.
Diversamente da come avviene nelle società alfabetizzate, le società non alfabetizzate sviluppano una ‘grammatica’ che tiene conto sempre della realtà a cui il linguaggio si riferisce, vale a dire che accettano o rifiutano una frase non analizzando la sintassi, l’ortografia ecc. ma sulla base di proprietà essenzialmente pragmatiche. Un esempio: “Mario rubò i soldi a Luigi” è ‘sbagliata’ perché Mario ‘non lo doveva fare’.
Questa grammatica, che noi chiameremmo “di Pomponio”, viene chiamata dai linguisti “estensionale”.
Il persistere negli alfabetizzati di modalità di pensiero ‘ingenuo’ – non troppo distante dal modo di vedere e pensare e parlare delle culture orali – rende evidente una verità sacrosanta: quello di Pomponio – e di altri come lui – è un ‘errore scolastico’! (Tratto da Insegnare a chi non vuole imparare, di Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva, Edizioni del Gruppo Abele, Torino, pp. 41-44.)
(6) Nella scuola primaria tradizionale si usava far comporre ai bambini frasi anche decontestualizzate: i ‘pensierini’. Lo scopo di questo esercizio potrà sembrare inutile al fine dello sviluppo di capacità ‘logiche’, ed è probabile che sia così. L’utilità (lo scopo implicito, non dichiarato) dei ‘pensierini’ era quello di allenare la mente dei bambini ad acquisire schemi astratti di frasi ‘ben formate’ (sintatticamente corrette): analogamente all’apprendimento mnemonico di filastrocche e di poesie, i ‘pensierini’ generano un apprendimento inconsapevole di modelli da utilizzare sia nel parlato, sia per componimenti scritti dotati di ‘logica’.
(7) Cfr. il capitolo “Ridondanza e codificazione”, in Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000 (edizione ampliata), anche per un approfondimento delle teorie di Bateson relative alla natura del linguaggio e ai risvolti epistemologici della separazione tra soggetto e oggetto. Su questo tema segnalo un mio precedente scritto: “La natura dei discorsi e l’educazione del pensiero”, pubblicato sulla rivista “Naturalmente”, maggio 2001.
(8) Nelle lingue di alcune società non alfabetizzate la distanza temporale è segnalata con precisione ancora più grande. Le lingue bantu – scrive Raffaele Simone – “distinguono se un evento passato si localizza nel giorno dell’enunciazione, nel giorno o nella settimana precedente, alcuni mesi prima, ecc.” Alcune lingue, come lo yagua, “riconoscono anche un ‘passato mitico’, una forma speciale adoperata per narrazioni leggendarie”. R. Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 330.
(9) R. Simone, La Terza Fase, cit., p.34.
(10) Nella poesia questo tipo di calibrazione è quasi scontato.:
“Prima di scrivere dico le parole / ad alta voce /e viene un verso / scandito.” (Mario Papa)
Recensendo la raccolta di poesie di Mario Papa (Chiesto ancora, Empiria, Roma 2004), così scrive Emanuele Trevi: “La poesia è una lezione di natura formale: l’unica via per rendere efficace lo spazio  mentale e immaginale, che pure è uno spazio solipsistico, quello del tenerci stretti alla grana della voce, facendo sì che ogni parola, prima ancora di cadere nel punto esatto del verso, conservi la traccia di un fiato, di una direzione reale. La voce e il fiato comportano l’idea di un dialogo, perlomeno sondano quella possibilità” (“il manifesto”, 1/7/04).
(11) Cfr. il capitolo “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione”, in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, cit., pp. 324-356.
(12) I. Calvino, Lezioni Americane, “Rapidità”, Mondadori, Milano 1999, pp. 55-56.