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Il pensiero complesso dei bambini

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Presenterò un esempio di pensiero complesso, dal punto di vista di chi si occupa di educazione scientifica, così come si manifesta nel linguaggio con cui un gruppo di bambini di 4^ elementare discute a partire dalla domanda “Perché lo specchio inverte la destra con la sinistra, ma non l’alto con il basso?”.

Analizzando la frase si vede come essa contenga due affermazioni (“lo specchio inverte la destra con la sinistra” e “non [inverte] l’alto con il basso”), tra le quali si rileva una diversità inattesa (“ma”), e una richiesta di spiegare tale discrepanza (“Perché … ? “). Accettando di spiegare la discrepanza si accetta che tale discrepanza esista e che le due affermazioni siano vere. È quello che fanno gli adulti messi nella stessa situazione.

I bambini quasi subito mettono in discussione proprio le premesse implicate dalla domanda:

“Per come la penso io, non è vero che gli specchi invertono la destra con la sinistra.”.

Inizia un percorso di esplorazione della situazione e di co-costruzione di conoscenza. Vediamone alcuni
passaggi.
“Dipende dalla posizione. Se io mi metto con la faccia rivolta allo specchio cambia la…” viene chiarito che l’inversione pertinente è quella sull’asse perpendicolare allo specchio.
“Lo specchio è come se io ho un’altra persona di fronte” si sceglie come situazione di riferimento, per analogia, quella di due soggetti opposti frontalmente; in questo caso i punti di vista sono opposti e risultano invertiti i riferimenti spaziali:
“Se fosse girato come noi l’orologio starebbe sullo stesso braccio”
“È come se uno ti sta di fronte e ti alza la mano che vede che tu alzi, però se ti metti alle sue spalle è l’altra mano
Questa situazione richiama il “gioco dello specchio” in cui una persona di fronte a un’altra che si muove cerca di mantenere la corrispondenza tra le parti del proprio corpo e quelle dell’altro:
“È come se c’è un filo attaccato alla mia mano destra e alla sua” .
“Lo specchio è un vetro e allora è come se riflettesse proprio dove metto la mano… anche se riflette la mano sbagliata… come posso dire?… se io metto la mano là, lui mi rifà la mano, solo che mi fa la mano inversa, però insomma… è sempre la stessa mano.” il riferimento al “gioco dello specchio” permette di mettere a fuoco due “cornici”, ovvero contesti e pertinenze diverse cui corrispondono descrizioni diverse. Nel gioco è pertinente la corrispondenza punto a punto per cui quella è la stessa mano; nello specchio è pertinente l’orientamento destra-sinistra perciò quella è la mano inversa.

“Lo specchio… lui ci riflette… noi ci vediamo… se noi alziamo la mano destra, anche lui alza la mano destra, si può dire, perché… non alza la sinistra perché lui è la nostra sagoma identica e precisa. È come se c’è un filo attaccato dalla mia mano destra alla sua, dalla mia sinistra alla sua, quindi se alzo la mano destra anche lui alza la sua, però a noi ci sembra diversa perché la guardiamo di fronte.”
nel gioco vi è interazione percettivo-motoria senza rappresentazione; nella specularità la descrizione usa i riferimenti spaziali della rappresentazione.

“Lo specchio è come il nostro occhio…” nello specchio si può collocare un punto di vista e quindi una rappresentazione soggettiva, ma questa rappresentazione è resa visibile a me che sto di fronte (“lo specchio fa vedere”), dunque io vedo una rappresentazione di me da un punto di osservazione opposto al mio; l’inversione sta nella rappresentazione, che è un’operazione mentale (il “ragionare”):
Io penso che quella è la mia destra. Certo che, se ci mettiamo a ragionare, diciamo che quella è la sinistra, però dello specchio, nella posizione dello specchio.

La mia immagine speculare nelle due “cornici” ha due significati diversi: da una parte è la persona con cui gioco allo specchio e dunque il suo polso con orologio è in corrispondenza con il mio polso con orologio; nell’altra cornice è un “io” visto di fronte (speculare) che ha l’orologio sul polso “sbagliato”. Ma lo “sbaglio” non è dello specchio bensì della mia rappresentazione (“lo specchio riflette soltanto, senza ragionare”) e la mia rappresentazione la posso correggere:
“ma se tu invece ragioni, vedi che qua ho l’orologio…”

Rappresentazioni diverse danno luogo a descrizioni diverse:

ROMEO “Lo specchio se tu vieni avanti fa l’opposto.”
LISA “Io dico che fanno la stessa cosa, se uno va indietro anche l’altro va indietro.”
ROMEO “Ma anch’io dico che fanno la stessa cosa,tutte e due vanno avanti o indietro. Sono d’accordo con Lisa, solo in una cosa son contrario: che cambiano direzione.”

Il linguaggio può portare ambiguità, ma i bambini dimostrano di avere consapevolezza della natura della
differenza:
CHIARA “Vanno dal lato opposto, però fanno la stessa mossa.”

La percezione di una differenza attraverso il confronto implica un livello meta-cognitivo, una competenza
epistemologica:

LISA “Quello che dice Romeo è quello che si vede e quello che dico io è quello che fa.”
ADULTO “Sono affermazioni tutte e due vere, se cambiamo il punto di vista. Allora da quale punto di vista è giusto dire che la persona e l’immagine ‘sono invertite’? Chi è che può dire così?“
VOCI “Chi guarda.”
ADULTO “E chi dice che non c’è l’inversione chi è?”
STEFANIA “Chi fa, perché si trova nella stessa posizione,invece se uno guarda da fuori e non sta facendo, vede che sono diversi, uno è a destra e l’altro a sinistra.”

Questa competenza consente ai bambini operazioni molto sofisticate:

“Questo vale anche per le mani. Prima Chiara ha detto che non importa se quello che riflette è la mano destra o sinistra, cioè la mano opposta, ma che quella è la stessa mano; questa cosa che ha detto Chiara è la stessa che dice Lisa, cioè che vanno indietro tutti e due, e non ci interessa la posizione, mentre quello che diceva qualcun altro, cioè che io alzo la mano destra e lo specchio riflette la mano sinistra, è la stessa cosa di quello che dice Romeo, cioè che vanno in direzioni opposte.” 

si tratta di un doppio isomorfismo complesso tra il contesto avanti/indietro e quello sinistra/destra e tra due descrizioni, di cui una privilegia l’identità (stessa direzione del movimento – mano dalla stessa parte) mentre l’altra privilegia la differenza (direzioni opposte nello spazio – inversione sinistra/destra).

Dal punto di vista geometrico, poiché i tre assi spaziali sono equivalenti, dovrebbero esserlo anche le rappresentazioni che assumono come riferimento ciascuno degli assi; invece non è così. La domanda è: perché la rappresentazione basata su sinistra-destra è “diversa”? (e “spiazzante”: ovvero perché genera tanti problemi?

Anche qui i bambini hanno una intuizione:
“Mi sembra come se il su e il giù sono due cose troppo… troppo grandi, invece la destra e la
sinistra sono già più complicate, più…”.

La diversità tra gli assi spaziali non è a livello geometrico, bensì psicologico. Dal momento della nascita la percezione del peso del proprio corpo, e poi degli altri corpi, rende naturale l’orientamento altobasso (almeno finché il folle linguaggio della comunicazione sociale non colloca il Nord “in alto” e parla di “verticale” per indicare la direzione verso l’avanti in orizzontale, come accade nelle telecronache delle partite di calcio). Così pure la conformazione del corpo e l’uso della vista rendono naturale l’orientamento avanti-dietro. Invece l’orientamento destra-sinistra rimane problematico per molti, anche da adulti, a partire dal fatto che non è possibile in alcun modo definire la destra “in sé” o la sinistra “in sé” senza fare ricorso alla deissi.

L’esempio di questa conversazione tra bambini di 9 anni fa pensare che crescere non sia soltanto accumulare
competenze e saperi, ma anche perdere qualcosa, nello specifico la capacità di “pensare complesso” e quindi una buona dose di flessibilità epistemologica. La semplificazione è sicuramente un adattamento evolutivo per dei viventi che hanno acquisito la rappresentazione e il linguaggio, ma anche corrisponde meglio alla volontà di controllare il mondo, che però è irriducibilmente complesso.
Ma che cosa intendo dire quando sostengo l’ipotesi che il pensiero dei bambini è complesso? Vediamo alcune specificazioni. I pensiero dei bambini è sociale, nel senso che una conoscenza viene co-costuita da un gruppo e, come la cultura, è distribuita e condivisa: il soggetto della conoscenza è un sistema, che è diverso dalla somma dei suoi componenti. In questo esempio si passa da un’idea scientificamente inadeguata a una corretta attraverso l’interazione di gruppo:

GIANMARCO – La bambola non riscalda il letto, il peluche sì, perché quelli che ho io sono fatti di pelle e la pelle è calda.
CLAUDIA – Però devi vedere che bambola è, perché io una volta ho messo una bambola di plastica e…
CHIARA – Ha ragione Anastasia, perché un pupazzo grosso è pieno di piume e queste riscaldano e poi fuori c’è pure la pelle e questa riscalda ancora di più.
GIULIA – Il peluche non ha tutto quello che abbiamo noi dentro il corpo: non ha vita, non ha il calore, non sì muove…
SILVIA – Nella bambola e nel peluche non circola il sangue che riscalda l’oggetto.
ANASTASIA – Può avere ragione anche Giulia: non hanno vita i peluche, ma se tu l’abbracci, lo puoi riscaldare comunque.
ARIANNA – Secondo me Anastasia non ha ragione: la bambola e il peluche non sono esseri viventi…
CLAUDIA – … e non hanno la vita e non possono riscaldare il letto perché non hanno il sangue.

La co-costruzione di conoscenza ha come componente fondamentale il conflitto cognitivo. Ecco un esempio di “dialogo galileiano” basato sulla costruzione di una ipotesi e sulla sua confutazione a partire dall’osservazione e dall’utilizzo della logica:

FRANCESCA – Secondo me la Terra fa da specchio alla Luna e la illumina, perché la Terra prende la luce dal Sole e poi la rimanda verso la Luna.
DANIELE – Ma se dalla parte di Terra dove stiamo noi è notte, come facciamo a mandare la luce sulla Luna?

Il pensiero dei bambini è sperimentale:

MAESTRA – Se noi prendiamo l’acqua in un secchiello, il Sole si specchia?
DANIELE – Io ce l’ho il secchiello!
ANDREA – Prendila dove sta il Sole e un altro la prende dove è verde.
RICCARDO – Sì, facciamo così!

I bambini organizzano un esperimento là dove gli adulti cercano di ricordare ciò che hanno appreso. Il pensiero dei bambini è contestualizzato:

Sulla riva del mare, sett 2000, ore 15, Sole.
MAESTRA – Di che colore e’ l’acqua del mare?
RICCARDO – Celeste.
LAURA – Verde-acqua e gialla.
MAESTRA – Perché hai detto gialla?
DANIELE – Perché è il riflesso del Sole.
MAESTRA – Dappertutto c’è il riflesso?
LAURA – No, secondo dove sta il Sole: se sta a destra o a sinistra, oppure in mezzo, oppure davanti a noi.
….
MARIA LUCIA – Che quando c’è il Sole l’acqua è più chiara, quando non c’è l’acqua è più scura. Se ci sono le nuvole anche se è giorno, l’acqua è più scura.
MAESTRA – Perché?
ADAMO – Perché il Sole non può più riflettere.

L’essere legati al contesto del “qui e ora” viene spesso valutato solo in termini di mancanza di capacità di astrazione e di generalizzazione da parte dei bambini, ma la scienza stessa, che porta l’astrazione dei modelli e delle teorie ai massimi livelli, se li vuole applicare alla realtà, ha poi bisogno di ricontestualizzarli alla situazione concreta nella sua singolarità.
Il pensiero dei bambini è evolutivo, nel senso che procede per tentativi ed errori (il che rende necessario che i tentativi siano resi possibili e che sia resa disponibile una valutazione della loro efficacia), per variabilità e selezione di idee.
Il pensiero dei bambini è spregiudicato, ovvero privo di pre-giudizi, perciò non teme l’imprevedibilità. Nell’esempio che segue si tratta di prevedere quale sarà il prossimo numero di una sequenza sulla base di ipotesi sulla sua regolarità: la sequenza è fatta in modo da indurre “facili previsioni” che poi vengono smentite dopo alcuni passi.

in un gruppo di adulti:

(mormorii di disappunto e protesta)
IRENE – Le serie matematiche non funzionano così… finché non ci capisco niente per me è caotica … Io sono abituata a ragionare su serie con una legge matematica … La stessa legge che mi porta dal primo al secondo numero deve portarmi dal secondo al terzo e così via.

in un gruppo di bambini di 10 anni che hanno accolto con divertimento e senso di sfida le successive smentite delle loro ipotesi (comunque già diversificate tra loro rispetto a quelle degli adulti):

ADULTO – Quando potete essere sicuri che un’ipotesi di legge è giusta senza doverla più cambiare o renderla più complicata come abbiamo fatto finora?
LUCA – Quando è finita la sequenza.
ADULTO – E se non vi dico che è finita?
LUCA – Non potremo stabilire chi ha ragione.

Il pensiero dei bambini è creativo, nel senso specifico dello sfuggire i limiti del “tertium non datur”. Abbiamo già visto questo esempio, ma qui sottolineo l’atteggiamento dell’adulto, per il quale è difficile accettare che due affermazioni contrastanti siano entrambe vere:

LISA – Io dico che fanno la stessa cosa, se uno va indietro anche l’altro va indietro.
ROMEO – Ma anch’io dico che fanno la stessa cosa, tutte e due vanno avanti o indietro. Sono
d’accordo con Lisa, solo in una cosa son contrario: che cambiano direzione.
EMANUELA – Secondo me è un po’ tutte e due le cose.
CHIARA – Vanno dal lato opposto però fanno la stessa mossa.
ADULTO – Come può essere che hanno ragione tutti e due come dice Emanuela?
LISA – Quello che dice Romeo è quello che si vede e quello che dico io è quello che fa.

Il pensiero dei bambini si struttura su relazioni più che su oggetti:

CATERINA – Il Sole ci fa vedere i colori perché è di fuoco.
ANDREA – C’è il Sole che fa luce e ce lo fa vedere così, perché il cielo mica diventa rosso.

ovvero i bambini non sono ancora parmenidei o platonici, non pensano cioè che certe caratteristiche appartengano alla sostanza delle cose, ma le attribuiscono correttamente alla fenomenologia di un sistema (nel caso del colore il sistema comprende anche la luce con le sue modalità di trasmissione e la percezione visiva).

Il pensiero dei bambini è narrativo (il “pensare per storie” di Gregory Bateson):
ADULTO – Un tavolo di legno è artificiale o naturale?
PIU’ VOCI B – Artificiale e naturale.
B1 – Il legno è naturale ma poi viene trasformato.
B2 – Prima c’è l’albero ed è naturale, poi l’uomo gli dà la forma ed è artificiale.
ADULTO – Le trasformazioni sono tutte dello stesso tipo?
B3 – Dipende anche da che mezzi usano: se ci vuole una macchina per…

Qui si vede la contrapposizione tra il pensiero classificatorio dicotomico dell’adulto a quello dei bambini che ha le caratteristiche fondamentali del pensiero narrativo: la struttura temporale (prima – poi) e il riferimento al contesto. L’esempio dimostra che una maggiore efficacia dal punto di vista scientifico, ovvero di costruzione di buone rappresentazioni della realtà, non necessariamente richiede il primo tipo di pensiero.

Il pensiero dei bambini è meta-cognitivo, epistemologico, critico, perché consapevole del proprio funzionamento
e capace di riflettere sopra se stesso:
VITTORIA – Noi lo vediamo piccolo, ma è tanto grande.
NICOLÒ – Mercurio è come quando la corda è più corta, Plutone come quando è più lunga!

Altri esempi notevoli li abbiamo visti nella conversazione sullo specchio.
Il pensiero dei bambini è “affettivo”: questo linguaggio tradisce perché separa cognitivo e affettivo; sarebbe meglio dire che i bambini si collocano a monte di una separazione che sta nelle nostre “mappe”, ma non nel “territorio” del funzionamento del vivente.
[le chiocciole]
ELENA – Ma perché nel terrario stavano bene però erano un po’ prigioniere, invece devono essere libere…
CECILIA – … per andare dove vogliono; e poi è ora di andare in letargo, perché vanno a dormire quando è inverno.
GIULIA S. – Si nascondono sotto terra oppure vanno dentro i buchi del muro e dormono.
GIULIA R. – Perché devono ripararsi dalla pioggia…
GIULIA S. – Ma beh! Ma se escono fuori quando piove!
DEVIS – Uscivano pure quando spruzzavamo l’acqua…

Qui si vede come l’empatia e l’affettività, che nella prima parte si manifestano nella proiezione sulle chiocciole di un proprio mondo familiare (si tratta di bimbi piccoli), non ostacola, anzi stimola e acuisce lo sguardo scientifico che si nutre dell’osservazione della realtà. Questo riporta alla convinzione, suffragata dal materiale raccolto, che, di fronte a problemi complessi (non complicati) la conoscenza dei bambini è scientificamente adeguata. Le conversazioni da cui sono tratti gli esempi non provengono da situazioni eccezionali per quanto riguarda le capacità dei bambini; è invece importante mettere a fuoco alcune condizioni.

In tutte le conversazioni vigeva una “regola del gioco”, che era anche la mossa iniziale e la condizione istituente di un contesto di interazione, di un “gioco linguistico” specifico (diverso da quello dell’”interrogazione”): l’insegnante non poteva dire la sua nel merito dell’argomento trattato, anche se poteva fare tutti gli interventi che riteneva opportuni per regolare l’interazione e anche per aprire conflitti cognitivi attraverso domande, richieste, confutazioni.
Questa situazione rimanda a un “ascolto” di tipo etnografico, simile a quello degli antropologi che devono interpretare una fenomenologia, ma che per farlo non devono usare le categorie della propria cultura bensì quelle della cultura che stanno osservando (e che peraltro devono ancora scoprire).

Ciò implica l’ipotesi che i bambini siano portatori di una cultura diversa da quella degli adulti. Questa caratterizzazione adulti/bambini non è ovviamente assoluta, ne nasconde altre importanti come quella di sesso, di origine, di lingua ecc. ma ritengo che nella relazione educativa sia significativa e feconda per l’insegnante.
La prospettiva etnografica fa emergere anche l’equivoco della lingua condivisa: anche se i bambini usano le stesse parole di noi adulti, perché le pescano dallo stesso bagno sociale di linguaggio, non possiamo dare per scontato che esprimano attraverso di esse gli stessi significati. C’è un lungo percorso da fare per costruire un linguaggio condiviso o anche solo per integrarsi nel linguaggio degli adulti e faremmo bene a non dimenticare la polisemicità del nostro linguaggio, a volte folle e che comunque rende indispensabile la capacità di contestualizzare (si pensi come esempio a dei bambini che tentano di trovare le parole per dire la loro esperienza con il respiro e con il vento che muove nuvole e foglie e agli usi della parola “aria” che noi adulti facciamo, da “tirare l’aria” per far partire l’auto a “cantare
un’aria della Tosca” a “darsi delle arie” ecc.).

Quello che si cerca di favorire, a partire dal silenzio dell’insegnante (nel senso di silenzio dell’insegnare, ovvero del “fare lezione”, del dare risposte, spesso prima che le domande vengano formulate, ecc.) è l’autoorganizzazione del gruppo dei bambini. Il riferimento è all’autopoiesi di Maturana e Varela, per cui l’ambiente (l’insegnamento nel nostro caso) può perturbare il sistema innescando dei cambiamenti attraverso ristrutturazioni della sua organizzazione (ciò per cui è ciò che è). Ma la forma del cambiamento (apprendimento) non è determinata dalla perturbazione (insegnamento), bensì dall’identità del sistema (il gruppo o il singolo bambino), ovvero dalla sua storia.

Bibliografia

  • Marcello Sala, Il volo di Perseo, Edizioni Junior, Azzano S. Paolo (BG) 2004
  • Marcello Sala, L’arte di (non) insegnare, Change Torino 2007
  • www.marcellosala.it.