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Se gli strumenti del mestiere non hanno un nome?

Nell’ultimo Seminario internazionale ho condotto un laboratorio molto interessante. Riguardava l’analisi morfosintattica di un testo scritto centrata solo sull’articolo. Cosa molto semplice apparentemente, ma in realtà di grande impegno perfino ai livelli più alti dei nostri corsi: tutto dipende, infatti, dal tipo di sfida proposta dall’insegnante.

Il materiale era un articolo de La Repubblica, da cui, per i livelli più semplici, erano stati estratti solo due piccoli paragrafi. Si trattava di riconoscere gli articoli, di separarli in maschili, femminili, singolari e plurali e poi trovare la differenza funzionale tra determinativi e indeterminativi.

La classe dei partecipanti è stata divisa in quattro gruppi. Tutto è filato liscio fino all’ultimo passaggio, cioè il momento della definizione d’uso fra determinativi e indeterminativi in quel brano. Ricordo che è stato necessario negoziare un bel po’ fra due dei quattro gruppi per trovare omogeneità.

Allora, se questo si può verificare tra insegnanti che simulano una classe di livello basso, figuriamoci che cosa  può succedere in un gruppo plurinazionale, multietnico di studenti veri che affrontano lo stesso problema. Eppure, con molto coraggio e amore per le sfide, bisogna addestrare gli studenti a ricercare, a seguire una strada personale e autonoma d’apprendimento, senza il confronto continuo e deprimente con l’insegnante, ma con quest’ultimo in qualità di suggeritore stimolante, presente ma discreto, che fa crescere i discenti senza pretenderne stucchevoli ringraziamenti ad ogni piè sospinto; consapevoli, però, loro e lui, di un’empatia seducente e produttiva che spesso fa miracoli.

Coraggio e amore per le sfide, dicevo, ma anche tanta pazienza da parte dell’insegnante. Infatti, chi insegna una lingua a stranieri deve essere consapevole che tanti sono gli stili personali così come varie sono le tradizioni continentali ed etniche che riguardano l’apprendimento. Perciò il minimo che si possa fare è attendere con calma che avvenga un avvicinamento apprezzabile allo stile che noi vogliamo.

Forzare i tempi affinché questo avvenga non so quanto possa risultare produttivo ai fini di un’acquisizione prima e di un apprendimento poi, sui quali possa risiedere una buona competenza.

Potrebbe, al contrario, ingenerarsi una condizione poco simpatica, cioè la presenza di un filtro affettivo, vale a dire una difesa psicologica che la mente dello studente innalza allorché è costretto ad agire, ad esprimersi in uno stato d’ansia con la paura di sbagliare, di dovere insomma mettere a nudo la propria inadeguatezza, mettere a rischio la propria immagine, perdere l’autostima.

Ciò detto, vorrei ora passare a trattare una cosa, alla quale non avevo mai posto mente prima d’ora. Mentre infatti il Seminario si dipanava attraverso la normale liturgia dei laboratori, le pause, i pranzi, le cene e così via, mi sono trovato a riflettere, stimolato da un simpatico collega, su un aspetto del nostro lavoro: la possibilità, cioè, che vi siano studenti del tutto  digiuni di metalingua grammaticale non solo nella lingua 2, ma anche nella lingua madre e quindi incapaci di recepire la fase in cui l’insegnante dà le istruzioni per far eseguire un certo lavoro di analisi testuale.

In altre parole mi chiedevo come avrei reagito se, presentando alla mia classe un lavoro simile a quello del laboratorio, uno studente avesse alzato la mano ponendomi il quesito seguente: “Che significano le espressioniarticolo determinativo, articolo indeterminativo e, se fra questi c’è una differenza, qual è?”.

Davanti ad un simile quesito credo che, pur dopo un più che plausibile momento di perplessità, l’errore più grande sarebbe, a mio sommesso avviso, quello di avventurarsi in una spiegazione fatta di definizioni che trasudano nuova, incomprensibile metalingua e che, a loro volta, provocherebbero altre domande del discente, in una reazione a catena senza fine, col rischio per il docente d’incartarsi in modo irreversibile.

La cosa più semplice sarebbe quella di indicare sul testo due articoli, per esempio un la, dicendo che cosa sono, proprio come si fa indicando un oggetto o una persona, pronunciandone il nome. Meglio sarebbe fare questa operazione in modo ufficiale, come è stato fatto nel laboratorio del Seminario, cioè dando a tutta la classe il foglio di lavoro con le due diverse tipologie di articoli sottolineate e dando quindi inizio alle danze, cioè alle varie fasi che vanno dal lavoro da soli a quello di coppia, ai cambi e così via. Tale modalità fa sì che tutti abbiano una buona traccia su cui lavorare. Non solo, ma riduce e spesso azzera le possibilità che il singolo studente debba domandare troppo all’insegnante: niente di male, per carità, però sovente le persone non hanno la prontezza o l’audacia di fare domande, anche se l’insegnante si spolmona a dare sin dal primo giorno i mezzi per interagire anche con lui attraverso tecniche cosiddette lubrificanti.

Io sono convinto che, se si lavora rispettando rigorosamente certi passaggi nelle attività, il rischio che ci siano in classe casi speciali si riduca all’osso. E mi spiego. Un’attività di lettura analitica, secondo me, deve avere come prerequisito il fatto di essere intrapresa non su un testo didatticizzato, cioè manipolato o addirittura creato ad arte, ma solo su un testo autentico, già trattato in precedenza come lettura autentica, senza quindi problemi di comprensione generale o di vocabolario: questo ha il pregio di favorire una totale concentrazione dello studente sull’assunto analitico, senza altre inutili dispersioni.

Un’altro passaggio importante è quello della definizione d’uso o funzionale, se si vuole, riguardante la parte di morfosintassi su cui verte la ricerca: essa deve avvenire solo dopo la fase di riconoscimento delle forme che si vorranno poi meglio classificare e definire.

Ultima cosa, forse la più importante per chi fa ricerca, ma anche per chi studia: ogni volta che riusciamo ad individuare una regolarità e ci sembra, perciò, di essere arrivati alla fine dei nostri tormenti, anzi abbiamo la presunzione di sbandierare coram populo una regola ufficiale, puntualmente ci capita, passando ad esaminare un altro testo o addirittura un altro capoverso del medesimo testo, che quella regolarità non ha più vigore e le forme che avevamo esaminato hanno altre funzioni in un nuovo contesto. Per chi è in cerca di semplici, geometrici schemi su cui basare le proprie certezze, dogmatizzandole per accovacciarvisi sopra e sonnecchiare beatamente, tutto ciò può essere sorprendente e poco gradevole. Però succede ed è la molla che spinge tante persone a ricercare in ogni campo e quindi anche nel settore linguistico; e si andrà sempre avanti in un lavoro continuo, senza fine. Ciò non significa, tuttavia, che la conoscenza della grammatica sia un optional, anzi essa è della massima importanza. Ad ogni modo posso dire che quando c’è una decente scolarizzazione il triste fenomeno dell’ignorare la grammatica non si verifica. In tutta la mia lunghissima esperienza scolastica, infatti, ne ricordo appena due o tre, non di più. L’ultimo è proprio di questi giorni. Si tratta di uno studente di circa vent’anni di nazionalità australiana, ma di famiglia italiana, completamente privo di nozioni grammaticali e di metalingua anche in inglese. Sin dal primo giorno di scuola ho notato in lui una estrema capacità ricettiva dei testi scritti e orali e una fluente comunicatività con gli altri. Quando invece arrivava  il momento di analizzare un testo scritto succedevano le seguenti cose: dopo un iniziale momento di leggero sgomento, sottolineato da rapide oscillazioni del piede della gamba che era accavallata sull’altra e dal frugarsi un po’ in tutte le tasche quasi che potesse trovarvi qualcosa di risolutivo, assumeva un’aria triste e pensosa, rigirava  la penna tra le mani e poi, molto timidamente, cominciava a farmi domande sullo specifico punto di grammatica in questione,  lamentandosi  dei suoi scarsi risultati nell’analisi morfosintattici dei testi scritti con le solite frasi del tipo “Non ce la farò mai! La grammatica è arabo per me!” e via piagnucolando. Una volta ricordo che mi ha domandato persino se mangia finiva in per il fatto che il soggetto era femminile. Anche in questi casi un insegnante deve avere la forza di non lasciarsi cadere le braccia, ma sorridere, dando allo studente la tranquillità e la fiducia necessarie per superare la difficoltà.

Certo, avrei potuto alleviare momentaneamente le sue pene spiegando tutto in inglese, ma subito ho intuito che poteva essere un errore, perché ogni concessione in questa direzione sarebbe divenuta pian piano un’abitudine per lui e un tormento per me: non ne saremmo più usciti.

Comunque, la prima cosa che ho fatto è stata quella di parlare con lui privatamente facendogli notare i punti positivi della sua competenza comunicativa. Per quanto riguarda le sue ansie legate alla grammatica, gli ho fatto capire che non era il caso di drammatizzare troppo questo aspetto, che non c’era da parte mia nessuna pressione per ottenere nell’immediato alte performances: doveva solo seguire semplicemente  le mie istruzioni,  abbandonarsi con più fiducia ai lavori di gruppo nei quali credo molto. E basta.

Adesso siamo alla terza settimana di corso e va un po’ meglio. Anche Adrian, così si chiama, è più sorridente e rilassato. Segue puntualmente le mie istruzioni e socializza molto. Ogni tanto però, preso dal dubbio, si rivolge a me durante la ricreazione, per avere un riscontro sulla correttezza di ciò che ha imparato nel gruppo. Strano, ma vero: dalla socializzazione di gruppo ha sempre riportato informazioni corrette, da me giustamente enfatizzate proprio per spostare un pochino la sua attenzione dalla mia figura a quella dei compagni. Si è anche autoconvinto a comprarsi un libro di grammatica. Ovviamente questa vicenda mi ha molto incuriosito e una volta gli ho chiesto di poter parlare un po’. Lui ha accettato di buon grado l’invito al colloquio. Ho appreso così molti particolari della sua giovane esistenza che mi hanno fatto capire tante cose.

In casa, per esempio, non si parla mai l’italiano, ma o il dialetto calabrese o un inglese da emigranti.

È stato a scuola fino a sedici anni, ma, proprio per sua ammissione, aveva in grande antipatia lo studio dell’inglese, mentre privilegiava molto le materie scientifiche. A una mia precisa domanda se avesse mai fatto grammatica in classe mi ha risposto che sì, probabilmente si faceva qualcosa di simile, ma che lui puntualmente si distraeva o parlottava con una vicina di banco per tutta la lezione. Mentre mi parlava di queste cose notavo nel suo sguardo un velo di malinconia e di risentimento, come se qualcuno gli avesse tolto il gusto di studiare o, comunque, non lo avesse incoraggiato a sufficienza. Ad ogni modo, sono soltanto mie interpretazioni, dettate, questo sì, dalla voglia di capire ed aiutare, ma senza un riscontro oggettivo. D’altra parte mi sono anche accorto che dovevo fermarmi: quello che avevo capito era più che sufficiente per impostare una strategia scolastica ad hoc nei suoi confronti, come ho raccontato sopra, che lo portasse a riconsiderare l’opportunità di uno studio della lingua un po’ più metodico. E poi, per affetto verso questo allievo, non me la sentivo di essere troppo invasivo.

Dopo i sedici anni, comunque, Adrian veniva avviato al lavoro. Ora ne ha quasi ventuno e c’è quindi una bella fetta di tempo che lo separa dalle ultime esperienze scolastiche. Questo peggiora le cose, perché secondo me, quando ci si distanzia da un’attività inizia anche un processo di rimozione delle nozioni, delle motivazioni, della passione per il sapere che si sviluppano, permangono o sono suscettibili di miglioramento solo in presenza di una costanza, di un allenamento a pensare, a fare ipotesi, a riflettere, a cercare.

Non so se un’altro mese mi basterà a riaccendere in questo ragazzo lo spirito giusto per fare con piacere e competenza le cose di scuola in cui è , nonostante i progressi, ancora abbastanza carente. Conto di farcela perché la tigna e la grinta non mi sono mai mancate. Ho fiducia soprattutto in questa buona collaborazione che c’è fra lui e i compagni nel lavoro di gruppo e anche nella scomparsa di ogni fobia verso un certo tipo di lavoro sistematico che concerne appunto le attività analitiche nell’apprendimento di una lingua.