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La ninfa Eco e la sibilla Didattica

“Ma adesso basta parlare di me, parliamo di voi: che ne pensate di me?” (Bette Middler dal film “Beatches”)

Bette Middler aveva ragione.

Ormai, nonostante ogni suo tentativo, il ruolo a cui era abituata non le consentiva di uscire dal suo personaggio, cioè quello di diva abituata a concedere interviste ed essere al centro delle attenzioni di tutti.

Anche il ruolo dell’insegnante può dar vita a una situazione simile: crea l’aspettativa della risoluzione da parte degli studenti. Un insegnante parla con lo studente, pensa di capire, dà direttive per risolvergli il problema e via. Una sibilla.

La situazione è ben diversa.

La supposizione è alla base di questo atteggiamento risolutivo che non dà possibilità di replica allo studente e che, dal canto suo, è abituato ad aspettare il responso come oro colato. Anche quando il responso non centra il cuore del problema.

Il colloquio tra insegnante e studente deve allargare e sfumare i confini che i due hanno nelle dinamiche di classe. È un momento privilegiato in cui si incontrano due individualità che lì sono chiamate a svolgere un ruolo che è all’opposto di quello a cui normalmente si rifanno. Nel colloquio lo studente parla e spiega all’insegnante alcune delle sue idee o sensazioni; non ascolta solamente, come in una lezione, ma parla. L’insegnante agisce esattamente al contrario: non espone frontalmente ma sente lo studente e cerca di capire.

Fin qui tutto bene.

Tale rovesciamento dei ruoli sembrerebbe una piccola rivincita istituzionale dello studente, ma c’è un problema. Questa situazione in verità, nella dinamica di classe esiste, ed esiste in un momento preciso chiamato “interrogazione”. All’improvviso il colloquio si trasforma in una sorta di esame in forma privata, in cui lo studente accumula gli stessi stress creati dalle aspettative dell’interrogazione e come in quel caso alla fine dell’esposizione attende il responso finale.

Troppo facile. Troppo logoro. Troppo poco utile.

Ripartiamo dal rovesciamento dei ruoli, che ci sembrava una buona idea. Nel colloquio lo studente parla, l’insegnante ascolta. E più si resta vicini a questa condizione, più utile risulterà questo momento. Solo così lo studente viene messo al centro di uno spazio che rimane individuale e privilegiato per comunicare con l’insegnante.

Si crea, allora, un rapporto diretto tra i due, in cui lo studente espone quello a cui lui attribuisce una priorità maggiore. Vale a dire che non sempre le tematiche didattiche potrebbero risultare gli argomenti più pressanti per uno studente, che se ha un problema esterno alla classe, potrebbe forse risentirne manifestando difficoltà nell’apprendimento o più semplicemente nella concentrazione. E questo l’insegnante potrebbe non saperlo mai.

Dal punto di vista dell’insegnante, quindi, aumenteranno le conoscenze di cui tenere conto per facilitare il percorso e il progresso didattico di quel particolare studente. Soprattutto perché esiste la possibilità che lo studente parli di sue personali esigenze e non di necessità generali proprie della classe. Lo studente avvierà così un suo percorso verso l’autonomia e l’autovalutazione, chiarendo i suoi pensieri e focalizzando i suoi obiettivi già solo verbalizzandoli.

Ma come arrivare a sfruttare tutte queste potenzialità del colloquio?

La gestione degli spazi, dei tempi e dei modi del colloquio sono a carico dell’insegnante; e per far sì che il colloquio abbia il massimo della fruttuosità, nel nostro laboratorio è stata avanzata una proposta di colloquio basata su una “disciplina dell’ascolto” per l’insegnante.

Ci sono due punti fondamentali della “disciplina dell’ascolto” sui quali bisogna soffermarci e cercare di dare una spiegazione più esaustiva.

Il primo, e più importante, è la tecnica della riformulazione.

Non mi soffermerò a raccontare della nascita di questa tecnica, ma mi limiterò a dire che prende origine dalle teorie psicoanalitiche di Carl Rogers, uno studioso di psicologia attivo tra gli anni ’50 e ’60 negli Stati Uniti. La tecnica della riformulazione si basa sulla ripetizione in forma interrogativa da parte di una persona B, dell’affermazione che ha esplicitato fino a quel momento la persona A.

Questo si può facilmente gestire iniziando le frasi di rimando con espressioni come: “Vuoi dire che..?”, “Se ho capito bene..?”, “Cioè, tu..?”, “Allora tu pensi che..?”.

Agendo in questo modo abbiamo una serie di effetti che sono fondamentali per un colloquio più fruttuoso: la nostra naturale inclinazione a essere direttivi e quella di far scattare dei pre-giudizi vengono frenate da una seconda verbalizzazione del concetto appena espresso dallo studente. Ripetendo le affermazioni dello studente ci accertiamo di aver capito. E infine diamo l’opportunità allo studente di riconoscersi in ciò che ha detto o in caso contrario di precisare il proprio pensiero.

Tutto questo dovrebbe essere svolto con un ritmo che lo studente dà alla conversazione e non deve essere forzato dall’insegnante.

Il secondo punto importante, per la modalità con cui l’insegnante dirige il colloquio, parte proprio da questa considerazione sul ritmo del dialogo.

Nell’eventualità si presentino dei vuoti o delle pause di riflessione, l’insegnante deve saper tollerare i silenzi senza cadere nella tentazione di passare ad altro argomento o a essere risolutivo nei confronti dell’argomento precedente.

Soprattutto quando ci sono dei vuoti, l’insegnante dovrebbe stimolare lo studente con indicazioni che possono liberare energie o mobilitare risorse.

Questo va fatto solo dando piccole sollecitazioni che poi starà allo studente cogliere o lasciare in sospeso, nel caso le giudicasse irrilevanti; si possono offrire delle visioni alternative della situazione prospettata dallo studente, oppure chiedere direttamente se ha già pensato a una strategia per la soluzione di quella difficoltà.

Tutto questo solo perché molte volte uno studente crea dei blocchi nella convinzione di non poter uscire da un ruolo che si è cucito addosso. Bastano delle piccole induzioni per far dileguare i dubbi e dargli una nuova spinta verso una nuova fase dell’apprendimento (a riguardo leggetevi l’articolo di Claudio Chiavegato).

La riformulazione e la disciplina dell’ascolto non sono cose semplici perché hanno una natura opposta al nostro modo comune di gestire un dialogo, quindi si tratta di scardinare delle abitudini radicate da anni.

Prima di finire vi lascio con una storiella che sicuramente vi rimarrà impressa molto di più di tutte queste ragioni didattiche.

C’era una tizia che si chiamava Eco che di lavoro faceva la ninfa. Ora, per difendere le sue colleghe dall’ira di Era, che non voleva andassero con Zeus, lei distraeva la dea con la sua ottima capacità oratoria, dando modo alle altre di nascondersi o scappare. Era, però, scoprì il trucco e per vendetta annientò Eco facendone rimanere solo la voce. Ma non la voce normale, ma una voce maledetta, costretta a ripetere solo le ultime sillabe delle frasi delle persone che le parlavano.”

La storia finisce qui e prima che la vostra Era vi colga sul fatto, cominciate a fare esercizio di eco e riformulazione; così non vi troverete impreparati per il resto della vostra carriera 😉 .

Riferimento bibliografico

Rogers, Carl, 1954, La terapia centrata sul cliente, Boston.