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Insegnamento o apprendimento?

Come mi colloco nello spazio-classe? Come occupo questo spazio? E subito prima: dove mi colloco? E risalendo ancora l’interrogazione: come è connotato questo spazio? Come spazio dell’insegnante separato da quello del discente? O come spazio “globale” in cui insegnante e studente mescolano i loro raggi d’azione?

Che a livello fattuale significa poi chiedersi quale posizione assumo quando sto in classe (sto seduta, sto in piedi…) e quale atteggiamento, a cominciare da quello trasmesso dal viso (sorrido, sto seria, faccio delle smorfie…); dove mi metto, se dalla parte dell’insegnante (quasi ci fosse una linea invisibile a dividere la classe) o in mezzo agli studenti; se tendo più ad avere una collocazione frontale rispetto ad essi o tendo a defilarmi. E dunque significa chiedersi come è organizzato lo spazio della classe (come sono disposte le sedie, sia degli studenti che dell’insegnante, per esempio) e se questo è rigido oppure penso a intervenire su di esso in considerazione del tipo di attività così da favorirne lo svolgimento.

E poi: come mi muovo in questo spazio (osservando innanzitutto se molto o poco)? Come entro in classe? Come gestisco la distanza e la vicinanza rispetto agli studenti? Quali messaggi manda il mio corpo (anche al di là di quelli resi espliciti dalle parole se non addirittura contrari rispetto ad esse)?

Questi interrogativi sono alcuni degli items di un ambito di riflessione che si è andato sviluppando mano mano nel corso della mia esperienza di insegnante di italiano come lingua 2.

Se provo a risalire alle origini di questa riflessione, mi accorgo che essa affonda le sue radici in un terreno personale e psichico, toccando sfere molto delicate: l’essere nel mondo e il rapporto tra sé, il proprio corpo e le possibilità di espressione e comunicazione verso l’esterno ad esso connesse, mettendo in gioco una serie di elementi: la sicurezza, l’autostima, la padronanza di sé (e dello spazio da occupare), il senso di inadeguatezza e l’ansia conseguente, in una parola la mia emotività.

La stretta connessione con questo ambito tematico devo dire che è emersa subito, quando ancora il mio ruolo si giocava dalla parte dello studente, durante la formazione. Fin da allora si è reso evidente come il punto su cui concentrarmi e lavorare fosse proprio il mio stare nello spazio – classe, da occupare impadronendomene e da gestire attraverso il movimento del mio corpo che doveva diventare sempre più sciolto e morbido, “ciondolante” e mai rigido nello scambio con gli studenti.

Raccogliere la sfida ha significato allora cominciare a guardarmi dall’esterno e a “studiarmi” da questo punto di vista: così ha cominciato a delinearsi un ambito di riflessione che ha sicuramente influito nella scelta del laboratorio o comunque l’idea di quest’ultimo si è innescata su un terreno fertile.

Durante la preparazione del laboratorio infatti il riflettore (non solo metaforico) è stato senz’altro puntato sulla qualità dello stare in classe dell’insegnante facendo interagire e riflettendo sugli interrogativi posti all’inizio.

Si pongono a questo punto due domande di cui una è forse banale, ma la più diretta e conseguente; l’altra è stata un’obiezione emersa nel corso della discussione finale.

La prima: al di là degli agganci con l’ambito personale, perché abbiamo considerato importante questo aspetto al punto da sceglierlo come tema del laboratorio? Cosa significano e a che cosa rimandano le domande che si sono affollate in apertura del nostro discorso?

La seconda: come si concilia questa attenzione concentrata sul “comportamento” dell’insegnante con il tema generale proposto dal Seminario, Centralità del Discente”? Chi occupa una posizione veramente centrale nel nostro laboratorio?

Ad entrambe queste domande mi propongo di dare una risposta il più possibile chiara indicando qual è stato l’obiettivo che ci siamo posti all’inizio e durante la preparazione del laboratorio.

Innanzitutto è bene specificare su cosa precisamente abbiamo voluto riflettere riguardo alla gestione dello spazio – classe da parte dell’insegnante. Ci siamo soffermati a considerare non tanto comportamenti consapevoli e, per così dire, “scientifici”, collaudati e strumentali ad uno scopo ben preciso; bensì gesti e movimenti soggettivi e per lo più inconsapevoli, inconsci, che determinano però un notevole impatto emotivo con gli studenti.

Che la comunicazione non si giochi tutta attraverso il canale razionale della verbalizzazione ma che, prima ancora che abbia inizio lo scambio dialogico tra le persone, una rete di rapporti si sia già intessuta attraverso messaggi non codificabili perché appartenenti ad un linguaggio non verbale ma corporeo, è cosa nota dalla psicologia.

Ma cosa c’entra questo con l’insegnamento della lingua? Così suonava un’altra obiezione, la quale confina in qualche modo con la prima domanda che retoricamente ci siamo posti (perché abbiamo ritenuto primaria la qualità dello stare in classe dell’insegnante): se il fine dell’insegnante è quello appunto di insegnare la lingua, trasmettere cioè allo studente delle nozioni linguistiche, perché mi interessa tanto pormi delle domande sulla “chimica” che si stabilisce tra me e i miei uditori? Tra l’altro questi sono fatti “di pelle”, per l’appunto non codificabili, che vanno al di là degli atteggiamenti e delle azioni consce e controllabili… e quindi anche molto difficili da studiare.

Dunque?

Ora, io ritengo che la situazione – classe sia tale per cui la comunicazione con gli studenti vi gioca un ruolo fondamentale, soprattutto se, come io credo, un obiettivo primario ed essenziale per l’insegnante sia quello di focalizzare le condizioni più confacenti all’apprendimento, cercando di metterle in atto. Ed è proprio in questa direzione che ci siamo mossi con l’intento di andare a individuare, per lavorarci sopra, tutti quegli elementi di una comunicazione non verbale tali da costituire delle condizioni migliori affinché l’apprendimento avvenga senza ostacoli, senza fastidi e che sia dunque facilitato.

Per questi motivi abbiamo ritenuto importante questo aspetto, proprio perché costitutivo della situazione – classe e profondamente incisivo nei confronti dell’apprendimento.

In questo modo penso di aver, certo non esaurito, ma forse gettato un po’ di luce sulla nostra prima domanda; nonché ritengo di poter proporre il nostro ragionamento come riflessione a chi ci obiettava un nesso tra questo terreno e il “mestiere” dell’insegnante, inteso – tradizionalmente – come colui che insegna cioè infonde, trasmette allo studente delle nozioni.

Ora, il punto è che ci troviamo di fronte ad un rovesciamento, anzi ad una serie di rovesciamenti, e riflettere su questo rende oltretutto possibile rispondere anche alla seconda domanda circa l’attinenza del nostro studio con il tema proposto dal Seminario.

Ancora una volta dobbiamo partire dall’obiettivo che ci siamo posti: puntare sull’apprendimento è già un rovesciamento rispetto a partire dall’insegnamento: non sono io (insegnante) che insegno ma è lo studente che apprende; non io che trasmetto nozioni ma lo studente che assorbe, riceve strumenti per sviluppare una capacità critica, per produrre pensiero e la sua produzione è in crescita continua.

Già solo sul piano della sintassi si fa visibile in ciò che abbiamo detto il rovesciamento io/lui: è lo studente che occupa la posizione centrale.

Il nostro puntare il riflettore sull’insegnante dunque non va frainteso ma va pensato anch’esso nell’ottica di un rovesciamento: partire dall’insegnante per considerare la percezione che ne ha lo studente, l’impatto emotivo che comunque si verifica nei confronti dell’insegnante e della stessa situazione scolastica. L’obiettivo ultimo (ma non conclusivo, bensì suscettibile di ulteriori sviluppi e aperture) è quello di trovare una strada per portare lo studente stesso a ragionare su queste dinamiche e sulla sua percezione dell’insegnante; nonché l’insegnante a lavorare su sé stesso per analizzare le strategie comunicative che favoriscono il lavoro insieme e quindi l’apprendimento.