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Comunicare è possibile?

Si insegna soprattutto quando l’insegnante è disponibile a compiere
insieme all’allievo un percorso verso qualcosa che non si conosce.
[Blandino, B. Granieri, La disponibilità ad apprendere[1]]

…A un certo punto, verso la fine dell’ora, mi vengono incontro due
allievi di seconda, Marco e Domenico. Ridono ma sono un po’ imbarazzati:
– Professo’, è vero che lei non se la prende a male se
abbiamo detto pure qualche cosa contro di lei?
In teoria non dovrei prendermela, però in pratica…
Ma perché, cosa c’è che non va? Siamo stati a lavorare
in armonia fino a un’ora fa, e adesso mi venite a
dire che ci sono problemi?…
[Sandro Onofri, Registro di classe.[2]]

Ho appena finito di leggere un  libro di Sandro Onofri, scrittore e  insegnante in un Istituto Tecnico alla periferia di Roma, questo testo, pur rimandando alla letteratura piuttosto ampia sul mondo scolastico e sulle realtà difficili (periferie, quartieri a rischio, studenti problematici) sembra discostarsene in quanto il suo autore esprime un certo malessere verso una scuola che non si preoccupa “di assicurare la libertà necessaria all’espressione delle differenze, sia dei docenti sia degli alunni”[3]. anzi le schiaccia. Non è il caso di dilungarsi qui nell’interpretazione di questo libro quello che mi sembra interessante è il fatto che un insegnante si interroghi non tanto sul proprio ruolo quanto sulla qualità della comunicazione con gli studenti. In questo interrogativo vi è forse un punto in comune, anche se con un ribaltamento dei termini del confronto, con il laboratorio che Rosario, Francesca, Laura, ed io abbiamo presentato al seminario internazionale: la percezione che gli studenti hanno dell’insegnante.

La riflessione che si impone alla mia attenzione a posteriori riguarda la difficoltà a mettersi in gioco, a mettere in discussione i nostri ruoli sia come insegnanti sia come studenti. Non è possibile proporre soluzioni o chiavi di lettura riguardo a questa difficoltà, per quanto mi riguarda posso solo mettere sul piatto dubbi e domande con la speranza che trovino qualche risposta in chi leggerà. Forse non è un caso che la mia riflessione si sia incagliata nella parola difficoltà: difficoltà a mettersi in gioco come persone, su un piano umano e non didattico, a comunicare, a essere sinceri e a pretendere la sincerità, a individuare i propri obbiettivi in un terreno così impervio quale è quello della soggettività delle emozioni e delle percezioni che gli studenti hanno dell’insegnante, difficoltà a mettersi in discussione di fronte agli studenti e di fronte a noi stessi, difficoltà a decidere fino a che punto sia lecito e non sia pericoloso avventurarsi su questo terreno, difficoltà a distinguere le informazioni significative da quelle che non lo sono. È difficile mettersi in gioco perché non si sa che cosa si rischia, ma è un dovere farlo? Forse bisogna stabilire a quale livello, da quale punto di vista ci si vuole mettere in gioco e bisogna riconoscere che alla difficoltà a mettersi in gioco si affianca la difficoltà ad avere le informazioni attendibili al di fuori di me stesso, nel nostro caso dagli studenti, ad avere informazioni attendibili anche da me stesso, la difficoltà a decidere se sia giusto o no avere queste informazioni e infine la difficoltà a decidere che cosa fare con le informazioni raccolte. O forse ancora più a monte bisogna domandarsi se la decisione di indagare sulla percezione che gli studenti hanno di me come insegnante mi costi o no. Questo lavorio potrebbe bastare da solo a spiegare perché molti insegnanti non indagano. Eppure la premessa dovrebbe essere che quante più informazioni riesco ad avere dallo studente su come si sente, che cosa pensa, come mi vede, tanto più posso prendere decisioni efficaci. Avere informazioni spinge all’azione, produce energia, permette a insegnante e studente di uscire dai limiti di un rapporto fin troppo cristallizzato e di porsi in una posizione diversa, di riconoscere i limiti umani reciproci e affrancare il rapporto di apprendimento dai disagi derivanti dall’effetto fagocitante che tali limiti avevano prima.

Il titolo del laboratorio al quale ho partecipato nel corso del seminario era: “Non siamo perfetti”, il sottotitolo, non evidente, “Percezione e consapevolezza”, titolo e sottotitolo che a rileggerli adesso mi sembrano quanto mai ricchi di connotazioni, mi sembra infatti che la complessità e la voluta vaghezza si siano ulteriormente arricchiti di domande per una riflessione: non siamo perfetti come studenti e/o come insegnanti? Percezione e consapevolezza di chi ? E di che cosa? Punto di partenza è lo studente, allora parliamo di percezione e consapevolezza dello studente verso se stesso, dell’insegnante attraverso gli occhi dello studente, dello studente nel suo rapporto con l’insegnante? Domande forse destinate a rimanere senza risposta. Di base c’è, mi sembra, la necessità di superare i limiti dei ruoli e lavorare sul raggiungimento della consapevolezza, quella che studenti e insegnanti hanno di se stessi, e della percezione reciproca allo scopo di creare le premesse per una esperienza di comunicazione costruttiva per entrambe le parti in gioco[4]. Il termine comunicazione è usato qui nell’accezione a cui Martin Dodman ha fatto riferimento nel corso del suo intervento[5], nei termini cioè di un modello dialogico di comunicazione in cui i protagonisti  creano un significato insieme ma soprattutto si creano insieme, escono modificati da quest’esperienza. Alla luce di questo principio la consapevolezza consiste in una raccolta e ricezione di informazioni che condizioneranno spontaneamente l’esperienza di insegnamento e apprendimento. Allora il mettersi in gioco significa disporsi al dialogo, mandare il messaggio “Io sono qui, so di non essere perfetto, so che il vostro sguardo moltiplica la mia immagine “reale” e quella ideale in tante altre immagini diverse, so di non poter adattare il mio comportamento e la mia personalità a questa frammentazione, non pretendo di piacere a tutti e a tutti i costi, però voglio parlare con voi, voglio dialogare e ho bisogno delle informazioni che voi potete darmi”. Forse molti studenti non coglieranno questa occasione per sfiducia, diffidenza o sospetto, per mancanza di stima nell’insegnante, in se stessi o nell’istituzione, ma di sicuro qualcuno si esprimerà, dirà quello che pensa (anche solo per sfogarsi: “e mo’ l’ho detto!”).

E a questo punto? Sicuramente qualcosa cambierà tra l’insegnante e lo studente in termini di percezione e consapevolezza. Il fatto di non sentirsi perfetti, di farsi e di fare delle domande rappresenta un passo avanti per l’insegnante e per quello studente che riesce a dare voce al suo disagio. Forse è questo quello a cui si dovrebbe aspirare ad avere davanti uno studente che si senta libero di esprimersi e che acquisendo consapevolezza di sé e dei limiti umani dell’insegnante sia capace di superare i pregiudizi imposti dai ruoli reciproci e di conseguenza i disagi venuti dall’esterno (l’insegnante e gli aspetti  di questi che possono essere causa di fastidio e disturbo nell’apprendimento). Centralità dello studente ma anche dell’insegnante, allora, affinché si crei uno scambio reciproco senza dimenticare che, come si legge in Blandino-Granieri: “il processo educativo è un’interazione tra due menti che si influenzano reciprocamente[6] e che ”il processo di crescita cognitiva può essere incrementato se vi è una persona che aiuta l’individuo a modulare il disagio, cioè lo aiuta a chiarire e differenziare i vissuti…”[7].

Realizzare tutto questo è difficile in quanto le resistenze da entrambe le parti sono numerose, perché studente e insegnante non sono  due entità facilmente definite e definibili ma “la somma delle singole personalità”, bisogna tener presente tutto quel bagaglio di aspettative, proiezioni e pregiudizi che studente e insegnante si portano in classe e, inoltre, non bisogna dimenticare che insegnante e studente occupano due posizioni asimmetriche, tutti elementi che influenzano inevitabilmente il tipo di relazione e la condizionano.

[1] G. Blandino, B. Granieri, 1995 La disponibilità ad apprendere, Milano, Raffaele Cortina Editore, p.15.
[2] Sandro Onofri, 2000 Registro di classe, Torino Einaudi, , p. 16
[3] Op. cit. pp. 9-10
[4] Per percepire l’altro è necessario, come scrive Vittoria Gallo negli atti del X seminario Internazionale, “percepire prima di tutto se stesso/a e le emozioni che ci provocano le parole e i gesti dell’altra persona”. Vittoria Gallo, 1998, “Ti vedo come tu ti vedi?” in Insegnare una lingua: riflessioni e proposte. Atti del 10°seminario internazionale per insegnanti di lingua, Edizioni Dilit, p.109
[5] Vedi nel presente volume.
[6] G. Blandino, B. Granieri; op cit.  p.13
[7] Op.cit. p.14