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Movimento creativo

Intervista alla collega Vittoria Gallo

D: Tu hai fatto e continui a fare esperienza di Movimento Creativo. Come hai riportato questa esperienza in classe?

R: Se si lavora sulla lingua parlata anche a livello analitico (mi riferisco ad attività come la Ricostruzione di conversazione) curare la parte che si esprime attraverso la comunicazione fisica non è opzionale. Esprimersi in tale senso non vuol dire pretendere che gli studenti facciano le scimmie, ma renderli coscienti che un italiano che in una data situazione pronunci un enunciato con il quale mostra “curiosità”, a meno che non sia intenzionale, non sta fermo immobile. Così come pure se chiede: “che hai fatto ieri?” sta andando verso l’altro, quindi se lo studente, pronunciando questo enunciato rimane rigido, si tiene indietro, c’è qualcosa che non funziona al meglio nel suo comunicare in italiano, c’è qualcosa che può essere migliorato verso un comportamento gestuale più autentico. La cura di questo aspetto generalmente aiuta il lavoro sulla parte strettamente fonologica.

D: Allora possiamo dire che questa esperienza ti ha dato degli strumenti per vedere meglio gli studenti e per aiutarli meglio.

R: Certo. Una attenzione maggiore a come le persone si muovono significa avere una apertura maggiore a recepire i messaggi non verbali che ti arrivano. Il che significa che nel momento in cui non ti serve funzionalmente il farli muovere, comunque ti arrivano i loro messaggi non verbali in modo più diretto. Come insegnante stai più attento alla loro decodificazione. Questo non significa che funzioni sempre, che io possa sempre interpretare, però hai uno strumento in più. Il lavoro sul corpo che ho fatto aveva per certi aspetti un territorio di confine con la psicanalisi per cui ho imparato per esempio che se il movimento di una persona mi crea fastidio, c’è una differenza tra il dire che la persona mi crea fastidio oppure che il fastidio mi viene dal suo modo di muoversi. Sono due livelli diversi. Quindi in questo senso l’attenzione verso le persone è maggiore. Inoltre devo dire che oggi sento una insoddisfazione totale perché nonostante i nostri sforzi in classe le nostre lezioni sono sempre troppo ferme. Sento cioè che c’è una carica di energia che non si esprime e che invece se fosse espressa determinerebbe la migliore riuscita di alcuni lavori. Non si può proporre di stare fermi per quattro ore e non si può scambiare per movimento il fatto di muovere la sedia per andare verso un altro studente.

D: Al Seminario tu sei stata conduttrice di un laboratorio (Dare “la vita” a un testo scritto) e partecipante in un altro (Letteratura in “Azione!”). È stato detto da alcuni che questi due laboratori erano uguali. Puoi dire qualcosa a questo proposito?

R: Potevano in realtà essere confusi ma solo da una persona poco attenta. Erano simili nel senso che tutti e due lavoravano su testi in cui c’erano dei dialoghi, tutti e due avevano un momento di lavoro separato tra coloro che dovevano essere gli attori e coloro che dovevano condurre gli attori. Il laboratorio a cui ho partecipato come studentessa è stato quello dell’attività su “Il giorno della civetta”: io ero la persona che doveva aiutare l’attore a realizzare tutta la parte fisica che però era già descritta nel testo. La mia quindi doveva essere una funzione di supporto, cioè il consulente di recitazione, rispettando il testo. Nel lavoro che io ho condotto, invece, nel testo non c’erano riferimenti all’azione fisica, a come i personaggi si muovevano. C’era solo dialogo. Quindi gli attori dovevano inventare tutta la parte gestuale, cosa che invece non veniva esplicitamente richiesta agli attori nel primo laboratorio e che veniva poi presa in considerazione dall’intervento dell’insegnante di recitazione. Nel secondo dovevano invece fare scelte sull’interpretazione e sul movimento. E anche la collocazione nel tempo doveva essere decisa oltre che quella nello spazio. Quindi non c’era sceneggiatura. Inoltre i non attori avevano il ruolo di registi ed era un ruolo critico, che rischiava di essere castrante (e in alcuni casi lo è stato anche). Insomma sono stati due modi di lavorare su un testo letterario completamente diversi.

D: Per quello che hai visto e vissuto tu, che differenze di accettazione e di svolgimento ci sono state tra gli studenti a ricoprire questi diversi ruoli?

R: Non ho ancora provato in classe il laboratorio su “Il giorno della civetta”, mentre l’ho fatto con il mio tre o quattro volte. Quando si lavora con il movimento, cioè si pretende che le persone si muovano, c’è un percorso quasi obbligato: un po’ come succede con i bambini bisogna che si muovano da una situazione più protetta per andare verso la libertà. Quindi, a meno che la classe non sia particolarmente estroversa dal punto di vista del movimento, dell’agire, dell’esporsi, del giocare, sicuramente il vostro laboratorio (Letteratura in “Azione!”) era più protettivo perché non c’era la libertà assoluta. La libertà assoluta è una conquista, però è chiaro che più è ampio lo spazio entro il quale la persona deve decidere, più può prodursi nella persona un certo panico. E questo soprattutto perché, anche se noi non ce ne rendiamo conto, i movimenti producono emozioni, tanto è vero che una persona contenuta dal punto di vista fisico molto probabilmente lo sarà anche dal punto di vista emozionale. È difficile trovare una persona molto estroversa dal punto di vista emozionale e contenuta fisicamente. Allora è chiaro che chiedere alle persone di muoversi deve accompagnarsi alla consapevolezza che questo “agire” mette in gioco diverse cose: la capacità di usare la libertà, quella di muoversi nello spazio più o meno grande, la capacità di sopportare ciò che comporta dal punto di vista emozionale il movimento che il personaggio interpretato sta facendo, e il giudizio, perché il problema vero è che si attribuisce agli altri il giudizio che noi diamo su di noi quindi se sono persone molto autogiudicanti si castrano prima di partire (diranno cose del tipo “io non sarò mai capace, non lo farò mai”). Date queste premesse è evidente che il laboratorio condotto da me era più rischioso perché lo spazio è molto più ampio e perché poi c’è un giudizio. Tanto è vero che la coppia che, da attori, non si è mossa è stata la stessa coppia che è entrata in conflitto quando ha poi dovuto lavorare con il regista. La grande indisponibilità soprattutto di una delle due persone-attori che si è riconfermata nel momento di incontro, aveva probabilmente alla base un forte senso di paura, che poi si trasforma in rabbia da riversare su qualcuno.

D: Da quello che dici, però, un insegnante potrebbe capire che avventurarsi in questo terreno può essere molto rischioso. Quindi da evitare.

R: Ci sono insegnanti che hanno con il proprio muoversi un buon rapporto. Per questi credo sia possibile avviare una sperimentazione nello spazio sempre maggiore. Chi invece non è disposto a mettersi in gioco non avrebbe neanche l’autorevolezza per chiamare gli studenti a mettersi in gioco. Trovo sbagliato che nella formazione di un insegnante sia dato per scontato che cose, tipo la grammatica, il metodo, le tecniche di insegnamento si debbano imparare, mentre questo aspetto sia lasciato all’arte di arrangiarsi ovvero considerato come facente parte del patrimonio personale. La formazione di un insegnante dovrebbe lasciare più spazio e curare l’ambito delle emozioni, del movimento, che non è soltanto teatro ma anche scatenamento dell’energia fantastica. Lavorare su attività come la Ricostruzione di conversazione solo a livello intellettuale, lascerà fuori tutta la parte fisica ed emozionale del testo, che è poi la parte della comunicazione più autentica.

D: Nella tua esperienza questo scoprire o toccare i propri limiti o/e consapevolezze nel movimento da parte degli studenti, questa pratica di una sorta di interlingua del movimento agita nella lingua bersaglio, presenta differenze tra studenti provenienti da aree culturali diverse? Diamo forse per scontato che, a parte le caratteristiche personali in questo tipo di ambito, gli studenti di cultura occidentale partano avvantaggiati in questa interlingua mentre per esempio per gli orientali sia più difficile. Senza pretese di scientificità, che cosa hai notato tu?

R: Le culture orientali non sono tutte uguali. Tra giapponesi e coreani questi ultimi sono molto più estroversi, c’è maggiore chiusura e contenimento dell’energia nei giapponesi. Per i coreani è più facile muoversi o comunque hanno meno rigidità. Per gli europei ho fatto una riflessione di questo tipo: spesso in presenza di problemi tipici dell’adolescenza si consiglia di studiare un’altra lingua. Studiare un’altra lingua non vuol dire solo entrare in un’altra cultura ma anche in una parte di sé che nella propria cultura non può essere espressa. Per esempio le culture nordiche sono per certi versi più vicine a noi però spesso ho notato un po’ il divertimento, un po’ l’imbarazzo, un po’ la gioia fisica di poter esprimere alcune parti emozionali di sé attraverso la lingua italiana. Ma perché? La lingua italiana non è solo lingua e ti permette di muoverti in un certo modo. Credo che imparare a muoversi dentro una cultura arricchisce non solo linguisticamente ma anche personalmente. Volevo aggiungere che lavorare sul movimento mi sembra utile e possibile per aiutare non soltanto al livello della lingua parlata ma anche nella lingua scritta. Ho fatto per esempio scrivere una storia (per onestà devo dire che la classe era particolarmente creativa) in cui ognuno doveva, come prima cosa, crearsi un personaggio segreto che doveva muoversi con le caratteristiche e con il carattere di quel personaggio: ogni cinque minuti un personaggio agiva qualcosa di fronte agli altri e chi guardava doveva inserire, interpretandolo, nella propria storia quel personaggio e ciò che aveva fatto. Sono venute fuori cose interessanti la cui particolarità non è sfuggita agli studenti: non è facile che una signora giapponese si metta a quattro zampe perché “è un cane”, o che l’extraterrestre si manifesti muovendosi nello spazio proprio come quella materia informe che ha deciso di essere.

D: Quindi il movimento come rivelatore e attivatore delle parti segrete di sé sia verso se stessi che verso gli altri.

R: Sì.

D: Sarebbe bello allora, partendo dalla convinzione che dal movimento si libera un’energia positiva che aiuta l’apprendimento, ridisegnare le attività che svolgiamo in classe. Per la Ricostruzione di conversazione una modalità che tenga conto della dimensione movimento possiamo vederla subito utilizzabile.

R: Sì. Per la lingua scritta potrebbe essere una modalità da utilizzare ma non inflazionare, altrimenti perde la sua originalità. C’è un’altra cosa che vorrei dire. Due anni fa ho vissuto un’esperienza di teatro condotta da un indiano dell’India. C’è stato un momento in cui, siccome c’erano suonatori dal vivo, c’era un tale eccesso di energia che io non sono riuscita a muovermi. Cioè, spesso si pensa che l’insegnante più energetico è meglio è, mentre in alcune situazioni e con alcuni tipi di persone, troppa energia può essere paralizzante per gli studenti e comunque per chi ti sta di fronte.