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L’attore che è dentro di noi

Un giorno di tanti anni fa, quando ero ancora una accanita lettrice di fumetti, mia madre, cervello intellettuale di notevole levatura, mi disse: “Ma come fai a leggere questa roba: io non la capisco!”. Notate bene, il pronome diretto non è un refuso: si riferisce alla “roba”, cioè ai fumetti. Dunque non capiva i fumetti. Allora mi sembrò un fatto piuttosto stravagante, vista la sua intelligenza e la sua cultura, ma lo attribuii alla sua vegliardaggine. Oggi, che ho più o meno la stessa età che aveva mia madre all’epoca, vedo le cose un po’ diversamente. Ma non per meri motivi di vecchiaia, visto che rifiuto accanitamente di collocarmi non solo tra gli anziani, ma addirittura tra i “maturi”. Il fatto è che, secondo me, mia madre non era stata “formata” a leggere fumetti e quindi non le piacevano perché non li capiva; non era abituata a far lavorare la sua immaginazione con quel tipo di testo e le immagini non le dicevano assolutamente nulla, mentre io potevo capire tutta la storia senza leggere una sola parola dentro alle “nuvolette”. Insomma un autentico gap generazionale e intellettuale. Fortunatamente io non mi sono limitata a nutrirmi di fumetti per cui oggi sono una accanita lettrice e una certa armonia è tornata tra me e mia madre (anche se, mentre io adoro la fantascienza, lei lo ritiene un genere minore, cosa che genera, ancor oggi, accese quanto inutili discussioni letterarie).

Così come la mia mamma, che non era formata a leggere fumetti, spesso le giovani generazioni, abilissime a decodificare qualsiasi tipo di immagine, non hanno la stessa genialità e arguzia quando si tratta di affrontare un testo letterario, non hanno il piacere di leggere e si precludono tutta quella dimensione fantastica e creativa a cui il leggere dà accesso. E questo provoca in me un profondo dispiacere, ma non implica né giudizi pessimistici sul futuro del genere umano, né nostalgie per i bei tempi andati, che per qualsiasi generazione sono migliori dei presenti. Quello che mi suscita, è la voglia di misurarmi su un terreno ricchissimo di possibilità, ma pure di probabili delusioni.

L’idea del laboratorio organizzato insieme a Virgilio e Claudio, mi è venuta partendo da un desiderio e da alcune considerazioni. Le considerazioni prendevano spunto dal fatto che, lo stesso testo, letto da persone diverse, provoca immagini diversissime soprattutto relativamente a tutte quelle parti in cui l’autore o l’autrice non descrivono molto rispetto ai personaggi: niente indicazioni sull’aspetto o sull’epoca o sul modo di parlare o sui gesti per cui il/la lettore/lettrice deve usare tutta la sua fantasia per permettere alle parole del testo di diventare immagini. Il desiderio era quello di compiere un ulteriore passo dalla dimensione puramente immaginativa alla fisicità: usare e far usare ai miei studenti il corpo in modo creativo (a volte la staticità delle nostre lezioni è terrificante e penso che possa uccidere qualsiasi fantasia e qualsiasi voglia che non sia strettamente mentale!) trasformando in gesti, movimenti, espressioni del viso, toni di voce, le immagini che il testo produce.

Quando ho incontrato il racconto di Stefano Benni “Coincidenze”, ho sospettato che fosse una delle rare prove dell’esistenza di Dio: era assolutamente perfetto per quello che volevo fare. Breve, senza indicazioni precise relativamente ai personaggi, nessuna indicazione sull’epoca né sul modo di muoversi né sulle espressioni del loro viso, né sull’età dei due protagonisti.

A questo punto si trattava soltanto di immaginare in quale situazione collocare i miei studenti per dare loro la possibilità di tirare fuori l’attore che è dentro ognuno di noi ma che ha vergogna di uscire a causa della nostra insana abitudine a giudicare ed a giudicarci: mi sento ridicolo/a, non lo so fare, cosa diranno gli altri se l’interpretazione non è da Oscar, insomma tutti quei pensieri tipici che accompagnano i nostri tentativi di resistenza attiva o passiva all’entrare nel mondo della creatività attraverso quel meraviglioso strumento (ed uso questa parola nel senso musicale del termine) che è il nostro corpo. Ci è sembrato che la situazione più adatta fosse quella di un provino teatrale con un regista famoso quanto esigente, scelta che ha comportato la necessità di strutturare l’attività nel modo che segue.

Giochi distruttivi: distruzione del gioco

Durante i due laboratori da me condotti mi sono trovata di fronte a comportamenti a volte simili a volte diversi da quelli degli studenti a cui ho proposto questa attività in classe, fatto questo di per sé abbastanza ovvio, visto che difficilmente il pubblico che partecipa ai nostri seminari ha lo stesso grado di conoscenza e di affidamento nei confronti di chi conduce il laboratorio di quello che hanno studenti con cui ci si frequenta e si interagisce tutti i giorni (e vista anche la comprensibile, anche se non sempre giustificabile oltre un certo limite, diffidenza che gli insegnanti hanno iscritta nel loro codice genetico, verso altri insegnanti che li debbano condurre, magari in territori a loro non molto congeniali come quello dell’uso del corpo). Chiunque voglia proporre questo tipo di attività, e qualunque sia la caratteristica degli studenti, penso debba fare molta attenzione ad alcuni elementi che, se non considerati, possono comportare conseguenze negative alla buona riuscita di questo tipo di lavoro.

Se l’insegnante ritenesse di sentirsi ridicolo/a a fare le stesse cose che chiede di fare ai suoi studenti è meglio che cambi attività. Può sembrare banale quello che dico, ma, almeno per come io propongo questo modo di leggere un testo, chi conduce deve essere disponibile a mettere in gioco il suo corpo tanto quanto devono esserlo gli studenti. Anzi di più, perché non è attraverso le parole che si convincono gli altri a non vergognarsi: il corpo non mente perché i messaggi che trasmette non sono controllabili dalla razionalità, se non in misura minima, e, a mio parere, nessuno (che abbia dei problemi a eseguire un lavoro di questo genere) affronterà le sue paure a creare il testo attraverso il corpo se non ha di fronte qualcuno capace di giocare lo stesso gioco insieme a lui/lei.

Nel dare ai registi la consegna di essere “molto esigenti”, penso sia bene sottolineare che esiste il pericolo di sconfinare in un tipo di inflessibilità che rasenta il sadismo. E questo porta alla distruzione del lavoro. In realtà, se devo essere onesta, questa situazione non si è mai verificata in classe, mentre si è pienamente realizzata durante uno dei laboratori da me condotti al Seminario nel quale, da una parte c’era una regista di una inflessibilità eccessiva, dall’altra un attore assolutamente indisponibile a qualsiasi modificazione della sua interpretazione. La competizione, cominciata da subito, ha comportato: una inutile (ai fini del lavoro) sfida di potere che ha, naturalmente, escluso l’altra persona che aveva il ruolo di attrice; il montare di una rabbia sempre meno contenuta e sempre più distruttiva; una certa dose di ansia dentro di me che non ho mai provato con i miei studenti. Naturalmente, se avessi conosciuto un po’ meglio le persone, avrei distribuito i ruoli in modo differente: colui che ha giocato il ruolo di attore avrebbe sicuramente fatto il regista, vista la sua totale indisponibilità a vedere modificate le sue scelte.

Conseguenza quasi automatica di ciò che ho appena illustrato è che una attività come questa può essere svolta con una classe con cui si ha un rapporto di fiducia e facendo attenzione alle caratteristiche delle persone a cui si affidano i ruoli.

Linguaggio del corpo e corporeità della lingua

Quello che mi affascina di questo tipo di lavoro e che, nello stesso momento, rende un’attività di questo genere un po’ più complessa di quello che appare, è la possibilità di unire, almeno per un certo tempo, “pezzi” di noi che troppo spesso sono atomizzati, nella vita come nello studio: la gestualità, la mente, le immagini dentro di noi, la voce, le emozioni. Ci si può muovere in molti modi: eseguendo in modo meccanico dei gesti e separandoli dalle emozioni che comportano e dalla lingua che si sta utilizzando o, al contrario cercando di rimanere in contatto con il mondo fantastico, creativo, emozionale in cui entriamo attraverso la fisicità. Se fossimo tutti un poco più attenti a noi stessi ed a ciò che ci accade, se avessimo più consapevolezza di ciò che siamo ed esprimiamo qui ed ora, ci renderemmo conto che, se è vero che alle emozioni corrisponde una determinata gestualità, è anche vero, al contrario che, partire dalla gestualità ci porta dritto dritto a toccare emozioni ed immagini interiori con cui, a volte, facciamo fatica ad entrare in relazione. “Lo psicodramma corporeo porta a rappresentare nella scena ludica quanto è percepibile ed intuibile nel vivere. In questa realizzazione che sa di poesia, di gioco, di fisiologia degli elementi, si colgono i nessi analogici tra le funzioni somatiche, le emozioni ad essa riferite, le relazioni con la propria storia, le scoperte di nuovi significati da accogliere per elevare a coscienza la propria natura”. (Gesmundo, E., “Lo psicodramma corporeo” in Riza Scienze, n° 132, marzo 1999). Grande è, naturalmente, la distanza che separa il terreno terapeutico dello psicodramma da un lavoro come quello da noi proposto.

Credo, tuttavia, che si debba avere consapevolezza del fatto che proporre la trasformazione del mondo fantastico in cui un testo può farci entrare, in agire creativo attraverso la corporeità comporta l’entrare in un territorio delicato in cui la persona mette in gioco molto di più della sua abilità a confrontarsi con delle difficoltà linguistiche: nessuna delle/dei colleghe/i che ha partecipato al laboratorio aveva problemi da questo punto di vista. Moltissime/i, però credo si siano sentite/i a disagio quando hanno scoperto che dovevano muoversi. Badate bene che non ho detto “quando hanno scoperto di dover fare gli/le attori/attrici” ma proprio quando ho loro “imposto” di muoversi: la tendenza era quella di lavorare da seduti/e, spostando quindi tutto sul piano della interpretazione mentale (anche l’uso della voce cambia completamente se ci si deve muovere).

Dall’altra parte posso assicurarvi che grande è la gioia nel vedere le persone, pur con tutte le loro timidezze, entrare nel mondo immaginario del gioco; abbandonare, anche se con grandi imbarazzi, i propri schemi corporei per dare vita, nel vero senso della parola, ai personaggi fantastici apparsi nella propria mente; ritrovare il gusto infantile del “facciamo che io ero…”; interrompere, sia pure per un attimo, le loro abitudini motorie “espandendosi” fisicamente, emozionalmente e, posso metterci la mano sul fuoco, anche linguisticamente.