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Nell’insegnamento comunicativo quanta attenzione viene posta alla comunicazione in classe?

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Più di una volta, durante dei miei interventi di aggiornamento ad insegnanti di lingua, mi è capitato di sentir dire che ciò che avevo da proporre faceva già parte della prassi didattica di coloro che mi ascoltavano. Roba vecchia, scontata, si diceva. Se però non mi congedavo subito, complimentandomi con loro, e invece continuavo ad ascoltarli parlare dei loro alunni mi accorgevo che qualche cosa non andava: il tipo di percezione che risultavano di avere riguardo ai propri alunni indicava che non poteva essere vero che facevano in classe ciò che io avevo proposto.

Qual è allora la causa dell’equivoco? Ho imparato durante gli anni che sta nelle parole. Dire “far leggere un testo”, per esempio, può significare cose diverse per insegnanti diversi. Può significare che gli studenti devono leggere il testo a casa con l’aiuto di un dizionario, può significare che il testo viene letto in classe ad alta voce dagli studenti, un capoverso a testa, mentre gli altri ascoltano e seguono il testo con gli occhi, può significare che l’insegnante legge ad alta voce mentre gli alunni ascoltano seguendo il testo con gli occhi, o altro; in ogni caso può includere o no altre cose come la spiegazione del senso del testo da parte dell’insegnante con parole sue, oppure la precedente spiegazione del significato delle parole “chiave”, o la traduzione letterale di tutto il testo, eccetera, eccetera.

Insomma ho imparato che le parole che usiamo nel nostro mestiere sono ambigue. “Far leggere” non ha un solo senso, figuriamoci “far parlare”, che può significare tutto, dal pretendere risposte corrette a domande poste dall’insegnante fino all’organizzazione di tante conversazioni libere e lunghe svolte in contemporanea dagli studenti divisi in coppie senza nessun intervento da parte dell’insegnante, salvo su richiesta. Anzi, ho imparato che ci sono sempre più interpretazioni di un termine usato da me di quante io stesso ne riesca a prevedere.

Ed è con questa consapevolezza che devo scrivere un articolo il cui titolo parla de “l’insegnamento comunicativo” e della “comunicazione in classe”. Che significherà per il lettore “l’insegnamento comunicativo”? Forse ho sbagliato articolo: avrei dovuto parlare di un insegnamento comunicativo, visto che non ce n’è uno solo. Poi, che significherà per il lettore la “comunicazione in classe”?

L’espressione “insegnamento comunicativo” non è stata brevettata da nessuno; per fortuna. Per insegnanti diversi significa cose diverse. Credo, comunque, che per la maggioranza l’espressione ha connotazioni positive. Rappresenta in qualche modo una svolta già effettuata nel proprio lavoro, oppure un traguardo ancora da raggiungere. Spesso viene visto come una tendenza: “il mio insegnamento è più comunicativo di prima” oppure “sono alla ricerca di procedure didattiche per rendere il mio insegnamento più comunicativo”. C’è chi, avendo trovato dei modi per far parlare in L2 gli studenti, laddove prima ci si limitava a leggere frasi dal libro ad alta voce, si ritiene già di applicare un insegnamento comunicativo; e c’è invece chi si considera un insegnante comunicativo soltanto se riesce sia a gestire lezioni in cui si parla unicamente in L2 dall’inizio alla fine sia a far studiare unicamente su testi (orali e scritti) autentici.

Dagli interventi dei partecipanti al seminario, comunque, credo di poter constatare che molti colleghi ormai riescono a far studiare i loro studenti su testi autentici e quindi sono abbastanza soddisfatti dalla loro capacità di fornire agli studenti materiale su cui possono, o a livello subconscio o a livello conscio, studiare le regole e le norme della comunicazione della lingua bersaglio. Individuano, poi, un altro aspetto della comunicazione, e ciò è la comunicazione in classe fra le persone, studenti e insegnante, durante la lezione. Ed è di questo che vorrei parlare

Storia

Nel 1978, esattamente 20 anni fa, in un convegno storico “Comunication and Language Teaching” tenuto a Venezia, a cui hanno partecipato più di duemila insegnanti di lingua, Keith Morrow, noto studioso inglese di glottodidattica, ha iniziato il suo intervento dichiarando “Benvenuti all’anno zero dell’era comunicativa”. Negli anni seguenti, un anno sì un anno no, assistiamo a tentativi di distogliere la nostra attenzione da questo aspetto del nostro lavoro. Ne cito un paio: al convegno del British Council qualche anno fa a Milano è stato messo in programma un dibattito intitolato “La rivoluzione comunicativa è finita?” e un paio di anni fa al convegno del Lend c’è stato un intervento che voleva annunciare il lancio del cosiddetto “approccio eclettico” come antidoto al presunto “dogma” dell'”Approccio comunicativo”.

Io, invece, al di là delle polemiche sulla paternità dell’approccio comunicativo e su cosa esattamente significhi, ritengo che venga prestata un’attenzione tuttora insufficiente alla quantità, e soprattutto alla qualità, della comunicazione in classe. Lunga vita all’era comunicativa! Rendiamola, però, degna del suo nome.

Quantità

Gli insegnanti di lingua parlano in classe. Danno istruzioni, spiegano le modalità delle attività, danno spiegazioni grammaticali, creano l’ambiente, fanno battute di spirito, incoraggiano lo studente in difficoltà, ironizzano sullo studente troppo sicuro di sé, richiamano la classe all’ordine quando la concentrazione cade, ecc.. Insomma, tutte cose necessarie per il buon svolgimento della lezione. O no? Propongo al lettore un esperimento: mettere un registratore per terra in un angolo e registrare tutta una lezione, una lezione tipica, da quando entra in classe fino a quando se ne va; e poi ascoltarla con un orologio per sommare tutti i secondi durante i quali parla lui. Sottraendo questo tempo al tempo totale della lezione otteniamo il tempo massimo a disposizione degli studenti per parlare. Se poi la lezione è frontale si deve dividere questo tempo per il numero degli studenti e otteniamo la media del tempo in cui ogni studente può esercitare il suo parlato. Moltiplicando questo per il numero di lezioni del corso si ottengono dei valori che possono spiegare perché gli studenti facciano così pochi progressi!

Insomma la tesi è che parliamo troppo! Se riascoltiamo la lezione registrata alla ricerca dei momenti in cui potevamo stare zitti, normalmente ci convinciamo che sono ben pochi. Però ci illudiamo. È possibile insegnare in silenzio. C’è addirittura un approccio all’insegnamento linguistico, idaeto da Gattegno, che si chiama appunto “The Silent Way” in cui l’insegnante deve imparare a stare zitto. Senza voler spingersi fino a questo punto, nei corsi di formazione di base tenuti da noi i partecipanti devono svolgere le loro prime lezioni in silenzio. All’inizio non gli sembra possibile, poi verificano che invece lo è. Inoltre, molti colleghi della nostra scuola hanno provato di tanto in tanto a gestire una intera lezione in silenzio e riferiscono, fra l’altro, un notevole aumento di concentrazione da parte degli studenti.

Vuoto di informazione

Keith Morrow ha indicato 20 anni fa una caratteristica di base della comunicazione, in assenza della quale l’approccio adoperato dall’insegnante non poteva essere ritenuto comunicativo: si chiamava “vuoto di informazione”. Con questa espressione si intendeva che quando due persone comunicano la prima non sa che cosa dirà l’altra, e vuole saperlo.

Da allora, grazie ai discorsi di Morrow e dei tanti altri che all’epoca promuovevano l’approccio comunicativo, molti insegnanti hanno introdotto nel loro insegnamento attività in cui il compito da svolgere è di tipo “colmare un vuoto d’informazione”. Un esempio per tutti: gli studenti lavorano in coppie, lo studente A ha davanti a sé una piantina di una città su cui sono indicati il commissariato, la posta e la piscina, e deve indicare dove sono la banca, il supermercato e il giardino pubblico. Lo studente B ha una versione diversa della stessa piantina in cui sono indicati la banca, il supermercato e il giardino pubblico ma non il commissariato, la posta e la piscina. I due studenti non devono far vedere la propria piantina all’altro. Si interrogano a vicenda fino a quando non avranno completato la propria piantina.

Ben vengano queste nuove attività, attività in cui ogni domanda costituisce una sincera richiesta di sapere qualcosa che il richiedente non sa. Ma che dire del resto della lezione, prima e dopo questa attività? Quante volte facciamo una domanda alla classe senza voler scoprire qualcosa che non sapevamo già? Nella comunicazione extra scolastica se si chiede se la frase “non può c’entrare” è corretta, è perché lo si vuole sapere. In classe, invece, troppe volte gli insegnanti fanno questo tipo di domanda per “esaminare” gli studenti, i quali, a loro volta, rispondono unicamente con lo scopo di superare la prova.

Attenzione, non sto dicendo che un insegnante non deve chiedere agli studenti se pensano che la frase “non può c’entrare” sia corretta o meno. Se lo fa perché realmente non sa che cosa pensano gli studenti ed è sinceramente curioso di sapere il loro parere, allora sì siamo in presenza della caratteristica base della comunicazione. Altrimenti no.

Qualcuno potrebbe obiettare che anche la domanda “da esame” è una forma di comunicazione. Ha ragione: i teorici della comunicazione ci insegnano che la non-comunicazione non esiste. Anche il silenzio comunica, non salutare una persona incontrata è comunicativo quanto il saluto; anche il rifiuto di rispondere è comunicazione. Dobbiamo portare l’attenzione quindi su che cosa viene comunicato, e per che tipo di comunicazione stiamo preparando gli studenti, quanto è generalizzabile il tipo di comunicazione che gli facciamo esercitare in classe, per quali ruoli comunicativi li stiamo preparando.

Allora la domanda che ha come obiettivo scoprire ciò che l’altro non sa, la domanda da esame appunto, esiste normalmente soltanto in un paio di tipi di interazione: nell’esame o nell’interrogatorio in tribunale. Oddio, purtroppo mi devo correggere, esiste anche in molte cosiddette lezioni, triste prova che molti insegnanti non sanno distinguere fra una lezione, che appunto dovrebbe avere come scopo la promozione dell’apprendimento, e un esame che ha lo scopo di verificare se l’apprendimento ha avuto luogo.

Perché insegniamo la lingua parlata?

Torniamo alla lezione. Perché insegniamo la lingua parlata? Presumibilmente per far sì che gli studenti possano usarla. A che serve la lingua parlata? Per parlare. Per interagire con le persone che parlano questa lingua. Per far conoscenze. Per poter viaggiare senza essere tagliati fuori dalla comprensione di ciò che si vede. Forse soltanto per fare shopping. Forse per trovare un alloggio, o persino un lavoro. Per fare amicizie. Ebbene in tutti questi casi il vuoto d’informazione c’è, e c’è sul serio. Fai una domanda perché non sai la risposta, e la vuoi sapere.

Negoziazione dei significati

E poi non finisce qui la caratterizzazione della comunicazione. Quando viene data la risposta alla domanda, bisogna capirla. E non dico semplicemente capire le parole. Imparare una lingua straniera porta all’incontro con persone di una cultura diversa, una mentalità diversa, una mentalità in cui elementi culturali simili hanno un significato diverso, in cui a comportamenti simili vengono attribuiti valori diversi. Il significato non arriva all’interlocutore come è partito da chi parla. Va chiarito. La comunicazione extra scolastica non è fatta di domande semplici e prive di ambiguità e risposte chiare e inequivocabili. Il significato viene negoziato. La domanda “che intendi con ciò che hai detto” è normalissima. Fa parte della comunicazione. Questo è vero quando parliamo con persone che condividono la stessa cultura, figuriamoci nell’incontro fra due culture. È a questo che dovrebbe mirare l’insegnamento della lingua parlata: sviluppare negli studenti la capacità di negoziare i significati. Sviluppare una capacità significa esercitarla. In classe dovremmo cercare di aumentare il tempo dedicato a questo.

Ruolo dominante o subordinato?

Si consideri il seguente dialogo:

A: Se il singolare è “grande” com’è il plurale?
B: “Grandi”.
A: “Grandi”. Sì, bravo.

Chi è B? E chi è A? Milioni di persone scolarizzate direbbero che B è uno studente e che A è un insegnante e che lo scambio ha luogo durante una lezione. Lo direbbero perché questo tipo di scambio è estremamente frequente nelle aule scolastiche e non succede altrove.

E non succede altrove. Significa, quindi, che esercitiamo in classe un tipo di scambio comunicativo cui lo studente non parteciperà nella vita normale, la vita normale per la quale riteniamo che lo stiamo preparando. Una contraddizione notevole direi. Sinclair et al. dimostrano che nelle aule scolastiche questo tipo di scambio è quello più frequente. Anche se lo volessimo analizzare soltanto in termini quantitativi (vedi sopra) risulterebbe già molto discutibile: tre atti comunicativi da parte dell’insegnante (domandare, fare eco e valutare la risposta) contro uno da parte dello studente (rispondere), oppure 12 parole dell’insegnante contro 1 parola dello studente, oppure 5 secondi all’insegnante contro 1 secondo allo studente, a seconda di come si voglia considerare la quantità. Ma ciò che è, a mio avviso, l’aspetto più grave di questo tipo di scambio scaturisce da un’analisi qualitativa. Invito il lettore a provare a considerare A come studente e B come insegnante. Lo studente potrebbe produrre la prima battuta e l’insegnante potrebbe produrre la seconda, però se lo studente dovesse fare eco non sarebbe per valutare la risposta, ma semmai per chiedere se ha capito bene (domandare) o per informare l’insegnante che ha ricevuto l’informazione (ringraziare).

In altri termini il ruolo comunicativo che svolge lo studente nello scambio originale è un ruolo di subordinazione. Il ruolo dominante viene svolto dall’insegnante. Se in classe questo tipo di scambio è la norma significa che lo studente esercita mille volte un ruolo subordinato.

Ebbene, se vogliamo preparare lo studente per la vita extrascolastica dobbiamo domandarci se dovrà essere destinato a svolgere sempre un ruolo subordinato nella comunicazione orale con gli altri. Se è vero niente da criticare. Se invece non lo è, bisogna cercare di cambiare la nostra prassi in classe.

Nella comunicazione extrascolastica lo studente si troverà permanentemente in difficoltà: difficoltà di capire gli altri e difficoltà di farsi capire. Dovrà essere in grado di gestire questi problemi. Dovrà saper interrompere l’altro per chiedere spiegazioni, dovrà saper spiegare le sue difficoltà, dovrà essere in grado di gestire la conversazione, di prendere delle iniziative. Come potrà fare tutte queste cose se in classe ha sempre svolto un ruolo subordinato? Non è semplicemente una questione di coraggio: è soprattutto una questione di essere abituato a prendere l’iniziativa, di saper anche svolgere il ruolo dominante negli scambi comunicativi. Questa abitudine deve essere acquisita in classe.

Libera scelta e considerazione di ciò che dice l’altro

Altre caratteristiche della comunicazione normale indicate da Keith Morrow sono la libera scelta di parole, di elementi grammaticali, da usare per esprimere ciò che si ha da dire ed infine il tenere in considerazione ciò che l’altro ha detto. Banalità, no? Eppure sappiamo che moltissimi insegnanti di lingua chiedono, per esempio, “Che cosa hai fatto ieri sera?” (perché vogliono lavorare con il passato prossimo) e se lo studente risponde “Sono rimasto a casa a guardare la televisione” o se dice “Ho ucciso mio padre” non importa: si procede comunque a fare la stessa domanda ad un altro studente oppure si passa alla prossima domanda “Che cosa hai fatto domenica scorsa?”. Per lo studente l’unico modo per ottenere un segno di interesse da parte dell’insegnante è dire “Ho ucciso il mio padre”. In questo caso l’insegnante dice “Ho ucciso…? Ho ucciso…?” e l’alunno con i suggerimenti degli altri studenti si corregge “mio padre”. E si passa alla prossima domanda.

Intraprendere una conversazione

Abbiamo detto che dobbiamo preparare gli studenti alla vita, alla conversazione. Ecco, è già difficile partecipare ad una conversazione. È ancora più difficile iniziarla. Mi ricordo che quando ero insicuro della mia capacità in francese ho passato una giornata a Parigi e non ho mai camminato così tanto. Molte volte avrei voluto prendere l’autobus ma non sapevo dove si compravano i biglietti, se si poteva prenderne solo uno, se valeva solo su un autobus o era a ore, se il costo variava secondo la distanza, ecc. Avrei potuto chiedere a qualsiasi parigino. Ci ho pensato tantissime volte. Intanto facevo un altro po’ di strada a piedi. Se soltanto qualcun altro avesse preso l’iniziativa di parlare con me! In quel caso la mia timidezza sarebbe scomparsa immediatamente. Intraprendere una conversazione: ecco un’abilità che va esercitata in classe.

Ottenere delle ripetizioni

Una esigenza fondamentale di chi partecipa a una conversazione in lingua straniera è ottenere delle ripetizioni. Questa abilità va esercitata in classe. Anzi, non bisogna mai perderne un’occasione. Invece l’insegnante tipico ne perde una dopo l’altra. Per esempio nei momenti in cui tutta la classe interagisce con l’insegnante, i momenti frontali, magari l’insegnante pone un quesito, buona modalità d’insegnamento, come abbiamo detto prima. Un alunno risponde. L’insegnante tipico ripete la risposta. L’insegnante avveduto, invece, chiede immediatamente ad un alunno seduto distante dal primo “Che pensi di ciò che ha detto … (il nome del primo alunno)?”. Sarà questo alunno (il secondo) che, per poter rispondere alla domanda dell’insegnante, dovrà chiedere una ripetizione all’altro alunno per saper bene ciò che ha detto.

Riassumiamo

Che deve fare l’insegnante, allora? Cerchiamo di far sì che siano gli studenti a fare domande invece di noi. Certo, bisogna ripensare il modo di fare la lezione. Però vale la pena. Ogni volta che pensiamo di dover spiegare qualcosa agli studenti, bisognerebbe non farlo. Se la cosa da spiegare è semplice, probabilmente possono vivere benissimo senza questa informazione; se invece è complessa basta porla come quesito e dirgli di scoprire il parere di un compagno al riguardo. C’è un vuoto d’informazione. C’è la necessità di negoziare i significati. C’è la necessità di prendere iniziative, di partecipare alla gestione della conversazione fra pari grado. C’è la necessità di tenere in considerazione ciò che ha detto l’altro. Ci sono, insomma, tutti gli ingredienti necessari per l’esercizio, e quindi lo sviluppo, di quelle capacità comunicative che serviranno allo studente fuori della classe.