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Memoria, errore, fossilizzazione

Prologo

In questo 10° Seminario Internazionale Dilit si è pensato di proporre laboratori pluritematici, a differenza degli anni passati, per suscitare negli intervenuti riflessioni su vari aspetti, sia teorici che pratici, del nostro lavoro: un approccio globale per un’osservazione ampia del nostro mondo. Conforme a questo spirito è lo scritto che segue e che contiene anche il supporto teorico al laboratorio che Tania Di Leo ed io abbiamo presentato. Queste pagine sono altresì da considerarsi la continuazione della riflessione sul tema dell’errore iniziata con l’articolo apparso negli Atti del Seminario Internazionale Dilit 1997 dal titolo Un erore di sbalio.

In quanto insegnanti, e ancor di più insegnanti di lingue, siamo considerati professionisti della comunicazione. Al di là della fiducia concessaci è però proficuo per la nostra evoluzione personale e professionale soffermarsi e interrogarsi se sia sufficientemente chiaro cosa noi stessi si intenda per comunicazione.

La nuvola chiamata comunicazione

Basta qualche sommaria indagine per accorgersi innanzitutto che è un argomento su cui si indaga da pochi decenni. Il dizionario italiano dello Zingarelli nell’edizione del 1941 recita così:

  • comunicare = far partecipe, rendere comune ad altri, dividere insieme;
  • comunicazione = partecipazione, mezzo di corrispondere, impulso, trasmissione, passaggio.

Sono definizioni che non hanno nemmeno sessanta anni e suonano preoccupantemente superficiali, soprattutto alla luce di quanto dopo alcuni anni Paul Watzlawick avrebbe messo in risalto, cioè la massima importanza dell’argomento, affermando nei suoi assiomi della comunicazione che non è possibile non comunicare e che non esiste un comportamento che non sia comunicativo. Dal dopoguerra ad oggi la comunicazione ed i suoi meccanismi sono stati affrontati in psicologia, in psicoanalisi, in linguistica, in semiotica, in filosofia,… se ne può avere un vasto panorama ad esempio attraverso il libro di Ugo Volli che porta il titolo un po’ altisonante de Il libro della comunicazione, dove si ritrova un ampio campionario di teorie sull’argomento. La prima considerazione che è nata addentrandomi in questa lettura è che esistono un gran numero di tesi, molte volte contrastanti tra loro. La seconda è che queste tesi sono difficili da capire: l’argomento è complicato. La terza è che quando affronto cose del genere mi sento stupido, inadeguato ed insoddisfatto. A proposito di questo ultimo punto mi viene in mente una bella esperienza di qualche anno fa: un viaggio ferroviario Milano-Roma durante il quale un occasionale compagno di viaggio, che insegna fisica in non so quale università, mi ha spiegato durante le poche ore passate insieme cos’è la fisica quantistica in termini di tale chiarezza da risultare argomento semplice e alla portata di tutti, illuminandomi inoltre sul fatto che la fisica che viene insegnata a scuola è “vecchia”, vale a dire che non vengono generalmente trattate le elaborazioni posteriori al 1920 e che tale fisica è in buona parte considerata archeologia dagli addetti i lavori, essendo invalidata dalle scoperte della fisica moderna. La fisica quantistica, il corpo umano, il moto degli astri,… non sono complicati e se adeguatamente introdotti e affrontati se ne coglie la semplicità che sorregge la loro complessità: anche questi sono linguaggi. Questa esperienza riconferma che non gli argomenti ma piuttosto le spiegazioni, cioè le idee e le interpretazioni relative di alcuni personaggi, sono difficili e complicate. Antecedentemente a Newton quale era l’idea comune nei riguardi della gravità? Aristotele aveva affermato che più un oggetto è pesante più cade rapidamente ma si deve arrivare a Simon Stevin e al 1586 per le prime prove con un minimo di credibilità, per passare, nel 1589, a Galileo ed i suoi esperimenti dalla torre di Pisa. Ma per tutti gli altri, per la gente comune, sicuramente era un fenomeno incomprensibile al punto tale da non avere un nome ed essere catalogato come magia o come dono degli dei, considerazioni che oggi a due passi dal 2000 ci fanno sorridere. Ma è troppo facile ed irrispettoso archiviare così un pensiero che è stato dei nostri avi per migliaia di anni. Invece di sorridere è bene riflettere e considerare che la stessa ingenuità che noi ora imputiamo loro è quella che noi possiamo manifestare nei riguardi di fenomeni su cui ancora non sappiamo abbastanza: il meccanismo è lo stesso, l’ingenuità è la stessa. Sfogliando le pagine del libro di Volli, prima citato, si trovano un mucchio di schemi e numeri più o meno ermetici che rappresentano le odierne formule magiche: Giordano Bruno sosteneva che si reputa magico quanto ha a che vedere con fenomeni naturali ancora sconosciuti. Tutto qui!

Sarebbe allora più onesto e meno frustrante ammettere che, anche per quanto riguarda la comunicazione, non ci sono ancora idee chiare; è ancora un nuvolone pieno di cose sicuramente bellissime, di cui per ora abbiamo chiara solo qualche piccola porzione, cioè interpretazioni più o meno sufficienti su alcune qualità e alcune manifestazioni di un fenomeno che per ora si chiama comunicazione. Ma comunemente non è questo ciò che accade: confidando nell’autorevolezza degli esperti o per pigrizia, prendiamo a prestito le teorie, i metodi, le parole di altri o colmiamo l’ignoranza con soluzioni artigianalmente empiriche, che generazione dopo generazione si perpetuano. Questo è un atteggiamento tenuto anche nei riguardi di ogni definizione. La definizione è una parola e la parola evoca cioè accende per risonanza, come ologrammi, mondi intimi singolari che a loro volta accendono gli altri mondi interni nei quali c’è la ricostruzione dell’ambiente con noi soggetto nell’ambiente: sono le registrazioni, che si trovano nei luoghi della memoria. Le registrazioni si ripetono identiche a loro stesse se non c’è alcun intervento di modificazione: questo è il loro compito e lo svolgono alla perfezione. La modificazione di queste registrazioni è creazione. Per creare è necessario che qualcuno si autorizzi ad essere creatore, sebbene sia facoltà di tutti. Pochissimi si autorizzano e l’autorizzazione è quasi sempre limitata; chi si autorizza senza limiti è detto genio o stravagante, se non pazzo; chi non si autorizza utilizza quanto già detto e fatto, quindi di altri, e in più datato; da qui cresce l’insoddisfazione per la creatività negata, per il buon senso messo a tacere.

Sul filo di questo discorso mi viene voglia a questo punto di toccare un tema “sacro” per chi insegna lingue: la grammatica o meglio la sua storia. Comunemente si ha una visione mitica di questo argomento: molti la divinizzano, alcuni la demonizzano ma sempre vedendola provvista di aureola e quindi, al di là delle apparenti differenze, se ne ha soggezione. Per affrancarci dalla soggezione bisogna uscire dal mito ricercando quali siano le sue origini, in che modo si sia sviluppata, seguendo quali percorsi sia arrivata a noi.

Brevissima e parziale storia della grammatica e della linguistica presentata al fine di meglio intendere lo studio e l’insegnamento delle lingue

Il primo esempio a noi noto di studio linguistico è riportato da Erodoto (V secolo a.C.) in Storie II, 1 ed è risalente al VII secolo a.C.:

“Psammetico (il faraone egizio Psamtik I) diede ad un pastore due neonati, di gente presa a caso; doveva portarli presso il suo gregge e allevarli così che davanti a loro non si pronunciasse mai una parola … Così volendo ascoltare quale parola i bambini avrebbero emesso per prima … Quando furono passati due anni che il pastore si comportava così, mentre apriva la porta e entrava, i bambini gli si gettarono ai piedi e pronunciarono bekos tendendo le mani … Psammetico scoprì che i Frigi chiamavano bekos il pane. In tal modo gli Egiziani ammisero che i Frigi erano più antichi di loro.”

Altri provarono in direzioni simili, per secoli, col medesimo intento. Scrive Salimbene da Parma in Cronaca, n. 1664:

“Federico II volle sperimentare quale lingua e idioma avessero i bambini, arrivando all’adolescenza, senza mai aver potuto parlare con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dar latte agli infanti e con la proibizione di parlargli. Voleva infatti conoscere se parlassero la lingua ebrea, che fu la prima, oppure la greca o la latina o l’arabica; o se non parlassero sempre la lingua dei propri genitori da cui erano nati. Ma s’affaticò senza risultato, perché i bambini o infanti morivano tutti…”.

Grazie alle nostre conoscenze attuali sappiamo che quegli infelici sono morti per la deprivazione sensoriale a cui sono stati sottoposti che, se non fossero morti, li avrebbe resi inadatti a qual si voglia esperimento. Passando alla filosofia, Platone nel Cratilo riflette dialogicamente sulla relazione tra le parole e le cose nominate e se il nome delle cose sia di origine naturale oppure risulti per convenzione. Se cioè il Nomoteta avesse scelto parole che nominano le cose secondo la loro natura (phisis), ed è l’ipotesi di Cratilo, o se le avesse assegnate per legge o convenzione umana (nomos), ed è la tesi di Ermogene. In questa contesa Socrate si muove con apparente ambiguità abbracciando ora l’una ora l’altra per poi avanzare la sua tesi secondo la quale la conoscenza non dipende dal nostro rapporto con i nomi ma con le cose o ancor meglio con le idee. Da questo testo nascono due correnti di pensiero che polemizzeranno per secoli: da una parte i seguaci dell’analogia cioè del linguaggio naturale quindi logico e regolare. Per loro la natura, l’origine delle parole è già nella loro forma. Ne sarebbero degli esempi soffio, chiacchiere o pomodoro. Origina da qui l’etimologia. Dall’altra parte quelli che sostenevano l’anomalia cioè le irregolarità del parlare.

Con l’etimologia inizia anche la consapevolezza che la lingua e le parole cambiano con il passare del tempo ed anche se in verità i greci studiavano solo la loro lingua e nella accezione classica, è a loro che dobbiamo la scoperta del soggetto e del predicato e poi i generi, i casi, i numeri, i tempi, i modi e le persone come riportano Dioniso Trace nel II secolo a.C. e Apollonio Discolo nel II secolo d.C.. Erodiano, figlio di Apollonio Discolo, analizzerà la flessione e l’accento della sua lingua.

Non ci sono grandi avanzamenti in epoca romana. Donato nel IV secolo d.C. e Prisciano nel VI secolo d.C. danno forma alla grammatica latina ricalcando gli studi greci.

Ai filosofi della scolastica dobbiamo la concordanza e la distinzione tra nome ed aggettivo. E così arriviamo nel Medio Evo che considerava il latino classico la lingua per eccellenza del genere umano per le sue virtù di logica correttezza. Solo nel 1660 appare la Grammaire générale et raisonnée dell’abbazia di Port-Royal seguita da altre grammatiche normative che danno concretezza all’idea che lo studioso della grammatica e del lessico, in virtù della sua competenza, può stabilire le basi logiche della lingua e quindi in che modo si debba parlare. In questo periodo si consolida l’autorevolezza e la fiducia verso gli studiosi della lingua e questo atteggiamento perdura al giorno d’oggi anche se alcune cosiddette regole contrastano grandemente con la lingua d’uso, come quelle relative, a titolo di esempio a egli, ella, essi, per quanto riguarda l’italiano.

Nel frattempo si introducono negli studi dei linguisti anche l’ebraico e l’arabo. Con i grandi navigatori viaggiano missionari che raccolgono, come possono, informazioni su lingue esotiche tanto che il Mithridates di J. C. Adelung e J. S. Vater (1806) conteneva il Padrenostro in cinquecento lingue dei cinque continenti. Nel periodo rinascimentale molti studiosi si impegnano sulle loro lingue originarie come Franciscus Junius (1589-1677) e George Hickes (1642-1715) con il frisone, l’olandese, lo scandinavo e il gotico. Ma sia loro che gli altri studiosi di quel periodo non si servono delle differenze strutturali emergenti dalle inevitabili analisi comparate, bensì riconducono forzosamente le lingue da loro trattate allo schema della grammatica latina e questo è motivato dal fatto che nei secoli precedenti i dotti, gli accademici si erano espressi in quella lingua mentre gli scrittori meno istruiti avevano abbondato in errori ed il popolo addirittura era colpevole di corromperla ed involgarirla. Il mito del latino come lingua perfetta è ormai una realtà consolidata, nonostante sia parere unanime dell’epoca che tutte le lingue derivino dall’ebraico antico. Per dover di cronaca si trova un dissidente in tale Goropius Becanus di Anversa che ritiene l’olandese la madre di tutte le lingue.

Dalla grammatica ebraica viene invece il concetto di radice come parte centrale della parola. Ma è dall’India che arriva la rivoluzione concettuale della grammatica Panini datata tra il 350 ed il 250 a.C., opera monumentale di minuziosa analisi del sanscrito della raccolta di testi sacri denominata Rg-Veda che risale secondo caute stime almeno al 1500 a.C.. Gli studiosi europei si trovano per la prima volta dinanzi ad un sistema di analisi che si basa sull’osservazione e non sulla teoria. Sir William Jones, primo vero sanscritista occidentale, nel 1786 presenta l’ipotesi che il greco, il latino, il sanscrito,… siano originati da una lingua ancestrale: nasce il concetto di lingue indoeuropee. Da qui il rinnovato interesse per la comparazione linguistica che produce numerose opere tra le quali la Deutsche Grammatik di Jakob Grimm (i fratelli Grimm non hanno girato in lungo ed in largo la Germania solo per raccogliere favole) del 1819 che riporta la corrispondenza tra il germanico e le altre lingue indoeuropee nota tutt’oggi come legge di Grimm. Nel secolo scorso si comincia a formare l’idea che i cambiamenti linguistici vanno analizzati attraverso l’induzione scientifica e non più attraverso la speculazione. Scrive Leonard Bloomfield nel 1914:

”Ogni studio storico delle lingue si basa sul confronto di due o più insiemi di dati descrittivi, ed esso può essere esatto o completo solo nella misura in cui i dati lo consentono. Per descrivere una lingua non c’è bisogno di alcuna conoscenza storica; anzi, l’osservatore che si lasci influenzare nella sua descrizione da tale conoscenza, può facilmente distorcere i dati. Le nostre descrizioni devono essere prive di preconcetti, se vogliono fornire una base solida per il lavoro comparativo.

Le sole generalizzazioni utili sul linguaggio sono quelle induttive. Caratteristiche che pensiamo debbano essere universali possono essere assenti in una lingua scoperta immediatamente dopo … Il fatto che alcuni tratti sono, in ogni caso, molto diffusi è degno di nota e richiede di essere spiegato; quando avremo dati adeguati su molte lingue, dovremo ritornare al problema della grammatica generale e alla spiegazione di queste similarità e differenze, ma questo studio, quando verrà, non sarà speculativo bensì induttivo…”.

E ammoniva Ludwig Wittgenstein nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer e nelle Osservazioni sui fondamenti della matematica, trattando dell’animus dell’osservatore-ricercatore: “Qui si può solo descrivere … Il pericolo è di dare una giustificazione del nostro procedere, dove una giustificazione non v’è e dove noi dovremmo limitarci a dire “È così che noi facciamo” … Il nostro errore è cercare una spiegazione là dove invece dovremmo vedere, nei fatti, dei fenomeni originari, ossia là dove dovremmo dire: è questo il gioco del linguaggio che si gioca”, anticipando con quest’ultima affermazione la teoria dei giochi di Eric Berne, nota come Analisi Transazionale (di cui abbiamo trattato nell’articolo “Sull’analisi transazionale come strumento di interpretazione delle interazioni in classe”, Bollettino Dilit, n.2, 1994).

Questa digressione non aveva altro fine che quello di sottolineare che nelle scuole, anche per le lingue, si ripete il fenomeno sopra menzionato per la fisica: l’idea comune è ancora quella della lingua perfetta e delle conseguenti grammatiche normative del 1600. Ora è probabilmente più chiaro quanto scritto in precedenza: generazione dopo generazione perpetuiamo idee acquisite per fiducia, pigrizia o ingenuità e quindi cariche di mancanza d’aggiornamento, sentendoci indegni di modificare perché così facendo metteremmo in dubbio cotanta scienza. Ma dove sta tutta questa scienza? Stiamo trattando di ipotesi interpretative con tutto il loro inevitabile corollario di preconcetti o influenze culturali che dir si voglia, come si evince anche dalle parole di Bloomfield e Wittgenstein e di soluzioni empiriche erette a metodi autorevoli. Beninteso che queste ipotesi hanno rappresentato un avanzamento fondamentale per l’epoca in cui sono state formulate e comunque costituiscono il terreno su cui poggiamo i piedi, ma oggi non bastano più. L’insoddisfazione di cui prima, nasce anche da qui: idee, parole ed azioni che in vario modo sentiamo non più soddisfacenti ma che non sappiamo come sostituire dato che sono diventate repertorio comune, con poche sfumature, in tutto il mondo. E se lo praticano in tutto il mondo come posso essere degno di modificare qualcosa proprio io?

Una proposta: il vocabolario igienico

È possibile, prendendo tutto il tempo che sarà necessario, igienizzare il vocabolario del nostro linguaggio di insegnanti. Insegnante non è una parola igienica: etimologicamente richiama un segno imposto a un’altra persona (in+signum), gesto per lo meno irrispettoso che presuppone relazioni gerarchiche; richiama lunghe lezioni frontali, solitamente noiose, piene di spiegazioni cioè ripetizioni di informazioni che si possono trovare in ogni biblioteca, in cui non si può replicare o da cui non ci si può allontanare, se ad esempio si conosce già l’argomento, perché chi ascolta è studente che pare derivi secondo il dizionario etimologico Devoto-Oli, edizione 1971, da tundere cioè battere, colpire, che dà una nota inquietante a ciò che andiamo facendo a scuola, luogo di cui abbiamo obliato la vera funzione. La skolè greca era ambiente di riposo e di dilettevole apprendimento mentre è diventata il luogo dove le parole chiave sono burocrazia e disciplina, come nelle caserme (facendo rivoltare nella tomba Giordano Bruno, Rousseau, Tolstoj e Steiner). Questi sono solo pochi esempi di tutto un repertorio di parole che danno consistenza ai nostri luoghi ed azioni quotidiane rendendole ripetizioni di vecchie registrazioni. Fermiamoci un momento a osservare quanto ci sia di automatico in quello che andiamo facendo. Fermiamoci e chiediamoci se siamo d’accordo con quanto diciamo e facciamo in classe. Fermiamoci un momento e facciamo un po’ di ordine e di pulizia; ricominciamo da capo, con la creazione di un vocabolario più igienico dei nostri termini di ogni giorno, servendoci di neologismi se è necessario: rinominare in questo modo non è operazione di verniciatura bensì è sviluppo che si concretizza col trovare o creare un vocabolario rispettoso, diretto quindi adeguato a ciò che andiamo facendo e dicendo adesso. Riprendo un concetto già esposto prima: la parola evoca e l’evocazione è l’accensione per risonanza, come in un ologramma, di mondi intimi singolari che a loro volta accendono gli altri mondi interni nei quali si trova la ricostruzione dell’ambiente con noi soggetto nell’ambiente. Da questa angolazione la presente proposta di un vocabolario igienico è meno fantasiosa di quanto possa sembrare di primo acchito e rappresenta un passo fondamentale per aggiornare, per interrompere l’anello delle inconsapevoli ripetizioni, per cominciare a creare e creando uscire dall’insoddisfazione.

È con questo proposito che nell’articolo Un erore di sbalio si è iniziato a parlare di errore partendo dalla constatazione che non si sa cosa sia: parafrasando Wittgenstein, si può solo dire cosa succede, osservando il fenomeno, non si può dire cosa è.

L’errore come insulto

Si è dimostrato nell’articolo sopra citato come l’effetto del fenomeno denominato errore si formi nell’insegnante. Era scritto:

“… tutto il percorso sopra descritto sulla ideazione del futuro porta alla formazione di un umore. Si può dire che l’idea di errore è un umore nato dalla discrepanza sopra descritta. È un umore che emerge dall’insegnante. Minore è la discrepanza, minore è l’errore. Mi vengono in mente i segni rossi e blu sui miei quaderni delle medie e delle superiori. Segno rosso, errore. Segno blu, errore grave … le discrepanze che si originano hanno ampiezza differente ma il meccanismo è lo stesso. Non sapendo convivere con le discrepanze e non sapendo come comportarsi a riguardo, bisogna in fretta riportare ordine. Per rimettere armonia nei film interiori, le ricostruzioni immaginative, e per placare gli umori c’è un atto consolidato dalla pratica e dall’opinione di numerosissimi esperti di tutti i secoli: la correzione. Ma in verità è l’unico atto consequenziale all’”errore” che abbiamo selezionato e registrato nella memoria durante la nostra carriera scolastica.

Il luogo dell’errore non è lo studente ma l’insegnante, nel senso che è in quest’ultimo che si forma l’umore relativo. Deve essere per ciò che i segni rossi e blu sui miei quaderni mi lasciavano attonito e distante. Lasciavano attonito e distante me ma placavano la discrepanza ed il conseguente umore-rumore dei miei insegnanti … Se è così le idee di errore e di correzione sono grossolane scorciatoie che precludono la possibilità di osservare il processo mentre è in atto, vale a dire la divergenza in corso per arrivare dinamicamente alla doppia uguaglianza, alla biunivocità concordata … per praticare la disciplina dell’osservazione è necessario vincere la sua più grande avversaria: la morale. La morale fa vedere le persone e le loro azioni dall’esterno; dal mio mondo autorevole di insegnante vedo il mondo dell’altro, dello studente, che al confronto risulterà brutto ed incompleto. In quel momento mi dimenticherò di quanti anni e di quanta energia mi ci sono voluti per sapere ciò che so e di come ho imparato ad imparare da tutte queste esperienze, mi dimenticherò della caparbietà e della pazienza applicata ad ogni momento dello sviluppo di ogni abilità che mi porto appresso. L’oblio li ricopre. La memoria corta fa si che mi senta uno “che è nato imparato”, come dicono i miei amici napoletani. Chiaramente se io sono nato imparato, va da se che gli altri, non imparati, (gli studenti in questo caso) mi facciano schifo. Non mi ricordo più del mio originale e perciò non posso riconoscere neppure l’originale nell’altro di fronte me; vedo solo che imparato non è. Il rafforzamento di questa convinzione e la sua nobilitazione è data dalla mia appartenenza alla maggioranza, che nel nostro caso è formata dai miei colleghi, dai linguisti, dagli esperti di glottodidattica,… e tutti sanno che la maggioranza vince. Sono tra i vincitori, tutti smemorati come me!”.

Trovo ancora valido questo scritto ma è bene approfondirne qualche parte cominciando dalla morale, che è la portante nel processo di formazione di quel fenomeno che si chiama errore. La morale è un indicatore di auspicabilità o inauspicabilità relativa ad un certo evento:

Ma cosa fa muovere l’ago della morale in una direzione piuttosto che in un’altra? La morale è connessa con l’idea di futuro, contenente me-soggetto all’interno. Cioè, il compimento o meno di una certa azione dipende da come si ricostruisce lo sviluppo futuro della stessa e da come si giudica, prima di compierla, il suo epilogo.

L’azione X può essere compiuta o meno, quindi concreta o ricostruita virtualmente nell’immaginazione e l’agente posso essere io o esserlo attraverso un agente altro. L’azione X, secondo la ricostruzione immaginativa personale, emerge, ad esempio, tre diverse conseguenze che a loro volta, arricchite di tutti i particolari coerenti, danno sette tipi di futuro. Queste scene sono mirabilmente nitide e ricche di sfumature e particolari, come ognuno sa per esperienza diretta, e vengono prodotte nel luogo dell’immaginazione e della memoria, denominato Giasone dal gruppo di Frascati, passando alla lettura e verifica in Narciso, cioè il luogo in cui si riscontrano quegli effetti delle scene che prendono il nome di emozioni, sensazioni, sentimenti. Da Narciso arriva il segnale che viene in seguito interpretato come auspicabile (caselle a fondo chiaro degli schemi precedenti) o inauspicabile (caselle a fondo scuro), altrimenti definito come positivo-negativo, bello-brutto, piacevole-spiacevole,… con tutte le loro variazioni a seconda che risultino discrepanti od armoniche le scene virtuali dell’azione e quelle delle conseguenze.

Nel caso in questione, l’errore, si constata che quando l’agente è l’insegnante la parola o la frase scorretta che arriva attraverso il suo orecchio, emerge nel luogo della memoria e dell’immaginazione, Giasone, la rozzezza e la povertà materiale e spirituale dell’ignorante con tutti gli ignobili particolari relativi. Queste scene sono vissute virtualmente ma in diretta, con “io” come soggetto: in quel momento ci invade la sgradevolezza di quell’inauspicabile situazione. E giustamente non vogliamo sottostare neppure per un istante a quest’insulto e pretendiamo di ritornare dalla discrepanza all’armonia interiore. È solo una ricostruzione immaginativa ma si snocciola una quantità tale di materiale mnemonico in così poco tempo che non si ha la prontezza né gli strumenti idonei per valutarla per ciò che è: un film. L’unica cosa di cui ci rendiamo conto è la sintesi finale di tutto il processo: la sgradevolezza dell’insulto; tutto il resto del processo rimane nebulosamente indeterminato e insondabile. Se si potesse osservare tutto alla moviola ritroveremmo emergenti tra le altre scene anche la Grammaire générale et raisonnée dell’abbazia di Port-Royal e le altre grammatiche normative che continuano a dare concretezza all’idea che lo studioso della grammatica e del lessico, in virtù della sua competenza, può stabilire le basi logiche della lingua e quindi in che modo si deve parlare; il tutto confortato dalla certezza che i dotti, gli accademici nel corso dei secoli si sono espressi in bella lingua mentre gli scrittori meno istruiti hanno abbondato in errori ed il popolo addirittura è colpevole di corromperla ed involgarirla: gli ignoranti di cui prima. La memoria dell’idea di lingua perfetta e le sue autoritarie conseguenze è ancora il substrato su cui poggiano le nostre idee di cittadini del 2000.

Se volessimo attualizzare onestamente dovremmo cominciare ad uscire da noi, dal docentocentrismo, e osservare quanto succede con gli occhi, ma soprattutto con la testa dello studente. Bisogna cominciare a prevedere l’altro, che comporta non tanto mettersi nei panni dell’altro ma dentro i confini della sua pelle.

La domanda delle domande

Perché io studente sto seduto lì per ore su sedie spesso scomode in ambienti per lo più non adeguati allo scopo, insieme ad altre persone che non ho scelto?

Quindi qualche parola su quanto viene chiamato generalmente motivazione. Parlando con colleghi delle scuole pubbliche viene spesso sottolineato che lo studente delle loro classi non è motivato perché non si trova lì per scelta come invece accade alla DILIT o in altro istituto privato. Questa è una differenza, ma non incide in modo determinante come si crede. Osserviamo quale è il denominatore comune di ogni studente. Ogni studente ha un sogno; il sogno di allargare il suo mondo per inglobare il mondo stesso, se non l’universo: è il sogno di ogni viaggiatore, di ogni scienziato, di ogni artista, di ogni mistico, di ogni ricercatore. È il sogno di ognuno di noi, è la nostalgia di sé. Per osservare di cosa è fatto questo sogno utilizziamo una variante della figura 2, già apparsa in altri articoli a proposito dell’ideazione del futuro:

Nella scena ambiente 1 si trova una persona, da qualche parte nel mondo; attorno a lui/lei il suo ambiente consueto: oggetti, luoghi, persone,… del suo quotidiano. Per qualche ragione comincia a immaginare di trovarsi nell’ambiente 2 dove attorno a sé ha il Colosseo e poi un buon ristorante tipico italiano, conversa con amici italiani delle cose più diverse passeggiando per Villa Borghese, è in un cinema romano per assistere alla visione di un film di cui parlerà con i familiari al ritorno, ascolta Verdi al teatro dell’opera,… tutto ciò in Giasone, cioè nell’elaborazione immaginativa e mnemonica. L’ambiente 3 è là dove Narciso fa sentire l’umore della conseguenza che in questo caso è piacere e questo piacere è concreto: è concretamente, fisicamente avvertibile nel corpo pur nascendo da una virtualizzazione. Il piacere dà il segnale di auspicabilità: è nato un sogno. Il sogno può rimanere tale o andare verso un progetto di realizzazione; dipende dalle controindicazioni: soldi, salute, situazioni familiari, organizzazione del lavoro o altro possono ostacolare la concretizzazione del sogno. Oppure può succedere che l’attenzione si sposta, dopo un periodo più o meno breve, verso un altro obiettivo; se suonare il pianoforte, attraverso la procedura della figura 3, dà come conseguenza un umore interpretato come di maggiore piacere, quindi di maggiore auspicabilità, si concretizzerà attraverso l’acquisto dello strumento e la frequentazione di una scuola di musica, mentre il precedente sogno perderà energia di attenzione e sarà archiviato in posizione di inferiore auspicabilità. Si dice che abbiamo cambiato idea.

Questo discorso sembrerebbe attenere alle scuole di lingue ma lo stesso percorso è vissuto dai giovani, in particolare all’inizio del ciclo medio inferiore, medio superiore ed universitario: il sogno che si virtualizza è quello di entrare in possesso delle conoscenze attribuite a quel luogo di cultura per poter dar forma a un universo che fino a quel momento hanno solo vagamente intuito dentro di loro ma che non sanno in quale modo esternare e realizzare. È il grande sogno di ognuno: scoprire e sviluppare le proprie risorse. È un sogno bellissimo, nobilissimo ed inconfessato. Nella gran parte dei casi svanisce, sommerso dalla deficienza di strutture, di preparazione psicopedagogica degli insegnanti e dall’eccesso di burocrazia. La motivazione all’inizio c’è ed è vigorosa. Viene vanificata man mano che i luoghi e le persone che dovevano concretizzare il sogno, danno risposte controindicanti; così ritroviamo sui banchi (dal provenzale banc: sedile, panca, che non ha niente a che vedere con tristi e scassati tavolinetti di metallo e formica) delle scuole esseri umani che sono obbligati ad assistere alla mortificazione dei loro sogni. Dovremmo essere loro grati per la pazienza che dimostrano, invece di lamentarci della scarsa “motivazione” e altresì essere partecipi alla loro rassegnazione causata dal tradimento delle loro aspirazioni. Inoltre dobbiamo renderci conto che se questo è quanto accade ai nostri studenti, le condizioni per l’apprendimento di quello che proponiamo in classe vengono a mancare. Prodromo ad ogni apprendimento sono ambienti, persone e attività conciliabili con la concretizzazione del relativo sogno personale.

Ritornando nell’ambito linguistico dell’esempio precedente, se l’attenzione sull’effetto auspicabilità rimane, significa che il sogno “imparare l’italiano” pacifica un bel numero di discrepanze latenti relative a periodi precedenti della storia personale e titilla la mobilitazione delle risorse. L’analisi di queste discrepanze sedimentate non rientra nei compiti dell’insegnante, la mobilitazione delle risorse sì. Il progetto che concretizza il sogno di cui sopra porterà ad una classe in una scuola di lingue. A questo punto la domanda è:

Che significa insegnare ed imparare una lingua?

Il procedimento che solitamente viene definito insegnare ed imparare ha come fondamento una pratica di biunivocità concordata. Chiariamo che si intende per biunivocità partendo da un esempio concreto. Mentre sto scrivendo sono al mare in una grande casa con parenti ed amici. Ho un grande tavolo a disposizione su cui si trova il portatile e un gran numero di libri; questa mattina ho chiesto a mio figlio Simone che si trovava all’altra estremità del tavolo di passarmi il vocabolario e Simone (10 anni) me l’ha portato. Se invece che a Simone avessi rivolto la stessa richiesta a mio nipote Luca (5 anni) che si trovava sempre lì nei paraggi, sicuramente non avrei ottenuto il vocabolario. Perché Simone mi ha portato il vocabolario e non uno dei tanti altri libri che si trovavano ammucchiati sul tavolo e perché Luca sarebbe rimasto disorientato? Al suono della parola vocabolario nel luogo della creazione immaginativa, l’atrio mentale, di Simone si è formato l’ologramma vocabolario, immagine emersa dalle cartelle della sua memoria. Attraverso gli occhi ha cercato nell’ambiente concreto l’oggetto che si giustapponesse a quanto gli si era formato nel virtuale ed ha agito di conseguenza. Al suono della parola vocabolario il luogo della creazione immaginativa di Luca sarebbe giustamente rimasto un nuvolone scuro in quanto nelle cartelle della sua memoria, pur perfettamente attivate, non sarebbe risuonato niente e quindi niente sarebbe emerso. Con questo esempio si può dire che con Simone si è instaurato un certo tipo di biunivocità; con Luca non si sarebbe attuata. La biunivocità è concordata in quanto esiste un tacito accordo tra qualche decina di milioni di persone al mondo per riferirsi a quell’oggetto con quel suono. Quando tra, almeno, due persone non c’è biunivocità si dice che non si capiscono o che parlano lingue diverse. È interessante notare che anche all’interno delle comunità linguistiche la biunivocità non è assolutamente data per scontata, ma bisognerebbe entrare in un discorso che ci porterebbe in altre direzioni. Soffermiamoci a considerare la seconda possibilità, quella di due persone che parlano lingue diverse. Apple non ha più dignità di pomme che a sua volta non ha più ragioni di apfel e lo stesso vale per melum, mer, meil o mela, per essere indicatori di un certo oggetto. Di solito si risolve dicendo che si tratta di differenze culturali, il che rimane solo parzialmente soddisfacente in quanto significa tutto e niente: ogni essere vivente è culturalmente differente da un altro, dato che ognuno seleziona in modo personale, singolare, dall’ambiente che lo circonda, quindi ci sono infiniti ambienti e infiniti modi di selezionare da questi. Questa osservazione ha dato luogo all’intuizione che ha portato a definire stili cognitivi i differenti modi di selezionare e memorizzare dall’ambiente. Nell’articolo A chi comunicare, di prossima pubblicazione sul Bollettino Dilit, se ne propone una lettura sotto forma di artigianale analogia idraulica, che però ben sottolinea la singolarità di ogni percorso cognitivo:

“Nel luogo della memoria vengono accesi tutti i punti che risuonano alla polarizzazione della scena presente nel luogo dell’immaginazione. Per avere una, se pur vaga, idea dell’effetto polarizzazione, si immagini il processo di formazione dell’alveo di un fiume: se dal pendio di una montagna inizia a sgorgare acqua, la massa scorre inizialmente lungo un percorso apparentemente caotico, dettato dalle asperità del terreno. La traccia lasciata dal primo fronte d’acqua nel terreno forma la via preferenziale per qualsiasi quantità d’acqua successiva, cioè l’acqua che sarà presente in quel certo luogo si troverà polarizzata verso quel percorso. L’alveo andrà via via definendosi; alcuni bracci andranno a morire, altri per continuo passaggio si approfondiranno, vale a dire che si confermerà e si rafforzerà quella polarizzazione. L’acqua che seguirà subirà l’effetto scia all’interno del percorso che si è formato. Aumentando il solco dell’alveo aumenta la portata e ogni molecola d’acqua che sgorga dalla sorgente a monte ripeterà il tragitto polarizzato con grande velocità e automaticità.

Analogamente, in linea di massima, avviene con i segnali che dall’ambiente raggiungono l’atrio mentale e per risonanza arrivano a quei luoghi della memoria dove si attivano le relative cartelle, il cui funzionamento è provvisoriamente considerato, per comodità ed ignoranza, similare a quello delle cartelle nei programmi del computer. Ogni cartella contiene più elementi coerenti, ma questi stessi elementi possono trovarsi anche in altre cartelle, che appartengono ad altri documenti dove si tratta di argomenti diversi. I segnali dei film provenienti dalle cartelle della memoria ritornano al luogo dell’immaginazione, l’atrio mentale. A questo punto le scene ricostruite dell’ambiente concreto e quelle risonanti provenienti dalla memoria si sovrappongono. Se le immagini che originano dall’esterno e quelle che originano dalla memoria si giustappongono armonicamente si avrà come segnale di stato la tranquillità; se invece la sovrapposizione è più o meno disarmonicamente incompleta, origina una discrepanza. Ad esempio se una mattina svegliandomi apro gli occhi e l’intorno mi restituisce i particolari che ricostruiscono, in Giasone, la mia camera da letto, Narciso risponderà con un segnale di stato, quasi inavvertibile, di quiete; se invece aprendo gli occhi, l’ambiente che si ricostruisce è la cella una prigione, Narciso comunicherà la forte discrepanza tra i profili della camera da letto e quel posto in cui mi trovo, attraverso il segnale di stato dei luoghi fisici preposti: il nodo alla gola, il pugno allo stomaco, il dolore al petto,… Tanto più forte è la discrepanza tanto più il segnale di stato relativo sarà intenso: il fastidio, la sgradevolezza, l’insofferenza, il dolore,… saranno i nomi con cui definiremo i segnali di stato delle discrepanze.”

Come si diceva, ogni ambiente è unico in quanto risulta dalla ricostruzione virtuale che ognuno ne fa, l’alveo singolare, in quel luogo che qui chiamiamo Giasone; ne sono riprova tutti i voluminosi studi sui gemelli. L’insieme di strategie per uscire dal solipsismo delle ricostruzioni virtuali singolari è ciò che viene detta comunicazione. Il suono è una delle strategie e la parola è un suono ma non solo. La parola può essere considerata un suono solo nella sezione dell’apparato vocale, in produzione, e nell’apparato auditivo per la ricezione. Più oltre i segnali, opportunamente trasdotti, arrivano in Giasone e lì prendono significato. Ma che significa significato?

Il significato di significato

I segnali nell’atrio mentale, luogo della creazione dell’immaginazione, richiamano istantaneamente dalla memoria, per risonanza, gli elementi delle scene loro coerenti che andranno a comporre l’ologramma significativo, costituito dalle informazioni uditive, olfattive, saporose, visive, tattili, relative oltre a tutte le conformi scene dell’archivio mnemonico. State per leggere una parola: mela. La parola che avete letto ha preso significato nel Giasone del lettore perché conosce l’odore della mela, l’ha vista, ne ha sentito rumore addentandola o facendola cadere, l’ha assaporata e toccata oltre al fatto che sente gli effetti dei ricordi relativi alle esperienze con le mele: tutto questo materiale integrato prende il nome di significato. È come un filmato della preparazione di una torta. Il prodotto finito è la torta; non si distinguono più anche se presenti la farina, il latte, l’uovo, lo zucchero, il lievito, il limone grattugiato,… che danno a quell’oggetto il significato di torta. Basta rivedere a ritroso il filmato per arrivare agli ingredienti che compongono la torta.

Il problema è che non abbiamo la moviola incorporata né il libretto di istruzioni del funzionamento della macchina che portiamo in giro, perciò non ci rendiamo conto degli ingredienti che danno significato alle parole. Alle persone che non parlano la mia lingua si accende dentro la stessa gran quantità di materiale ma il codice di accesso è diverso. Quindi quando parliamo di una lingua stiamo ragionando solo di codici di accesso; gli universi risonanti seguono in ogni essere umano gli stessi automatismi: è un fattore importante da considerare quando ci troviamo in classe. I codici di accesso sono tra di loro in rapporto di sinonimia, come si è già detto nell’articolo apparso negli atti del Seminario Internazionale Dilit 1996 dal titolo Nuove ragioni per nuovi obiettivi. “Bucare” sta a “forare” come “mela” sta a “apple”: le une accendono, con buona approssimazione, gli stessi universi intimi delle altre.

C’è anche il caso in cui nella memoria dell’altro non ci siano cartelle relative ad una certa parola che quindi non capirà, non perché è stupido, come subito la presunzione porta a pensare, ma semplicemente perché proprio non c’è materiale che emerge. Si racconta che in uno dei tanti viaggi di Magellano, gli abitanti di una certa zona della costa africana vedessero i navigatori, le navi, gli alberi delle navi, le scialuppe ma non le vele. Non potevano vedere le vele perché non c’era materiale relativo nel loro Giasone. Tutto il grande e paziente lavoro che fanno i neonati toccando, assaggiando, guardando, ascoltando, odorando per ore e per giorni interi tutto quello che gli capita a portata di mano ha esattamente questa funzione: riempire le cartelle di materiale scenico. Una volta una giovanissima studentessa mi ha domandato cosa tenessi in mano e le risposi che si trattava di un nettapipe. Mi ha guardato perplessa poi è andata a cercare sul suo dizionario; alla fine, finalmente, mi ha chiesto cosa fosse un nettapipe perché non conosceva la parola neppure nella sua lingua. Il suo Giasone, ottimamente funzionante, non le restituiva niente. Ho tirato fuori la pipa, le ho fatto sentire il profumo del tabacco e ho pulito la pipa sotto i suoi occhi. Ho riempito le sue cartelle relative al suono “nettapipe”.

Quindi il lavoro dell’insegnante di lingue consta nel concordare biunivocità su oggetti e su atti con lo studente, che da parte sua praticherà il consenso attraverso la sinonimia e l’emulazione. Della sinonimia si è già detto, è processo intimo; l’emulazione invece è legata al comportamento. Vale a dire che lo studente instaura sinonimie, cioè fa in modo che in Giasone emergano le stesse scene al suono di apple e di mela e tanto più accurata sarà la giustapposizione tra le scene più sarà completa l’area semantica relativa, ma poi lo studente emula per portare all’esterno tutto il materiale virtualizzato, che sarà tanto più conforme a quanto manifesta quella certa comunità linguistica quanto sarà in grado di mobilitare le sue risorse di imitatore e di attore. Sono interpretazioni che richiedono madornale impegno! Prima di spazientirsi è bene ricordare quanta energia, quante risorse, quanti sogni sono in azione in chi ci sta di fronte, e l’insegnante è lì proprio perché l’energia sia espressa, le risorse si mobilitino e i sogni si concretizzino.

Si sa che se un bambino, ad esempio, giapponese si trasferisce in Italia con la famiglia, sarà da adulto un perfetto esponente della comunità italofona e della comunità nipponofona. Si dirà che è bilingue vale a dire che le scene in Giasone sono emerse indifferentemente da due suoni e le emulazioni sono armoniche alle due relative comunità. Se invece è uno straniero adulto che vuole imparare l’italiano deve cominciare il lavoro di cui prima: sinonimia ed emulazione. Ma fino a che punto di giustapposizione arriverà? Va innanzitutto ricordato che la dinamica dell’apprendimento segue l’andamento riportato nel grafico di cui si è già trattato nell’articolo “Insegnare e/o educare: idee per obiettivi spregiudicati” (l’idea è di Christopher Humphris):

L’asse a rappresenta il tempo, l’asse b l’evoluzione della destrezza e il conseguente grado di acquisizione. Si notano tratti più o meno obliqui e tratti più o meno orizzontali. Questi ultimi sono di particolare interesse per l’insegnante, in quanto ognuno racchiude “difficoltà” di vario genere per lo studente. Ogni “difficoltà”, ritenuta tale, emerge la nostalgia per l’equilibrio precedente e la tendenza al suo ripristino, cioè il ritorno al punto di partenza: lo studente tende a lasciare l’esperienza di apprendimento. L’azione dell’insegnante dovrà essere, qui più che in altri momenti, oculata e strategica.

Vediamo ora di cosa sono fatte le difficoltà di cui si è detto. Sono connesse al sogno e sono relative a sé o all’ambiente. Per ambiente si intende la scuola, l’insegnante, gli altri della classe,… ma di questo si è già detto nello scritto appena menzionato. Ci tratteniamo qui sui fattori cosiddetti personali, alle dinamiche interne allo studente. Innanzitutto non conosce l’andamento dell’apprendimento, che quindi va reso palese affinché gli umori che Narciso gli restituisce (sensazioni, emozioni,…) non vengano interpretati come “negativi” e singolari: ogni essere umano segue quel percorso per qual si voglia apprendimento, anche se con lunghezze e inclinazioni dei tratti, variabili; ma tutto ciò non era presente nell’immaginazione previsionale del suo progetto, mentre ora sente qualcosa agire concretamente a livello fisico: sente adesso e nel suo corpo gli umori che interpreta come fastidio, insoddisfazione, insofferenza, rabbia o quant’altro. Già il fatto di trasmettere la assoluta normalità e innocuità di quanto sta avvenendo dentro i confini della sua pelle crea un rapporto differente tra lo studente e sé stesso e tra lui ed il mondo: ora non è più “malato”, non è più strano, non è più isolato ed il sogno non più un incubo. In verità i periodi orizzontali sono necessari per il buon proseguimento. Analogia gastronomica: quando siamo molto affamati ci avviciniamo al piatto con voracità; dopo aver ingurgitato un po’ di cibo, mangiamo più tranquillamente per poi cessare il pasto e dar tempo all’organismo di svolgere la digestione e la metabolizzazione, che è il tratto orizzontale dell’alimentazione. Nel momento in cui il cibo è parte del corpo riprenderà l’appetito. È una analogia grossolana ma rende l’idea di quanto avviene a livello cerebrale.

Il periodo orizzontale può protrarsi anche a lungo o meglio, può protrarsi in una inclinazione positiva così lieve da essere inavvertibile: si verifica quanto viene di solito definito fossilizzazione o resistenza, cioè l’apparente cessazione di progresso dei processi di sinonimia ed emulazione. Queste definizioni, oltre ad essere irrispettose, sono a dir poco superficiali in quanto si fermano alle apparenze senza alcuna, doverosa, osservazione del processo di aggiornamento della memoria.

Ipotesi sulle dinamiche della memoria ai fini di meglio comprendere la cosiddetta fossilizzazione

Ripartiamo dal segnale ambientale che arriva all’apparato uditivo, che opportunamente trasduce. Per risonanza si accendono tutte le scene coerenti alla trasduzione, o meglio si accendono tutte quelle già presenti nella memoria. Se quanto arriva nell’atrio mentale non attiva corrispondenze, cioè non trova sé stesso, dopo il primo momento di buio cognitivo, costringe la mente ai procedimenti necessari per costruire le scene corrispondenti e connetterle con il resto del materiale mnemonico affinché diventino repertorio (vedi la storia del nettapipe). Bisogna considerare che quanto è memorizzato non solo si accende istantaneamente ma lo fa con grande energia per differenziarsi dall’enorme quantità restante di materiale in memoria, ed il rumore necessario a questa differenziazione sovrasta il sussurro delle risorse che devono mobilitarsi per operare la memorizzazione: il rumore delle risorse è lieve in confronto al contemporaneo fragore della memoria. Immaginiamo che la figura sottostante sia il banco di registrazione di una sala di incisione:

Ogni cursore, da a a m, governa il livello del volume della registrazione di uno strumento musicale. Nella situazione della figura, il volume degli strumenti da a a l si trova a livelli superiori agli 80 mentre il cursore dello strumento m raggiunge a malapena i 10. Va da sé che la musica d’insieme che ne uscirà non ci permetterà di udire lo strumento m a meno che, conoscendone l’esistenza, non vi poniamo grande attenzione. Per analogia poniamo sui cursori da a a l il rumore delle varie scene emergenti dalla memoria in seguito ad un certo evento, ad esempio una parola, e sul cursore m quello delle risorse, abbiamo lo stesso risultato: il fragoroso concerto delle scene mnemoniche sopraffà la delicata melodia delle risorse.

Il cosiddetto errore e la sua supposta sclerotizzazione, detta fossilizzazione, sono, concretamente, la ripetizione di quanto è presente nella memoria di quell’individuo, il quale avverte perfettamente l’effetto delle scene presenti ma non quello delle risorse. Se non si affina e non si pratica questa attenzione si ripeteranno le registrazioni presenti in memoria, a meno che al suo interno non ci sia la memoria di una cartella che si potrebbe chiamare questo non è tutto che serve a dare attenzione agli spazi sconosciuti e al processo di aggiornamento della memoria. Secondo questa ipotesi, la memoria fisiologica corrisponde alla memoria cognitiva. Nel caso in cui non ci sia l’attenzione di cui prima, ciò che si esprime sarà prevedibile cioè espresso con quanto già c’è: gli scopi sono coperti con quanto è presente. Per modificare la situazione descritta è necessario introdurre nuovi scopi, scopi di vita ad esempio utilizzando materiali specifici a seconda degli interessi della persona-studente: la fotografia per un fotografo, l’opera per un melomane, il calcio per lo sportivo…; linguaggi specifici differenziati per evidenziare lacune linguistiche all’interno delle rispettive aspirazioni di vita. Trovare un pezzetto opportuno di sconosciuto per far mobilitare le risorse e costruire un tratto in più per uscire dal tunnel della propria memoria: ricordargli opportunamente, cioè strategicamente, che è creatore e non utente della sua memoria. A questo fine e per rendere palese i meccanismi di cui sopra un ottimo strumento è il colloquio individuale.

Da non dimenticare, per non dimenticare

Ciò che è stato appena detto richiede un livello di impegno molto alto e molta disciplina. Ci sono però obiettivi che si possono rendere familiari grazie ad un modesto apporto di attenzione, quali:

  • verificare che quanto si può fare sia fatto al meglio;
  • placare i nostri pregiudizi, che significa percorrere la strada della spregiudicatezza e non quella dell’egoismo;
  • rispettare il sogno che lo studente non sa neppure di avere e le dinamiche del suo Giasone e del suo Narciso, che sono uguali ai nostri. Quello che varia sono le registrazioni in memoria;
  • ricordare che siamo ancora sotto l’influenza culturale della “lingua perfetta” degli antichi grammatici. A questo proposito cito quanto scrive Leonard Bloomfield nel capitolo XXVIII del suo libro del 1914, Il linguaggio:
    “Tradizionalmente diciamo che la variante non accettata è “sbagliata” o “cattivo inglese” o perfino che non è inglese affatto. Naturalmente queste affermazioni sono false: le varianti non accettate non sono errori di stranieri, ma sono ottimo inglese; solo, esse non sono usate nella lingua dei gruppi socialmente più privilegiati e di conseguenza non sono entrate nel repertorio delle forme linguistiche standard … Alla base delle nostre comuni idee sulla lingua sta la fantasiosa dottrina dei “grammatici” del XVIII secolo. Questa dottrina, che tuttora predomina nelle nostre scuole, marchia come “sbagliate” forme di qualsiasi genere senza tener conto dei fatti. Poiché ha sentito applicare il termine “sbagliato” a varianti che non hanno alcuna connotazione spiacevole, il parlante diventa diffidente ed è pronto a sospettare della “scorrettezza” di quasi ogni forma linguistica. Non sarebbe stato possibile per i “grammatici” ingannare una vasta parte della nostra comunità linguistica, ed anzi non avrebbero neppure provato a farlo se il pubblico non fosse stato pronto ad essere ingannato; … vediamo così come una dottrina del tutto arbitraria abbia prosperato grazie alla diffidenza dei parlanti provenienti da ambienti non standard che non avevano fiducia nelle forme linguistiche ascoltate in quegli ambienti … la diffidenza verso il proprio modo di parlare è un tratto quasi universale. Spesso l’osservatore che intraprende lo studio di una lingua straniera, ottenuti dei dati dai suoi informatori, si accorgerà poi che, tra loro, essi usano forme completamente differenti, che considerano inferiori e che si vergognano di rivelare all’osservatore (per quanto riguarda l’italiano pensiamo ad esempio al “c’ho sete” o “c’ho sonno”); questi potrà trovarsi a registrare una lingua del tutto diversa da quella che gli interessa.
    La tendenza a correggere la propria lingua è universale, ma di norma tale revisione consiste nell’adozione di forme ascoltate da altri. Le teorie dei nostri grammatici hanno stabilito tra le persone colte il concetto che forme mai sentite possano essere “migliori” di quelle effettivamente ascoltate ed usate …”;
  • ricordare che ancora non si conoscono i meccanismi e le connessioni né neurologiche né dinamiche che prendono il nome di apprendimento linguistico. Esistono a questo proposito solo delle ipotesi che vengono dopo poco contraddette da altre ipotesi, che i più onesti non possono non esporre che in modo volutamente indeterminato a partire dall’ormai mitico: “La lingua è ciò che è perché fa ciò che fa” di Halliday a Hilary Putnam, filosofo della scienza, che dice “Il comprendere non sta nelle parole come tali e neppure nell’appropriatezza dell’intera successione di parole e di enunciati. Sta invece nel fatto che un parlante che comprende può fare delle cose con le parole e con gli enunciati che pronuncia o che pensa nella propria testa, oltre al semplice pronunciarli … si direbbe che il linguaggio sia come una grossa mongolfiera ancorata al terreno dei fatti non linguistici solo da un certo numero di funi molto distanziate fra loro e molto sottili ma essenziali. Se non vi fosse nessuna interazione tra il comportamento puramente linguistico ed eventi non linguistici, il linguaggio sarebbe solo una produzione di rumore … la parola non è altro che una comoda, anche se casuale, etichetta dell’oggetto … la grammatica di una lingua non è altro che la formulazione di certe supposte regolarità linguistiche … quale che sia il grado di devianza di una frase è oltremodo avventato affermare che non esiste nessuna circostanza in cui essa potrebbe essere prodotta dal parlante di una lingua o compresa da un ascoltatore; le frasi devianti costituiscono una gran parte del discorso più comunemente usato e in particolare quello di maggiore importanza concettuale, il discorso degli innovatori in ogni campo (scienza, politica, vita morale, filosofia) … il significato di una parola è in funzione delle regole che ne governano l’impiego … sono fenomeni che tutt’oggi nessuno comprende …” e continua, nel volume dal titolo Mente, linguaggio, realtà, con una vigorosa confutazione dell’ipotesi dell’innatezza di Noam Chomsky, considerata da molti, per lustri, un fondamentale passo verso la soluzione. Anche a livello neurologico ora si sa che l’area del Broca e le aree perisilvane per decenni accettate sedi del linguaggio, ora sono in discussione: quando vengono a mancare, come ci riporta Steven Pinker, direttore dal Centro per le neuroscienze cognitive al Massachusetts Institute of Technology nel volume dal titolo L’istinto del linguaggio, si attivano altre aree cerebrali in cui sono localizzate copie del loro contenuto e secondo ultimissime ricerche del M.I.T. pare che tutto il cervello sia coinvolto nel processo linguistico: si sta uscendo dalla lottizzazione del cervello, che è perfettamente coerente a tutto ciò che è stato esposto in precedenza.

Passando sul fronte della logica, il rigore di Ludwig Wittgenstein è una fondamentale operazione di igiene culturale ma non di chiarificazione. Qualche brano inerente all’argomento dal suo Tractatus logico-philosophicus:

3.12      Il segno mediante il quale esprimiamo il pensiero, io lo chiamo segno proposizionale. E la proposizione è il segno proposizionale nella sua relazione di proiezione con il mondo.

3.13      Alla proposizione appartiene tutto ciò che appartiene alla proiezione; ma non il proiettato. Dunque, la possibilità del proiettato, ma non il proiettato stesso … Nella proposizione è contenuta la forma, ma non il contenuto del suo senso …

3.144    Le situazioni si possono descrivere, non denominare. (I nomi somigliano a punti; le proposizioni, a frecce: esse hanno senso) …

3.202    I segni semplici impiegati nella proposizione si chiamano nomi …

3.221    Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può solo dire come una cosa è, non che cosa essa è …

3.3       Solo la proposizione ha senso; solo nel contesto della proposizione un nome ha significato…

3.3411  Si potrebbe dire dunque: il nome vero e proprio è ciò che hanno in comune tutti i simboli che designano l’oggetto. Risulterebbe così gradualmente che nessuna sorta di composizione è essenziale per il nome …

4          Il pensiero è la proposizione munita di senso.

4.001    La totalità delle proposizioni è il linguaggio.

4.002    L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi … Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo. È umanamente impossibile desumere immediatamente la logica del linguaggio. Il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata a ben altri fini che al fine di far riconoscere la forma del corpo …

4.0031  Tutta la filosofia è “critica del linguaggio” …

4.014    Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore, stanno tutti l’uno con l’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra il linguaggio e il mondo. Ad essi tutti è comune la struttura logica …

4.022    La proposizione mostra il suo senso. La proposizione mostra come le cose stanno, se essa è vera. E dice che le cose stanno così.

4.025    La traduzione di un linguaggio in un altro si fa non traducendo ogni proposizione dell’uno in una proposizione dell’altro, ma traducendo solo le parti costitutive della proposizione …

4.0312  La possibilità della proposizione si fonda sul principio della rappresentanza di oggetti da parte di segni. Il mio pensiero fondamentale è che le “costanti logiche” non siano rappresentanti; che la logica dei fatti non possa avere rappresentanti …

4.1212  Ciò che può essere mostrato non può essere detto …”.

Questa limitatissima campionatura proposta lascia dedurre che, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto nei secoli, stiamo ancora muovendo solamente i primi passi;

  • ricordare che finora, in genere, si è cercato il metodo migliore sulla base del prodotto finale e non sulla base della mobilitazione delle risorse ai fini di un maggior successo del processo, a causa della soggezione che si ha verso gli “esperti” e la rinuncia alla personale spregiudicatezza e alla creazione;
  • ricordare che quello che “sentiamo” come errore è solo un umore che nasce in noi nel modo già descritto. Il bisogno di correggere subito gli errori con la giustificazione che altrimenti si fossilizzano è una mistificazione che nasce dall’ignoranza sia dei principi neurologici del processo comunicativo: la formazione, la modificazione e le connessioni dei dendridi e dei neuroni, sia delle dinamiche interne ai luoghi che abbiamo precedentemente chiamato Giasone e Narciso. Questo andrebbe raccontato anche a quegli studenti che temono di essere “contaminati” se parlano con gli altri studenti durante le Produzioni libere orali: la memoria è tutto il sistema che contiene l’informazione in avanzamento, cioè l’informazione è collegata a tutto il resto ed è banalità e ignoranza ricondurla ad un contenitore nel quale può insinuarsi all’improvviso un virus trasmesso da qualche subdolo untore.

La correzione è solo uno stratagemma per placare i rumori delle nostre discrepanze, non per rimettere in ordine il mondo concreto. Inoltre l’insegnante attraverso la correzione ed il giudizio insegna allo studente ad essere subordinato, a non prendere l’iniziativa, come ci ha ottimamente ricordato Christopher Humphris nella relazione conclusiva di questo Seminario Internazionale, e come subordinato non si autorizzerà ad essere creatore della memoria del suo apprendimento, del suo progresso per esperienza;

  • ricordare che la nostra posizione ci dà l’onere e l’onore della responsabilità di quanto sopra esposto; abbiamo il privilegio di avere un lavoro bellissimo che può far evolvere noi e gli altri intorno a noi: non sprechiamo questa occasione tirando a campare;
  • ricordare che nel nostro lavoro si impara qualcosa ogni giorno, se si vuole: è il progresso per esperienza dell’arte di educare. Quindi siamo sede anche noi di tutte le dinamiche fin qui descritte per lo studente; siamo uguali allo studente, se pur in applicazioni differenti;
  • ricordare di ricordare cioè di mettere attenzione e non di pensare, agire e parlare meccanicamente, autorizzando le nostre registrazioni ad muoversi in automatico in nostra vece.

Per chiudere

Questo scritto essendo parte degli Atti, e quindi per ovvi limiti di spazio, non approfondisce concetti basilari per la chiarezza dello stesso quali: Giasone, Narciso, l’atrio mentale, l’ideazione, le risorse, le scene in Giasone, la risonanza, gli umori, l’effetto scia, l’originale, le discrepanze, la biunivocità, la nostalgia di sé,… Alcuni di questi sono già stati trattati in altri articoli su Atti di seminari precedenti o su numeri del Bollettino Dilit. Comunque, ciò che si è cercato di fare è raccontare nei termini di maggior semplicità possibile in questo momento, cose che per chi scrive sono ancora molto lontane dalla chiarezza, attraverso una chiave di lettura che si poteva millantare per psicologia, epistemologia, neurofisiologia, psicanalisi filosofia, logica e che invece non è assimilabile a nessuna di queste, pur contenendole in qualche modo tutte. È una chiave di lettura che attende un nome igienico. Ma non c’è fretta.