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Fare teatro: attività didattica o divertente passatempo?

Nei corsi d’italiano L2 è abbastanza normale che gli studenti usino l’italiano in classe e un’altra o altre lingue nel tempo libero, ivi comprese le pause delle lezioni. Forse è giusto che sia così, lo è senz’altro per gli studenti che non padroneggiano ancora la L2 a tal punto da potersi esprimere disinvoltamente con essa.

Pur riconoscendo quindi la necessità della lingua madre o di un’altra lingua veicolare, nei momenti in cui do libero sfogo alla fantasia sbizzarrendomi a immaginare scenari virtuali, mi chiedo se, paradossalmente, non sarebbe da preferire la situazione opposta in cui gli studenti parlassero la loro lingua in classe e provassero a comunicare in italiano nel tempo libero.

Mi rendo conto della stravaganza di questo paradosso, però questa ‘fantasti¬cheria’ esprime bene il desiderio, che io sento profondamente, di far sì che l’italiano da lingua di studio diventi lingua di comunicazione vera. Se è molto diffuso, infatti, il caso di studenti che conoscono ‘perfettamente’ la grammatica italiana senza peraltro essere in grado di parlare l’italiano, non sono neppure pochi quelli che usano l’italiano in classe, ma non sono capaci, per paura o altro, di interagire con gli italiani fuori della scuola. Questo comportamento, secondo me, è dovuto anche alla “asetticità” della classe che, se da un lato è il luogo privilegiato dello studio, dall’altro tiene gli studenti ‘a bagnomaria’, nel senso che offre loro poche occasioni e possibilità di usare l’italiano per esprimere bisogni comunicativi veri.

Con questo non voglio negare l’importanza della ‘lingua esercitata’ in classe, infatti senza questa probabilmente l’apprendimento avrebbe tempi molto più lunghi, però credo che la scuola dovrebbe dare agli studenti molte più opportunità di esercitare la comunicazione, che è essenzialmente ‘dire qualcosa perché e quando si ha bisogno di dirlo’.
Ben vengano quindi dal mio punto di vista tutte le iniziative e le attività che permettono agli studenti di usare l’italiano in un modo vero, cioè per comunicare realmente.

Nel suo ‘Manuale di glottodidattica’, al capitolo X, Anna Ciliberti elenca alcune attività comunicative il cui scopo è di “permettere (agli studenti) di esprimere significati personali e di imparare a negoziare significati”. Fare teatro, secondo me, fa parte di queste attività.

Prima di proseguire vorrei fare una distinzione fra il fare teatro ed altre attività, come le drammatizzazioni o i giochi di ruolo, che possono sembrare simili, ma che in realtà non lo sono. Infatti nel teatro vi è un copione da rispettare e, quindi, da imparare a memoria; vi è anche un’ambientazione scenografica che, per quanto ‘povera’, non può però essere assente. Insomma nulla è lasciato al caso e l’improvvisazione, se c’è, è un di più.

L’idea di fare teatro con gli studenti, che non è certo nuova, a me è venuta proprio per soddisfare il bisogno di ‘autenticità della comunicazione’ di cui parlavo prima. Le prime esperienze fatte con vari gruppi di studenti erano state positive soprattutto per gli studenti, che avevano reagito molto bene, seppur dopo alcune titubanze iniziali, appropriandosi appieno del compito che gli avevo dato e impegnandosi per portarlo a termine. Durante il lavoro si erano divertiti e quindi, apparentemente, tutto era andato per il meglio. Eppure io, dopo ogni spettacolo, non ero mai completamente soddisfatto, in quanto avvertivo una differenza troppo grande fra le mie aspettative e il risultato ottenuto, sia dal punto di vista scenico che da quello linguistico. Da che cosa poteva dipendere la mia insoddisfazione? Erano state troppo grandi le mie aspettative, e quindi dovevo ridimensionarle, oppure qualcosa non aveva funzionato a dovere? Lo scopo di far lavorare gli studenti con e sull’ita¬lia¬no mi sembrava di averlo raggiunto, ma nello stesso tempo avevo la sensazione che il nostro lavoro fosse stato un po’ troppo superficiale, come se il divertimento ci avesse preso un po’ la mano, impedendoci di curare a fondo il testo e la messa in scena. Gli studenti avevano dato proprio il massimo o, se io fossi stato più esigente, avrebbero potuto fare meglio?
Dovendo scegliere fra il modificare le mie aspettative e il rivedere l’imposta¬zione del lavoro preparatorio, ho scelto di percorrere questa strada ed ho ritentato l’esperimento con un altro gruppo, alla fine del secondo livello.

La sceneggiatura

Un giorno volevo farli lavorare sulla lingua scritta, e, per evitare di far scrivere la solita lettera che non avrebbero mai spedito, ho rispolverato un’idea che avevo sentito da una collega tempo prima. Ho diviso il gruppo in coppie e ho spiegato che dovevano immaginare di essere sceneggiatori cinematografici ai quali un famoso produttore aveva chiesto di scrivere una sceneggiatura. Il produttore avrebbe poi scelto, tra le varie sceneggiature, la migliore per farne un film. Era l’occasione della loro vita e non potevano lasciarsela sfuggire.

Le cinque coppie hanno iniziato a discutere e ad abbozzare le loro storie. Dopo una ventina di minuti ho invitato gli studenti a prendere carta e penna: avevano un’ora di tempo per scrivere, sempre in coppia, la storia che avevano elaborato. Quando il tempo è scaduto ho ritirato i loro lavori e siamo passati ad un’altra attività.

Il giorno dopo mi sono presentato in classe con un bel malloppo di fotocopie ed ho distribuito ad ogni studente le cinque sceneggiature del giorno prima, dicendo che dovevano leggerle ed assegnare ad ognuna un voto da 1 a 10 secondo la loro preferenza. Quella che avesse totalizzato il punteggio maggiore sarebbe stata trasposta in film.
La scelta degli studenti è caduta su una storia strappalacrime, più adatta ai tempi di De Amicis che ai giorni nostri.
Confesso che quando l’ho letta ho provato un po’ di delusione perché, a mio giudizio, le altre storie erano migliori. Pensavo con ‘terrore’ alla prossima messa in scena, ma ormai avevo imboccato una strada senza ritorno!

Per non disperdere energie ho deciso di fare l’editing soltanto della sceneggiatura vincitrice. Il primo editing ha dato buoni risultati, ma, siccome nel testo c’erano ancora punti suscettibili di miglioramento, ho deciso di ripetere l’attività il giorno seguente. Qui mi sono accorto del vantaggio di lavorare su un testo scelto dagli studenti stessi. Infatti il secondo editing, che altre volte non aveva riscosso molto successo fra gli studenti, questa volta non solo non ha suscitato proteste, ma è stato molto minuzioso. Al termine ero soddisfatto del lavoro degli studenti e così abbiamo visto insieme gli ultimi punti che potevano essere migliorati.

Il copione

Il primo passo era fatto, ora bisognava scrivere il copione con i dialoghi. Siccome nel gruppo c’erano 10 studenti, ho deciso di procedere come per la sceneggiatura ed ho formato delle coppie, ciascuna delle quali doveva scrivere un copione. Tempo a disposizione: 1 ora.

Al termine, però, non volevo più privilegiare il lavoro di una coppia soltanto e così ho riunito tutto il gruppo, dicendo agli studenti che dovevano esaminare i vari copioni per cercare di fonderli in un unico, quello definitivo.
Durante questa fase ho notato un forte coinvolgimento da parte degli studenti: nessuno voleva veder accantonate le proprie idee e le difendeva anche contro l’opinione degli altri. La differenza, di cui parlavo prima, fra ‘lingua esercitata’ e ‘lingua di comunicazione’ forse ora risulta più chiara. Infatti se durante la fase di scrittura, sia della sceneggiatura che dei dialoghi, gli studenti avevano esercitato la lingua, eseguendo un compito che io gli avevo dato, ora cominciavano a comunicare veramente. Ognuno si sentiva chiamato in causa direttamente e doveva argomentare e discutere con gli altri per difendere il proprio lavoro.

Questa osservazione mi fa ripensare a delle situazioni vissute, in cui alcuni studenti di fronte ad un compito, non importa quale, se la sbrigano velocemente e iniziano a parlare di tutt’altro. Forse questo dipende dalla troppa facilità del compito, ma spesso poi, al momento della verifica, si ‘scopre’ che il lavoro di quegli studenti è stato abbastanza approssimativo. Allora un’altra ipotesi sulle cause di tale atteggiamento potrebbe essere proprio il disinteresse per una attività che gli studenti non sentono propria, che non li stimola cioè a dire quello che vogliono. Quindi bisogna finire in fretta il compito per poter poi comunicare realmente. In altre parole, ho l’impressione che, se per l’insegnante il mezzo (la lingua) e il fine (la comunicazione) coincidono, lo stesso non vale per gli studenti, almeno per alcuni, che sembrano privilegiare il secondo rispetto al primo.

Nella situazione che ho descritto prima, la discussione sui vari copioni, questa ambiguità non c’era e tutti gli studenti erano molto presenti, attivi, anche emotivamente.
La nascita del copione definitivo ha richiesto circa due ore di tempo, a cui bisogna aggiungere un’altra ora per l’editing. In totale le prime due fasi ci hanno impegnati per circa sei ore.

Lo spettacolo

Dopo tanto lavoro a tavolino gli studenti avevano voglia di realizzare il loro spettacolo e così ci siamo trasferiti sul palcoscenico per iniziare le prove. È vero che qualche problema l’abbiamo avuto, perché non tutti gli studenti erano così entusiasti di passare dalle parole ai fatti, ma l’entusiasmo degli altri ci ha permesso di supplire molto bene alle improvvise defezioni. La distribuzione dei vari ruoli è stata un’operazione un po’ laboriosa, ma fortunatamente nel gruppo c’era una studentessa con la personalità giusta per fare la regista, che ha saputo convincere, con molto tatto, gli altri a fare quello che lei diceva.

Abbiamo così cominciato a provare e lo spettacolo ha preso forma. Anche la scenografia, che all’inizio era un po’ povera, si è arricchita poco a poco e dopo tre prove potevamo dirci soddisfatti. L’uso della prima persona forse è improprio, perché in realtà io sono sempre stato molto in disparte e ho lasciato fare tutto agli studenti. Una volta sola mi è sembrato opportuno intervenire per ‘strigliare’ un po’ gli attori, ed è stato il secondo giorno di prove quando, dopo essersi riosservati nella ripresa video del giorno prima, gli studenti sono stati assaliti da mille dubbi e forse anche da un po’ di stanchezza. Per il resto tutto è filato liscio e sebbene io fossi sempre presente, dietro la telecamera, per ogni eventuale richiesta di aiuto, devo dire che gli studenti sono stati molto autosufficienti. E questo è stato un ulteriore motivo di soddisfazione per me.
Osservando le prove ho dovuto anche ricredermi sulla qualità della storia inscenata. Infatti se la sceneggiatura era veramente un polpettone indigeribile, non altrettanto la lettura e la rappresentazione che gli studenti ne stavano facendo, con molto garbo e ironia.

In questa fase la lingua di comunicazione ha preso decisamente il sopravvento, in quanto gli studenti hanno dovuto affrontare situazioni e problemi che richiedevano una soluzione.
Un altro aspetto positivo, di cui non ho ancora parlato ma che non è da sottovalutare, del fare teatro è la dinamica di gruppo. In questo gruppo c’era un ragazzo coreano molto timido che durante le normali attività non apriva quasi mai bocca o si limitava a dire il minimo indispensabile. Durante le due settimane di lavoro l’ho visto piano piano aprirsi, acquistare sicurezza e ritagliarsi uno spazio all’interno del gruppo. Questa è stata senz’altro una conquista per lui.

Il giorno della rappresentazione finale abbiamo invitato alcune classi ad assistere allo spettacolo, perché teatro o film non sono tali senza pubblico, e alla fine abbiamo festeggiato con un bel panettone e una bottiglia di spumante. Era quasi Natale.
Per la prima volta anch’io ero completamente soddisfatto: la scenografia era stata perfetta e gli attori non avevano sbagliato una virgola. Sarà stato un punto d’arrivo o di partenza?