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Viaggio ad Hangul

Ogni anno il Seminario Internazionale è preceduto da un lungo periodo di gestazione in cui, poco a poco, le varie attività prendono corpo, acquistando la loro fisionomia definitiva. Visto il tema del Seminario di quest’anno, l’idea di tenere delle lezioni di lingue probabilmente sconosciute alla maggioranza dei partecipanti mi pareva ottima, perché ci avrebbe permesso di vivere un’esperienza nuova, stimolante.

Io detesto la routine perché, anche se da un lato mi dà sicurezza, dall’altro mi soffoca, facendomi sentire sovente come un automa, privo di creatività e fantasia. Inoltre spesso sono così preso dal mio ruolo che mi risulta difficile, se non impossibile, immedesimarmi nella situazione di coloro che mi stanno di fronte. Mi pare impossibile che gli studenti trovino tante difficoltà nel capire o nel tradurre in pratica ‘regole’ che a me paiono di una chiarezza lampante e di estrema facilità. Se ripenso però alla mia ultima esperienza come studente, quando mi sono cimentato con lo studio dell’inglese, devo confessare che la mia percezione della situazione di allora era molto diversa. Credo quindi che per un insegnante sia positivo smettere i propri panni usuali per indossare di tanto in tanto quelli dello studente. La prospettiva cambia radicalmente e può succedere di scoprirsi titubanti ed indifesi, privati come siamo delle sicurezze che ci vengono dal nostro ruolo abituale.

Dal mio punto di vista il Seminario rappresentava quindi l’occasione ideale per questo gioco delle parti, ma certo non immaginavo ancora quello che sarebbe accaduto, e cioè che avrei dovuto tenere una lezione ‘esotica’. La mia ingenuità , però, ancora una volta mi ha giocato un brutto scherzo, permettendo a Christopher di incastrarmi con la promessa di una lezione di coreano[1]. Che poi questa lingua,  fra quelle esotiche, non è certo quella che mi si addice di più. Con le altre non me la cavo certo meglio, ma se non altro mi pare che il giapponese, ad esempio, abbia suoni più famigliari, almeno alle mie orecchie. Il coreano invece mi suona astruso, difficile da capire e da ripetere. Un po’ come l’inglese che non ho mai imparato. Comunque non potevo più tirarmi indietro e così ho iniziato il mio viaggio verso Hangul, luogo misterioso, ricco di fascino, ma pieno di insidie.

Non scomodatevi a prendere l’atlante o il mappamondo, perché non potranno esservi di alcun aiuto. Hangul è il nome dell’alfabeto coreano attualmente in uso, inventato nel 1443 da un gruppo di studiosi su incarico di Sejong, quarto re della dinastia Chosun, che intendeva così sottolineare anche linguisticamente l’indipendenza del proprio Paese dalla Cina. Infatti fino ad allora la lingua usata in Corea era il cinese. Al momento della sua promulgazione, nel 1446, Hangul consisteva di 28 lettere, che si sono ridotte poi alle 24 attuali (10 vocali e 14 consonanti principali). (vedi fig. 1)

Quando mi sono trovato faccia a faccia con i simboli di Hangul la prima tentazione è stata il panico, ma poi il loro numero limitato mi ha incoraggiato ad iniziare l’esplorazione. Ho cominciato ad ammirarne la bellezza strana. Mi ha colpito il fatto che, a differenza dell’immagine che avevo dell’Oriente, il loro aspetto era spigoloso, freddo e mi incuteva un certo timore. Ne ero affascinato, ma allo stesso tempo provavo un senso di distacco.

Comunque il primo passo era fatto, ma ora veniva il compito più difficile: capirne la pronuncia. Per fare questo ho approfittato della disponibilità e gentilezza degli studenti coreani presenti nella scuola. Purtroppo, come spesso capita, il fatto di parlare una lingua non significa necessariamente che la si possa anche spiegare. Io ho cominciato a conoscere un po’ l’italiano nel momento in cui ho iniziato a insegnarlo, costretto com’ero a rifletterci su per trovare spiegazioni alle domande più ‘strane’. Fino a quel momento usavo l’italiano come continuo ad usare la forchetta, senza chiedermi cioè perché abbia quella forma o perché i rebbi siano normalmente 4 e non 3 o 5.

Con l’aiuto degli studenti ho scoperto però alcune caratteristiche interessanti di Hangul[2].

Nella fig. 1 accanto ad ogni simbolo vi è la trascrizione in ‘fonetica inglese’. È possibile notare come alcuni fonemi, che per noi sono distinti, nell’alfabeto coreano invece coincidono (n. 1, 3, 4, 6, 7, 9). Al grafema n. 1, ad esempio, corrisponde un fonema il cui suono sta fra K e G. I coreani non fanno differenza nemmeno fra L e R (n. 4), cosicché non c’è da meravigliarsi se alcuni pronunciano “Loma” anziché “Roma”.

Per i fonemi n. 1, 3, 6 e 9 esiste poi anche la variante aspirata (n. 11, 12, 13 e 10 rispettivamente). Non vorrei banalizzare il tutto, ma per essere più concreto con un esempio il fonema n.10 potrebbe essere simile al suono che si produce in uno starnuto con il “C” palatale (eeecci), in cui il “C” subisce un’aspirazione a causa dell’effetto starnuto. Lo stesso si può dire per il fonema n.11, dove però il “C” non è più palatale, bensì velare (K).

La variazione analoga si ha per i fonemi 12 e 13 rispetto a 3 e 6.

Il suono del grafema n.8 corrisponde alla “N” velare (panca, cinque), mentre il 14 rappresenta l’aspirazione, come in inglese.

Per quanto riguarda le vocali ognuna di esse ha due possibili scritture, rispettivamente a sinistra e a destra del corrispondente fonetico. Se una sillaba inizia con vocale o è composta soltanto da una vocale (as-so ; a-la) la scrittura della vocale è quella a sinistra; mentre negli altri casi (casa) si usa  la scrittura di destra.

Il suono delle singole vocali è simile a quello delle vocali italiane. Da notare la differenza, molto importante in coreano, fra 17 ( “O” molto aperta con un suono tipicamente laringeo) e 19 ( “O” chiusa). Lo stesso vale naturalmente per 18 e 20.

La vocale n.23 ha anch’essa suono laringeo, simile al francese “OEU” (es. boeuf).

E che fine ha fatto la “E”, la cui sonorità è così bella per noi? In coreano questa vocale non rientra fra quelle principali, e quindi nell’alfabeto, perché il grafema corrispondente nasce dalla fusione di 15 e 24 oppure 17 e 24 (A+I ; O+I). Purtroppo non sono riuscito a capire la differenza fra le due combinazioni.

Il coreano si scrive da sinistra a destra e le sillabe di ogni parola si scrivono da sinistra a destra e dall’alto in basso. (vedi fig.2)

La parola “SARANG” è composta da 2 sillabe, “SA” e “RANG”, ognuna delle quali si scrive unendo i grafemi corrispondenti ai fonemi che la compongono.

Nella fig.1 la parola coreana corrispondente all’italiano “Consonanti” è formata da due sillabe: la prima risulta dall’unione dei grafemi 9 e 15, la seconda è composta da 23 e 5. Si pronuncia quindi “CIA-OEUM” (“CIA” come in “mancia” e “OEUM” come nel francese “boeuf”). La traduzione in coreano della parola “Vocali” ha la stessa struttura, ma la prima sillaba è composta da 5 e 19: si pronuncia quindi “MO” ( O chiusa). L’intera parola suona “MO-OEUM”.

La nebbia che avvolgeva Hangul aveva cominciato a diradarsi e così era possibile scorgere i contorni di costruzioni che fino a poco prima  parevano fiabesche, ma ora acquistavano una loro funzione precisa, e più familiare. Sfogliando un dizionario coreano cercavo le parole che mi sembravano avere una struttura più semplice  e provavo a pronunciarle. Qualche volta ci azzeccavo, spesso dovevo correggermi, ma il sorriso degli studenti coreani a cui chiedevo conferma mi ha sempre stimolato a continuare nella ricerca.

Non è facile sorridere sempre, ma io credo che spesso si sottovaluti l’importanza del sorriso nell’insegnamento. è più importante correggere gli errori o saper sorridere di essi? La cosa migliore sarebbe correggere sorridendo, ma, se devo scegliere, ritengo che, con studenti principianti, sia meglio sorridere dei loro sbagli. è inevitabile che un principiante si esprima in modo non corretto – è lui il primo a saperlo – e un bel sorriso non solo gli fa capire che non casca il mondo se sbaglia, ma gli dà anche la voglia di andare avanti, di migliorarsi.

Alcune volte correggendo gli studenti con cui parlavo ho osservato in loro una reazione negativa alle mie correzioni, che probabilmente inibivano la loro voglia di esprimersi, pur con mezzi linguistici limitati. I miei interventi correttivi impedivano a loro di comunicare, li disturbavano. Sarebbe opportuno ora affrontare l’argomento di come correggere, ma non credo di essere la persona più adatta per farlo. Torniamo quindi ad Hangul.

Chi ha avuto la forza di seguirmi fin qui ora può provare a fare un piccolo test. Nella figura 3 vi sono alcune parole di 1,2,3 e 4 sillabe. Provate a leggerle. Se le spiegazioni delle pagine precedenti erano chiare, vedrete che non è così difficile.

Durante il seminario, nel proporre questo esercizio ai partecipanti, ho notato in loro un primo momento di smarrimento, seguito però immediatamente da un vivo interesse. Con l’aiuto dell’alfabeto (fig. 1) tutti provavano a pronunciare le parole proiettate sulla parete da una lavagna luminosa. Per quanto riguarda la correttezza della pronuncia non potevo certo essere io l’arbitro e così, grazie alla disponibilità di una studentessa coreana, avevo registrato su nastro le parole della fig. 3. Ogni parola era pronunciata prima “normalmente” e poi ripetuta 3 volte scandita in sillabe. I partecipanti riascoltando le singole parole potevano confrontare la loro pronuncia con quella coreana e correggersi da soli.

Durante la preparazione del seminario mi sono posto il problema di trovare le parole adatte ad un esercizio di questo tipo, considerato che  i partecipanti sarebbero stati principianti assoluti e, per di più, anch’essi insegnanti. Non è possibile generalizzare, ma spesso ho notato proprio negli insegnanti una certa resistenza a rimettersi in gioco, ad esporsi a “brutte figure”. Nel preparare l’esercizio perciò ho cercato di stare molto attento alla soglia di stress tollerabile dai partecipanti. Lo smarrimento iniziale di cui parlavo prima è stato senz’altro causa di stress per i partecipanti, ma le difficoltà erano graduate e questo ha permesso loro di superarlo.

Normalmente, parlando di stress, si tende a criminalizzarlo come colpevole di tutti i nostri malesseri. In realtà lo stress può anche essere positivo se ci permette di fare ricorso a tutte le nostre risorse, fisiche e intellettuali, per venire a capo delle situazioni problematiche. è importante, credo, che lo stress sia giustamente dosato, in quantità e durata. Nell’esercizio svolto al seminario le parole erano “non troppo difficili” e, quel che è più importante, la verifica la facevano i partecipanti stessi. Questo ha senz’altro contribuito ad abbassare la soglia di stress.

Se in questa attività l’abilità richiesta era la “lettura di fonemi”, in quella seguente, invece, i partecipanti dovevano riconoscere la scrittura dei fonemi che ascoltavano da un registratore. Questa attività non è riproponibile in questa sede in quanto manca l’elemento fondamentale, la voce, ma cercherò di descriverla con la maggior chiarezza possibile.

I partecipanti alla lezione di coreano erano 16. Dopo averli divisi in coppie ho distribuito ad ogni coppia 1 busta, 1 foglio A3 e piccole etichette biadesive, quelle che si usano per sistemare le fotografie nell’album per intenderci. La busta conteneva 3 mazzetti di parole di 1, 2 e 3 sillabe, scritte su bigliettini singoli. In tutto erano 33 parole, e quindi 33 bigliettini, che i partecipanti avrebbero dovuto incollare sul foglio A3 nell’ordine in cui le sentivano dal registratore. In precedenza infatti, con l’aiuto della stessa studentessa coreana avevo registrato su nastro le 33 parole, ognuna pronunciata prima “normalmente” e poi scandita 3 volte in sillabe.

Essendo questa attività più complessa e più lunga della precedente, c’era il rischio che i partecipanti si annoiassero o fossero intimoriti  dalla difficoltà. Per questo ho pensato che fosse meglio farli lavorare in coppie; inoltre, per stimolare un poco la loro concentrazione, ho organizzato l’attività come gioco, una gara cioè in cui vinceva chi riusciva ad indovinare il maggior numero di parole.

Iniziando l’attività ho detto ai partecipanti di estrarre dalla busta il mazzetto delle parole di 1 sillaba e di osservarle, cercando di immaginarne la pronuncia. Dopodiché ho acceso il registratore invitando i partecipanti ad incollare le parole sul foglio A3 nell’ordine in cui esse venivano pronunciate. All’inizio c’è stata un po’ di confusione perché per leggere le parole era necessario trovare innanzitutto il giusto verso dei bigliettini su cui erano scritte, ma dopo un paio di minuti tutti erano intenti a leggere e incollare.

Ho ripetuto la stessa procedura con le parole di 2 sillabe (14 bigliettini) e di 3 sillabe (15 bigliettini). Alla fine ho distribuito il foglio con l’ordine giusto delle parole (fig. 4) per dare ai partecipanti la possibilità di controllare il risultato che avevano ottenuto.

Mi ha fatto molto piacere sentire l’entusiasmo con cui alcuni mi comunicavano di aver ‘azzeccato’ tutte le parole. In altri forse l’entusiasmo era minore, in quanto non tutto era corretto, ma in nessuno ho notato frustrazione o disagio.

Anche all’inizio di questa attività c’era apprensione, ma mi pare che sia stata presto superata grazie allo spirito giocoso dell’attività e al ritmo della stessa, che ho cercato di mantenere vivace, anche se questo poteva impedire ad alcuni di leggere con attenzione tutte le parole. D’altra parte, avendo solo 35-40 minuti a disposizione, lo scopo della lezione non era quello di insegnare il coreano, bensì di ‘simulare’ la prima ora di un corso di principianti, per sperimentare sulla nostra pelle le difficoltà, le ansie e i problemi che tale situazione comporta per gli studenti e per l’insegnante.

[1] A onor del vero le cose non sono andate esattamente così. Christopher non è un tiranno subdolo: la mia è stata una scelta libera. Mi pare però che la ‘realtà’ talvolta sia più leggibile se un po’ infiorata.

[2] I brevi cenni descrittivi dell’alfabeto coreano qui proposti sono frutto delle chiacchierate con alcuni studenti e non hanno alcuna pretesa di valore scientifico.