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Principianti e la programmazione di un corso

Sono molti anni ormai che noi, come altri altrove, contribuiamo allo sviluppo di una metodologia nell’insegnamento linguistico che ha preso le distanze da quella tradizionale. Le caratteristiche di questa metodologia sono molte e varie ma ciò che hanno in comune è il tentativo di valorizzare le capacità di apprendimento dello studente. Non a caso insegnanti che vengono a contatto per la prima volta con questi concetti, e magari ne sono abbastanza attratti, spesso esprimono una perplessità che suona più o meno così: “Va bene, lo studente verrà promosso al ruolo di ‘ricercatore’, sarà lui il protagonista, la lingua con cui avrà a che fare sarà autentica; ma il principiante? Non si può pretendere da un principiante di correre prima di sapere camminare; quindi questi nobili princìpi sono utopici per quanto riguarda i principianti: non sono applicabili finché lo studente non avrà le basi linguistiche, metalinguistiche e glottomatetiche.”

Ebbene, questa perplessità è comprensibilissima. Il problema diventa allora: quand’è che si dovrà cambiare rotta? A che livello possiamo cominciare a chiedere un parere allo studente invece di spiegargli quello che deve sapere? A che livello possiamo farlo studiare su testi autentici? Quand’è che avrà le basi? Che significa ‘basi’?

Chi è abituato a rappresentare il progresso nell’apprendimento come una scala potrebbe forse decidere qual è lo scalino buono per cominciare a trattare lo studente in un certo modo. È più difficile per chi, come me, vede l’apprendimento come un piano inclinato senza momenti di discontinuità. Il problema si complica ancora di più se, come penso io, lo studente – anche il principiante assoluto – è una persona che non si trova mai all’inizio del piano inclinato. Quando viene alla prima lezione è già avviato nella salita.

Fantasie? Filosofie idealistiche da torre di avorio? Forse. Vediamo un po’. Che tipo di prova dovremmo avere? Indaghiamo presso gli studenti principianti assoluti per scoprire che cosa sanno già. Sarà vero che non sanno proprio niente? Chiediamogli, per esempio, se pensano che ci siano dei verbi nella lingua che stanno per imparare. Certo, bisogna fare le domande in un linguaggio che capiscono: può darsi che non conoscano il termine ‘verbo’, allora useremo degli esempi nella loro lingua. Chiediamogli poi se pensano che si scrive da sinistra a destra o in un altro modo? Chiediamo se pensano che si può comunicare via lettera. Chiediamo se pensano che esistono soggetti e oggetti grammaticalizzati. Mi vengono in mente mille domande da fare ma credo che il lettore può benissimo trovare le sue. Insomma, il discorso è che sicuramente lo studente è pronto a fare centinaia di ipotesi sulla lingua che comincia ad imparare se soltanto qualcuno si dà la briga di ascoltarlo. Molte di queste ipotesi saranno azzeccate. Conclusione: lo studente non inizia da zero. Le basi le ha già! Si può cominciare subito a trattarlo come un essere pensante!

E a livello psicologico? Si è detto che lo studente principiante assoluto è più fragile di altri. E penso che, in generale, sia vero (vedi l’Introduzione a questo volume). Che bisogna fare allora? Bisognerebbe prima chiarirci le idee circa i princìpi da rispettare idealmente nell’insegnamento linguistico e, per ognuno di essi, considerare quali modifiche vanno fatte per rendere la vita del principiante assoluto piacevole e senza stress negativo.

Cercherò ora, quindi, di affermare in modo sintetico, i principi che ritengo fondamentali nell’insegnamento linguistico. Per chi, giustamente, non vuole trovarsi davanti ad una dichiarazione di dogma cercherò di fornire un minimo di riferimenti bibliografici per consentire l’approfondimento e/o la maggior possibilità di porre obiezioni.

1. Acquisizione & apprendimento

Non tutte le forme (ossia la grammatica) di una lingua vengono imparate in modo cosciente. Accanto, quindi, ad un apprendimento di tipo cosciente in cui l’attenzione del discente è focalizzata sulle forme linguistiche, sulla grammatica, esiste un altro apprendimento, di tipo subcosciente, che avviene spontaneamente mentre l’attenzione del discente è focalizzata non sulle forme linguistiche, bensì sui significati che tali forme veicolano. Al primo tipo di apprendimento viene dato appunto il nome ‘apprendimento’ mentre il secondo tipo viene chiamato ‘acquisizione’ .

Per rispettare questo principio, un percorso di studio dovrebbe essere costituito, quindi, da una sequenza di attività didattiche di cui non più della metà chiede specificamente allo studente di focalizzare l’attenzione sulle forme, sulla grammatica; l’altra metà, invece, dovrebbe invitare lo studente a concentrarsi sui significati, ad esercitare un’abilità comunicativa (parlare, scrivere, leggere o ascoltare), dando così sufficiente spazio ai processi di tipo subcosciente.

Acquisizione

Quando lo studente esercita un’abilità comunicativa la sua attenzione è focalizzata sui significati che vuole esprimere o che vuole capire. Mentre lo studente è concentrato a cercare di capire il senso di ciò che ascolta o legge, a livello subcosciente il suo meccanismo di acquisizione di linguaggio incamera i dati linguistici che il suo programma interno è pronto a recepire. Questi dati vengono sistemati inizialmente secondo regole provvisorie, piuttosto semplici, che man mano con l’aggiunta di nuovi dati verranno elaborate dal meccanismo di acquisizione di linguaggio costruendo un sistema sempre più complesso. È questa la grammatica del discente, che costituisce la base per il linguaggio dello studente, detto interlingua. Parimenti, ogni qualvolta lo studente cerca di esprimere, in libertà, ciò che vuole dire (per parlato o per iscritto) attinge a questa grammatica e, così facendo, contribuisce al suo consolidamento.

Le attività didattiche che invitano lo studente a cercare di capire o a cercare di esprimersi liberamente, quindi, sono attività che, oltre ad esercitare le abilità di capire e di esprimersi, promuovono anche l’acquisizione linguistica.

In un percorso di studio, quindi, per favorire l’acquisizione, ci vogliono due cose:

a) un’abbondante esposizione alla lingua autentica (cioè lingua in tutta la sua complessità naturale) accompagnata dalla consegna di affrontarla in modo autentico (cioè con l’attenzione focalizzata sui significati, come avviene per un madrelingua);

b) numerosissime occasioni per cercare di esprimersi liberamente.

Fermiamoci qui. Già sento delle obiezioni. “Lo studente principiante assoluto davanti alla registrazione di una conversazione spontanea o davanti ad un articolo di giornale non può fare niente: non capisce un accidente. Si sentirà, nel migliore dei casi, preso in giro.” Attenzione: una lettura attenta di ciò che viene affermato sopra rivelerà che non si chiede allo studente di capire. È molto importante questo. Si richiede, invece, che l’attenzione sia semplicemente “focalizzata sui significati”. Niente di più. Se l’insegnante ha chiaro questo e se egli comunica questa chiarezza allo studente, quest’ultimo è perfettamente in grado di svolgere il compito con successo. Idem per quanto riguarda il punto b): non si parla di un’esprimersi corretto; si parla, invece, di “cercare di esprimersi”. Se avviene in un’atmosfera giocosa, viene vissuto come un divertimento.

Andiamo avanti.

Apprendimento

Quando lo studente si concentra sulle regole grammaticali (cioè “fa grammatica”), viene a sapere coscientemente come è fatto il sistema. Le risorse di apprendimento dello studente si possono meglio attivare invitandolo ad una serie di attività orientate alle forme linguistiche, possibilmente a partire da lingua autentica. Attraverso un processo di ricerca consapevole egli scopre così com’è fatto il sistema e sviluppa la capacità di ‘leggerlo’. Viene a sapere quanto c’è di regolare, di sistematico, nella lingua che studia. Egli impiega le sue capacità intellettive per poter dominare maggiormente lo strumento ‘lingua straniera’. Sviluppa una crescente percezione della nuova ‘logica’, inerente alla nuova lingua, diversa dalla logica che soggiace alla lingua che già conosce (anche se lo studente spesso viene a conoscenza dei meccanismi della propria lingua attraverso lo studio della lingua straniera). Non bisogna presumere però che dopo essersi concentrati su un aspetto formale della lingua gli studenti ‘sappiano’ in modo permanente la regola in questione. Concentrarsi su aspetti formali serve, invece, a sviluppare la consapevolezza dei fenomeni linguistici e la capacità di individuarli e di ragionare sulle loro forme e sulle loro funzioni.

Le attività didattiche che invitano lo studente a concentrare la sua attenzione sulle forme, invece che sui significati, sono quindi attività che promuovono l’apprendimento linguistico.

In un percorso di studio, quindi, per sviluppare queste capacità, ci dovrebbero essere diversi tipi di attività tutte basate su processi di apprendimento ‘ricerca e scoperta’. Gli aspetti formali della lingua dovrebbero venire indagati a partire da testi orali e scritti autentici.

Detto ciò, quali sono le limitazioni necessarie per venire incontro alle difficoltà del principiante assoluto?

1. Innanzi tutto bisogna distinguere la Produzione controllata orale dalle altre attività di ‘apprendimento’ riconoscendo che essa costituisce quell’aspetto dello studio che più mette in difficoltà lo studente. In questo tipo di attività occorre pretendere dallo studente prestazioni molto modeste.

2. Sempre per quanto riguarda la Produzione controllata orale, occorre privilegiare l’aspetto ludico, sdrammatizzando così lo sforzo necessario e rendendo divertente la memorizzazione degli elementi sotto osservazione.

3. Per quanto riguarda i contenuti grammaticali da porre come oggetti di attività di ‘apprendimento’, un corso andrebbe concepito in modo tale che gli elementi venissero introdotti in modo ‘soft’, parziale, senza pretendere una conoscenza esaustiva. Poi, più tardi, tali elementi andrebbero ripresentati in maniera più ampia. E poi, più tardi, in maniera ancora più ampia, rimandando più in là una eventuale richiesta di una comprensione buona in merito. Inoltre l’intero programma grammaticale di un primo livello dovrebbe essere di tipo ‘pendenza dolce’ in modo che qualche assenza (o perdita d’animo) da parte di uno studente possa facilmente essere recuperata.

Sento obiezioni per quanto riguarda gli altri tipi di attività di ‘apprendimento’. Forse un esempio può chiarire il concetto. Immaginate che, in un articolo di giornale, l’insegnante sottolinei i primi tre articoli determinativi. Chiedere agli studenti di sottolineare tutte le parole che intuiscono siano articoli determinativi non è necessariamente un’esperienza dolorosa per gli studenti. A condizione che l’insegnante non pensi che gli studenti siano in difetto se non li trovano tutti! Tutto dipende dalle aspettative dell’insegnante, non dal grado di difficoltà del materiale.

Distinzione fra attività orientate ai significati e quelle orientate alle forme

È importante che i due tipi di attività non vengano confusi. Per esempio, un eventuale invito allo studente ad esprimere le proprie idee accompagnato da una richiesta implicita di cercare di non sbagliare la grammatica può avere un effetto negativo sul suo lavoro. Questo perché l’attenzione da parte dello studente alla seconda aspettativa inibisce il buon espletamento della prima. Un altro esempio tipico, che ha lo stesso effetto inibitorio, è quando lo studente deve rispondere a domande di comprensione con frasi corrette.

è importante, invece, tenere i due tipi di attività nettamente separati in modo che lo studente sappia che cosa si vuole da lui e che egli possa impegnare fino in fondo la facoltà cognitiva idonea al compito. In sostanza lo studente deve sapere: “Devo badare alle forme o devo badare ai significati? Devo applicare le mie facoltà analitiche o devo dare libero sfogo alla mia fantasia? Devo ‘fare grammatica’ o devo esercitare un’abilità comunicativa?” L’effetto di una netta distinzione è lo sprigionamento di più energia.

2. Processo o prodotto?

Pretendere di programmare ciò che sarà imparato è come pretendere che un cavallo beva. Chi conosce i cavalli sa che si può condurre un cavallo all’acqua ma non si può costringerlo a bere, come dice un noto detto inglese. In questo senso l’attenzione va spostata dal prodotto al processo d’apprendimento. La domanda fondamentale da porsi è quindi: “Quali processi di apprendimento si vogliono promuovere?”. A mio parere, un tipo di programmazione del lavoro dell’insegnante, che rispetti la naturale autonomia dell’apprendimento, è di tipo esperienziale. Un programma, cioè, che ha come unità di base determinati tipi di esperienze che l’insegnante fa vivere allo studente. Ciò che risulterà ‘imparato’ dagli studenti dopo aver vissuto una certa esperienza sarà diverso per ogni studente. Le esperienze vengono scelte in base alla loro potenzialità di promuovere determinati processi di apprendimentodecidendo il tempo da dedicare ad ognuna. Il prodotto (inteso come il risultato tangibile di una certa attività: ad esempio una lettera, l’esercizio di cloze completato, ecc.) va visto semplicemente come il ‘motore’ per svolgere il processo. Se non si riesce a finire un’attività nel tempo previsto non è grave: lo studente nello svolgere le attività di un corso sta imparando ad imparare: diventa sempre più capace di ‘tollerare’ il suo svantaggio, le sue difficoltà di comprensione, le sue difficoltà nell’esprimersi, le sue difficoltà nel sottoporre ad analisi la lingua. Egli impara a vivere con le sue capacità così come sono e riesce a misurare il proprio sviluppo in termini di crescita di queste capacità.

Un percorso di studio dovrebbe, quindi, essere costituito da una sequenza di attività, ognuna intesa come una particolare esperienza da fare vivere allo studente, esperienza in cui l’accento viene posto sul processo di apprendimento piuttosto che sul prodotto.

3. Interazione in classe

In tutti i processi di apprendimento confrontarsi con un pari grado consente al discente di esprimere le sue ipotesi provvisorie senza sentirsi giudicato dall’autorità, l’insegnante. Così potrà arricchirle nello scambio con l’altro ‘prendendo in prestito’ alcuni aspetti delle ipotesi del compagno. Se questo confronto viene svolto più volte con compagni diversi la distanza fra il suo sapere ipotetico e il sapere ‘ufficiale’ progressivamente diminuisce. Ciò consente allo studente di sfruttare al massimo le proprie capacità individuali prima di arrivare al confronto con l’insegnante.

Lo svolgimento di un compito da parte di due discenti, inoltre, genera la necessità di comunicare oralmente, e si può e si dovrebbe pretendere che ciò venga fatto in L2. (D’accordo: non lo si può pretendere dai principianti assoluti!) Questo tipo di comunicazione tra studenti, a differenza di quanto avviene nella comunicazione studente/insegnante, poiché avviene fra parlanti con pari diritto alla parola, produce la necessità di ‘negoziare’ la presa e la cessione della parola, sviluppando tecniche di alta utilità per la comunicazione al di fuori della classe.

L’insegnante, quindi, per realizzare a pieno quanto detto sopra, dovrebbe cogliere tutte le occasioni possibili per promuovere interazioni in coppie o in piccoli gruppi di studenti e, cosa decisiva, saper rimanere fuori da queste interazioni. Il suo ruolo è sempre meno quello di ‘attore principale’ e più quello di ‘regista’. Cioè spesso si limita a organizzare lo spazio, avviare il lavoro e poi svolgere una funzione di ‘consulente’ a disposizione di ogni singolo studente o gruppo che richieda il suo intervento, rimandando alla fase finale dell’attività una sua propria centralità.

4. Testo o frase?

Da molti anni, ormai, il libri di testo contengono non solo frasi isolate ma anche conversazioni e testi scritti. Spesso ci si limita, però, a costruire conversazioni o testi scritti più o meno ‘realistici’ a partire da frasi esemplificatrici di strutture grammaticali per illustrare come queste ultime possano essere usate. Tutt’altra cosa è considerare l’atto linguistico non come una serie di frasi messe una dopo l’altra, ma come l’insieme stesso, avente le sue regole che non sono la pura somma delle regole delle sue frasi, ma molto di più.

Un testo, sia scritto che orale, ha la sua coesione. Le caratteristiche formali di questa coesione sono un insieme di elementi diversissimi fra di loro che operano o da soli o in sintonia gli uni con gli altri. Si tratta di elementi che vanno dalla pronominalizzazione all’opposizione determinato/indeterminato, dai connettivi al tempo verbale, dall’assegnazione del nucleo intonativo alla scelta della tonalità relativa, e molti altri.

Un testo ha inoltre una sua coerenza. E cioè il parlante sa di avere un interlocutore ed è la sua percezione di questo interlocutore che determinerà alcune delle sue scelte linguistiche. Inoltre sarà la percezione, da parte del parlante, di se stesso, del rapporto appropriato con l’interlocutore, della ragion d’essere della comunicazione, della realtà in ogni sua componente che abbia a che fare con l’atto comunicativo in corso, che determinerà molte rilevanti scelte linguistiche (alcuni studiosi del linguaggio che riconoscono questo stretto legame fra il parlante e il testo chiamano il testo discorso). Sarebbe un controsenso considerare coesione e coerenza come un capitolo isolato che lo studente affronta una volta per tutte: egli dovrebbe invece avere sempre a che fare con testi coesi e coerenti.

In un percorso di studio, quindi, bisogna privilegiare attività che hanno come oggetto testi nel senso pieno esplicitato sopra, e evitare quanto possibile di chiedere allo studente di lavorare con la singola frase isolata.

5. Scritto e parlato

Un altro aspetto della programmazione di un corso dovrebbe partire dalla considerazione della differenza tra il parlato e lo scritto. Questa differenza è tale che vanno visti quasi come due diverse materie di studio aventi ognuna un insieme particolare di regole. Il parlato richiede una capacità di conoscere il complesso sistema della fonologia (che comporta anche una capacità muscolare non indifferente nell’applicazione di questa conoscenza), mentre lo scritto richiede una conoscenza delle convenzioni dello scritto (comprese la sintassi a volte complessa, la punteggiatura e l’impaginazione). Comunque la loro diversità non è semplicemente una questione che riguarda la superficie. C’è qualcosa di più profondo che li rende così diversi l’uno dall’altro; e sono le condizioni nelle quali vengono prodotti. Il rapporto temporale, per esempio, fra il pensiero dello scrivente e la realizzazione del testo è radicalmente diverso da quello fra il parlante e la realizzazione del suo testo. Quando si parla, si traduce il proprio pensiero in un testo in tempo reale: si pensa e si parla, subito. Quando si scrive, invece, si ha più tempo. Non si può muovere la penna alla velocità dei propri pensieri; e comunque, dato che l’interlocutore non è presente, si può anche non scrivere subito ciò che si pensa: si può pensare e ripensare più volte prima di mettere segni sulla carta e revisionarlo, correggerlo, modificarlo fino a farne la ‘bella copia’. Nella lingua parlata non è possibile tutto questo: c’è un rapporto temporale radicalmente diverso fra pensiero e testo.

In un percorso di studio ogni attività dovrebbe mettere in gioco o il parlato o lo scritto, operando una netta distinzione tra le due ‘materie’. Sin dai primi momenti i tempi di studio dedicati a queste due ‘materie’ dovrebbero avere pari importanza.

6. Input e output

L’ultima distinzione in due voci riguarda la direzione del testo: lo studente lo deve ricevere o lo deve produrre. Per capire l’importanza di una ragionata distribuzione delle due direzioni come fulcro delle attività didattiche, basti pensare ad uno studente in una situazione reale di comunicazione con un italiano. Una conversazione faccia a faccia, per esempio (ma il discorso vale per tanti altri tipi di testo). Lo studente può decidere cosa dire e come, ma ha poco controllo su che cosa dirà l’altro e come. Certo, può chiedere di parlare più lentamente, può richiedere delle ripetizioni, delle spiegazioni, ma comunque il rischio che non riesca a capire è altissimo. Per questo motivo la capacità dello studente di capire deve essere curata in pari misura della sua capacità di esprimersi.

In un percorso di studio circa metà del tempo, quindi, dovrebbe essere dedicata alla ricezione e l’altra metà alla produzione.

Riassunto

Riassumiamo quanto detto in uno schema di otto tipi di attività didattiche, i quali andrebbero proposti in un modo più o meno ciclico:

I generi testuali

Il raggiungimento di una buona competenza linguistica presuppone una capacità di confrontarsi con una ricca gamma di generi e tipologie testuali. Sempre rispettando il criterio dell’autenticità, cioè senza riadattare o semplificare, dovrebbe essere proposta, a livello di lingua orale, un’ampia varietà di dialoghi che, per temi e tipi di interazione, offra allo studente un campione di lingua molto ricco. Inoltre le registrazioni dovrebbero essere effettuate in varie zone dei paesi in cui la L2 è madre lingua in modo da garantire l’esposizione ai diversi accenti e usi regionali, utilizzando parlanti di età, sesso e occupazione differenziati. Per quanto riguarda i testi scritti dovrebbe essere offerta una vasta gamma di generi (p. es.: lettere, testi pubblicitari, fumetti, articoli da quotidiani e riviste, brani letterari ecc. )

Aspetti culturali e sociali

Chi impara una lingua straniera spesso s’interessa anche alla cultura (nel senso pieno, ‘antropologico’, del termine) dei paesi in cui viene parlata questa lingua come madre lingua. Gli aspetti culturali dei paesi in questione non vanno trattati in modo separato, ‘scisso’ dalla parte strettamente linguistica del corso. Si dovrebbe, invece, rispettare la naturale unità fra cultura e lingua. È la lingua stessa, attraverso i suoi testi autentici, a veicolare i contenuti culturali. Se la scelta del materiale viene fatta bene, entrando in contatto con essi (e eventualmente con foto, carte geografiche, ecc., che accompagnano questi testi) si dovrebbe avere uno spaccato della realtà socioculturale attuale dei paesi in questione.

Per esempio, se nei testi scritti vengono trattati una serie di temi quali turismo, costume, pubblicità, ecc., allo studente viene offerta la possibilità di costruirsi man mano una sua immagine del paese. Inoltre, ascoltando i dialoghi registrati che propongono interazioni autentiche tra parlanti rappresentativi della diversità regionale, sessuale, sociale, lo studente potrà venire a conoscenza delle diverse modalità di gestire conversazioni, interagire a livello formale e informale, ecc..

Conclusione

Da un po’ di anni a questa parte organizzo il mio lavoro di insegnamento dell’inglese (la lingua che insegno) in modo da poter essere libero per parlare mezz’ora con ogni studente. Il colloquio inizia sempre nello stesso modo, e cioè io chiedo (in inglese naturalmente) “Come va con l’inglese?”. Da quel momento in poi non faccio altro che cercare di ottenere, e di capire, un’articolata valutazione da parte dello studente di ciò che sta facendo. Ad eventuali tentativi (frequentissimi) di girare la domanda a me, rispondo dolcemente che lo scopo del colloquio è di poter io capire meglio lo studente. Tramite questa prassi divento io discente ed a volte imparo delle cose che mi sorprendono. Ritengo, per esempio, di non essere a digiuno riguardo a ciò che gli esperti dicono sulla verifica di competenza e sulla valutazione dei discenti. Ebbene, in uno di questi colloqui mi è capitato di chiedere ad uno studente se riteneva di fare progressi e mi ha risposto di sì. Ho poi chiesto (non so perché: mi è venuta la domanda in testa un po’ per caso) “Come lo sai?”. Lo studente ha riflettuto un po’ e poi ha detto “Ci metto meno tempo ora per trovare le parole di cui ho bisogno per esprimere ciò che ho da dire.” Spesso torno con la mente alle sue parole: mi sembrano al tempo stesso di una semplicità estrema e di una lucidità fortissima. Eppure non conosco nessun esperto del campo che proponga un modo per cercare di misurare tale fattore temporale.

Con questo che voglio dire? Semplicemente che le persone in tutte le epoche storiche, grazie a, o nonostante, i metodi usati dagli insegnanti, sono riuscite ad imparare le lingue. Faremmo bene ad accettare che noi insegnanti e le nostre ‘fisse’ metodologiche siamo meno importanti di quanto non vorremmo credere. I princìpi metodologici esposti in questo articolo, per esempio, – così come in altre proposte metodologiche – andrebbero, quindi, giudicati semplicemente in base alla loro capacità di soddisfare due criteri: da una parte il grado di ‘non interferenza’ con la naturale capacità di apprendimento del discente e, dall’altra, il grado di motivazione suscitata presso il discente di utilizzare con efficacia queste stesse capacità.

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