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Lo scrittore si presenta allo scrittore: la scrittura e lo scrivere nella didattica delle lingue

In questo intervento vorrei portare avanti alcune riflessioni sulla scrittura – intesa come prodotto, nel senso del tessuto di un testo scritto – e sullo scrivere – inteso come processo, nel senso dell’azione di tessitura del testo scritto. Cercherò di esplorare l’importanza sia di tale prodotto che di tale processo nella didattica delle lingue in un’ottica della loro importanza al livello esistenziale per l’essere umano.

Comincio con una prospettiva sulla linguistica in generale. Allo stesso modo di molte altre scienze, si possono distinguere due macro-tipi di approccio: quello fenotipico e quello genotipico. Caratteristico dell’approccio fenotipico sarebbe l’obiettivo della descrizione sincronica di diversi fenomeni linguistici: la morfosintassi, la semantica, la pragmatica, il testo. Da questo tipo di approccio deriva una didattica che definirei essenzialmente normativa. Invece un approccio genotipico si pone l’obiettivo di documentare e di spiegare lo sviluppo diacronico, dialettale e diatipico degli stessi fenomeni a tre livelli: quello della filogenesi, quello della ontogenesi e quello della microgenesi. E porta a una didattica che chiamerei creativa.

Il livello filogenetico riguarda l’evoluzione di interi gruppi e sistemi linguistici e anche lo sviluppo di fenomeni come la scrittura – un’innovazione che risale a pochi migliaia di anni fa. Il livello ontogenetico comprende lo sviluppo linguistico del singolo essere umano – dal protolinguaggio alla lingua madre, da uno a più sistemi linguistici e all’interlingua, e anche l’importanza dell’incontro con la scrittura e con lo scrivere. Il livello microgenetico risulta poi il livello a cui si verificano i singoli eventi e le specifiche azioni che contribuiscono sia agli sviluppi filogenetici che agli sviluppi ontogenetici.

Se prendiamo qualche esempio possiamo vedere come gli atti di microgenesi assicurano che la lingua sia sottoposta ad un processo di cambiamento permanente. E non potrebbe essere altrimenti, perché la sua stessa sopravvivenza ne dipende. Durante il suo impero, l’imperatore Augusto fu duramente criticato da certi elementi patrizi per il fatto che nei suoi discorsi usava le preposizioni piuttosto delle desinenze di caso – in altre parole, un linguaggio troppo “plebeo”. Lui si difendeva ribattendo che lo faceva per assicurare la comunicazione, visto che si rivolgeva al popolo. In questo si può individuare solo un esempio di come la lingua si evolve in base al modo in cui riesce a servire gli scopi dei suoi utenti. La scelta di Augusto può essere vista come una componente di quel processo storico che ha visto la trasformazione del latino classico in una lingua come l’italiano moderno. È inoltre molto interessante individuare sviluppi analoghi e diversi in altre lingue come l’inglese, il tedesco, il francese e lo spagnolo.

Nella lingua inglese possiamo scegliere fra numerosi esempi di trasformazioni linguistiche. Fra queste c’è la fase di grande cambiamento dovuto al periodo di coesistenza ed integrazione dei popoli anglo-sassone e vichingo dopo le invasioni di quest’ultimo nel periodo fra 800 e 1000 dopo Cristo. Tale coabitazione favorì il tipico processo di pidginizzazione associato a fenomeni del genere. I due popoli devono costruirsi un sistema linguistico capace di favorire la comunicazione. Il linguaggio impiegato è necessariamente ridotto all’essenziale, e una delle sue caratteristiche è l’omissione di elementi grammaticali. La perdita delle desinenze di caso portò allo sviluppo di altri mezzi per segnare i rapporti sintattici fra parole. Le preposizioni cominciarono a svolgere tale funzione, e la struttura della frase diventava meno flessibile. In questo modo si verifica il quid pro quo del cambiamento linguistico. Le lingue si mantengono appunto perché riescono ad evolversi secondo le esigenze dei loro utenti. Elementi spariscono e vengono sostituiti. Il rapporto fra forma linguistica e funzione linguistica è in continuo sviluppo.

Credo che si possa benissimo intravedere i contorni di questo tipo di cambiamento in via di svolgimento oggi. Qui vorrei semplicemente sottolineare due elementi di grande importanza in un contesto molto complesso. In primo luogo assistiamo ad un periodo di grande mobilità di popoli, di grandi migrazioni che stanno forse solo per iniziare per quanto concerne le loro eventuali dimensioni. Tale processo porterà inevitabilmente a diversi esempi di pidginizzazione che a prima vista possono essere considerati come un impoverimento della lingua, ma che devono essere visti come inevitabili evoluzioni governate dal principio del “quid pro quo”. Un processo analogo risulterà in secondo luogo conseguenza della sempre più diffusa acquisizione di una o più lingue straniere da parte di milioni di studenti in ogni angolo del pianeta, un fenomeno che dovrà inevitabilmente portare a una revisione di idee di correttezza e “accettabilità” da parte di chi si occupa di linguistica e di didattica.

Se poi passiamo a esplorare l’interazione fra microgenesi e ontogenesi, possiamo prendere l’esempio del bambino piccolo per cui molto spesso la scoperta del nuovo avviene appunto mediante l’apertura di certe cose che prima rimanevano chiuse. In tal caso il verbo “aprire” diventa molto utile per commentare la scoperta. Molti di noi avremo osservato il modo in cui il bambino comincia a imitare con grande soddisfazione le parole dell’adulto, dicendo “aperto!”, per poi, a distanza di qualche tempo, passare a dire con altrettanta soddisfazione “aprito!”. Questo è lo sviluppo dell’abilità di generalizzazione – da “finire”, “finito” e “partire”, “partito” si passa a “aprire”, “aprito” – che risulta uno degli strumenti più potenti per l’apprendimento. Dal solo punto di vista della correttezza linguistica, si potrebbe dire che il bambino fa un passo indietro, ma dal punto di vista del suo processo globale di apprendimento e lo sviluppo della sua intelligenza ha fatto un balzo enorme in avanti.

Se adesso torniamo alla scrittura, possiamo cominciare a vedere che per la didattica delle lingue – che riguarda lo sviluppo ontogenetico dell’apprendente – il grande vantaggio del testo scritto deriva appunto dallo stesso motivo perché noi esseri umani abbiamo cominciato a scrivere in un passato tuttora molto prossimo. Sembra che la scrittura si sia sviluppata e diffusa come il risultato di un desiderio da parte dell’essere umano di rinunciare alla sua vita nomadica e creare qualche forma di comunità stabile. Questo tipo di stabilità portava allo sviluppo dell’uso della lingua per una gamma di scopi per cui il parlare da solo non bastava più. La scrittura forniva esattamente il tipo di permanenza nei testi costruiti che tali cambiamenti sociali, economici e culturali necessitavano. Scrivere permetteva all’essere umano e alla sua comunità di registrare e rendere permanenti le esperienze e le conoscenze in modo che fossero disponibili e potessero essere consultate quando occorreva. E così è proprio il modo in cui il giovane discente può sfruttare il testo come veicolo per il proprio sviluppo intellettuale. Il bambino ha bisogno di partecipare in modo attivo a una serie di “eventi alfabetizzanti” attraverso i quali comincia a sfruttare tutte le potenzialità della lingua concepita come sistema semiotica atto alla creazione del significato. E questa concezione porta a una definizione del pensiero “alfabetizzato” come la capacità di impiegare il potenziale simbolico per permettere che lo stesso pensiero del bambino diventi l’oggetto del proprio pensiero. L’alfabetizzazione permette la scoperta che la lingua può essere sfruttato in modo intenzionale per la cognizione. La scrittura rende la lingua capace di rappresentarsi simbolicamente e così permette che il pensiero diventi consapevole. In quest’ottica il vero processo di educazione (ex-ducere) comincia quando il bambino riesce a trattare il proprio punto di vista come l’oggetto di un discorso alimentato dal dialogo che intraprende con il proprio testo – la tessitura di significati che elabora in base alle esperienze incontrate – ed i testi altrui – intesi come la gamma di input offerti da tutte le fonti che ha a disposizione. E tale processo viene enormemente accelerato quando comincia il processo dello scrivere.

Penso che la scrittura e lo scrivere possono avere lo stesso tipo di importanza nella didattica delle lingue anche per l’apprendente adulto. E qui vorrei citare le parole della pedagogista americana, Marie Louise Holly:

… la scrittura è sia una costruzione che una ricostruzione dell’esperienza, lo scrittore si presenta allo scrittore e si facilita la conoscenza della conoscenza. Lo scrivere può essere molto più potente di quanto non si pensi. Se cominciamo a scrivere liberamente di una questione che ci concerne, ci troveremo a esprimere delle cose mai pensate prima. Dobbiamo formulare in modo esplicito ciò che sentiamo implicito, e così chiarirci cose che forse costituivano un insieme confuso… Durante questo processo arriveremo nuove conclusioni e idee… Non ci dovrebbe sorprendere la facilità con cui molto materiale inconscio sale e diventa conscio durante lo scrivere… Scrivere stimola questo interscambio e ci permette di osservarlo, dirigerlo e comprenderlo.

Mi pare che da questa analisi emergono alcune considerazioni interessanti. In primo luogo, “lo scrittore si presenta allo scrittore”. Si potrebbe parafrasare: “I’apprendente si conosce meglio”. La scrittura – “costruzione” e “ricostruzione” -, attraverso la sua permanenza, permette allo scrittore di tornarci e rifletterci sopra quanto vuole, e di scoprire molte cose di se stesso come apprendente e utente della lingua: i suoi successi e i suoi insuccessi, le sue competenze e i suoi bisogni, le sue strategie e le sue incertezze, il suo modo di ragionare e sperimentare tutto ciò che riguarda il suo tentativo di appropriarsi della lingua. E dopo diventa maggiormente capace di “osservarlo, dirigerlo e comprenderlo”. Risulta più consapevole della propria interlingua, e, se aiutato dall’insegnante, sa valorizzarla come sistema in continuo sviluppo, perfettamente legittimo e da non considerarsi assolutamente una versione illegittima o inadeguata se messa a confronto con la produzione del madrelinguista oppure con altre interlingue.

Emerge un quadro di uno scrivere altamente interattivo – in primo luogo, lo scrittore che interagisce con se stesso come destinatario della propria scrittura, e poi, in un contesto didattico, l’interazione fra scrittore e lettore, che può essere l’insegnante oppure un altro apprendente. Infatti, in questo contesto lo scrivere può essere concepito come interazione sia nel senso della comunicazione che in quello della collaborazione.

Forse il cambiamento più significativo nella didattica negli ultimi anni risulta lo spostamento da un’idea dell’apprendimento come un processo che si verifica dentro individui a quella di un processo che dipende dalle interazioni fra individui. Le conoscenze e le abilità vengono percepite come qualcosa che si costruisce e che si modifica attraverso l’interazione. A questo riguardo, l’influenza dell’opera dello psicologo e pedagogista russo, Lev Vygotsky, è stata di un’importanza fondamentale. Nelle parole di Vygotsky: “Ciò che il ragazzo può fare oggi in collaborazione domani potrà fare da solo”. Nelle varie manifestazioni del dialogo educativo alimentato dall’insegnante ci sono due fasi di apprendimento. La prima fase è quando nuovi schemi concettuali e conseguenti abilità appaiono sul piano sociale dell’interazione quando nella “zona di sviluppo prossimale” l’apprendente viene stimolato e motivato a raggiungere ed estendere i propri limiti, il che risulterebbe appunto impossibile senza tale interazione. La seconda fase è quando questi nuovi schemi e abilità appaiono sul piano individuale attraverso la riflessione sull’attività svolta e la partecipazione in attività analoghe. Così si propone un modello di apprendimento basato sull’importanza dell’interazione e della messa a confronto fra il proprio testo – inteso come il tessere di connessioni che sta alla base dello sviluppo dell’intelletto e delle abilità – e i testi altrui, un confronto che favorisce la riflessione intra-mentale attraverso la comunicazione e la collaborazione inter-mentali.

A questo proposito mi sembra interessante una prospettiva proposta dal semiologo russo, Yuri Lotman. Lotman sostiene che i testi possiedono un “dualismo funzionale”, rappresentato da una “funzione univoca” e una “funzione dialogica”. La funzione univoca riguarda la capacità di un testo di veicolare significati in modo trasmissivo. La funzione dialogica e quella di “generare nuovi significati”.

In questo modo un testo non è più solo un condotto passivo per veicolare qualche informazione costante fra emittente e destinatario. Mentre nel caso della funzione univoca una differenza di messaggio fra input e output all’interno del circuito dell’informazione può verificarsi solo se esiste un difetto di comunicazione, nel caso della funzione dialogica tale differenza è l’essenza stessa della funzione del testo come ‘strumento per il pensiero’. Ciò che risulta un difetto nella prima funzione è la norma nella seconda, e vice versa.

Se riflettiamo sulla scrittura in generale, e anche sulla didattica in modo particolare, possiamo constatare come certi tipi di testo – per esempio, l’orario ferroviario o una serie di istruzioni da seguire – tendono verso la funzione univoca, mentre altri – la poesia o la narrazione – tendono verso la funzione dialogica. Inoltre, il tipo di testo che privilegia la funzione univoca tende a operare in un quadro normativo e a esigere la correttezza e il rispetto delle convenzioni che ne sono tipiche. Invece, il testo dialogico è necessariamente sperimentale e opera in un’ottica di creatività. E mi pare che queste caratteristiche lo rendano particolarmente fertile per la didattica delle lingue. Il dialogo poi può avvenire a diversi livelli – lo scrittore con se stesso, con il lettore e con il collaboratore. Avendo già descritto il tipo di dialogo che lo scrivere può facilitare fra l’apprendente e se stesso, passerei a alcune riflessioni sugli altri livelli di dialogo.

Credo che la didattica debba fornire due elementi all’apprendente: la sicurezza e lo spazio. La sicurezza risulta essenziale perché permette lo sviluppo di fiducia nei propri processi e di stima per i propri prodotti. Lo spazio è altrettanto importante perché permette la crescita dell’autonomia e la ricerca delle proprie vie all’apprendimento e all’auto-realizzazione. E il giusto equilibrio fra sicurezza e spazio cambia da individuo a individuo e da un momento all’altro. Se c’è troppa sicurezza, l’apprendente rischia di essere soffocato. Se c’è troppo spazio, rischia di sentirsi abbandonato. A questo proposito, per l’apprendente-scrittore il ruolo del lettore diventa fondamentale. Innanzitutto, credo che la sua scrittura abbia assolutamente bisogno di risposta, di un feedback che risulti veramente tale – ciò è, un ritorno che nutre e alimenta. Per l’insegnante, pianificare la propria azione didattica vuole dire cercare costantemente le modalità con cui valorizzare al massimo la scrittura dell’apprendente e allo stesso tempo incoraggiare la riflessione sui propri processi e i propri prodotti in modo da ideare alternative e realizzare cambiamenti per portare avanti l’apprendimento. Questi sono gli atti di microgenesi che risultano forse i più importanti in assoluto nello sviluppo ontogenetico dell’apprendente. E la pianificazione vuole dire inoltre cercare tipi di attività con schemi di interazione che possono ottimizzare la comunicazione – nel senso che lo scrivere significa lo scambio di scritti -e la collaborazione – nel senso che la stesura di testi insieme può fornire un’occasione di reciproco sostegno e portare alla solidarietà e l’aiuto che sono alla base dello sviluppo della sicurezza attraverso l’appartenenza al gruppo.

E qui mi pare che le nuove tecnologie informatiche siano particolarmente interessanti. Se l’apprendimento è interattivo, collaborativo e sociale, il computer è uno strumento che può favorire il dialogo – fra schermo e utente e fra utenti disposti in gruppo attorno allo schermo – e un impiego delle interlingue degli apprendenti che permette di scoprire e strutturare le conoscenze e di sviluppare le abilità. Il computer facilita lo scambio di idee e la conseguente revisione e rielaborazione di esse. Basta osservare gli studenti al lavoro per constatare il modo in cui lavorare insieme davanti allo schermo sembra favorire maggiormente la collaborazione. E basta parlare con gli studenti per sentire come il computer può far cadere diversi tipi di blocco, come la sola possibilità di spostare fisicamente il cursore per muoversi all’interno del testo e viaggiare fra testi dà un senso di maggiore fluidità alle operazioni mentali e alla propria capacità di scrivere, come il computer dà all’utente l’impressione di “nuotare” nelle proprie idee e le idee altrui attraverso il video scrivere. Sembra che l’esperienza di un lavoro “hands on” al computer favorisca un’esperienza analoga di “minds on”, ciò è di maggiore motivazione e coinvolgimento.

Per concludere, ho cercato di abbozzare alcune idee a partire da un’analisi di come la scrittura e lo scrivere si collocano in un approccio genotipico alla linguistica per sostenere che la didattica deve collocarsi in un’ottica di atti di microgenesi che contribuiscono allo sviluppo ontogenetico dell’apprendente (e – perché non? -anche dell’insegnante), privilegiando le stesse caratteristiche del tessuto e della tessitura dello scritto che hanno portato alla sua origine e al suo sviluppo filogenetici, appunto perché sono risultate così importanti per l’ontogenesi dell’essere umano.

Bibliografia

Holly, M. L. 1989 ‘Reflective Writing and the Spirit of Inquiry’. Cambridge Journal of Education. vol. 19 no. 1.
Lotman Y. M. 1988 ‘Text within a text’. Soviet Psychology 24,3
Vygotsky L. S. 1990 Pensiero e linguaggio. Laterza. Bari.