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Il corpo e lo scrivere

Prima

Di tutti i laboratori presentati a quest’ultimo Seminario Internazionale, quello da me proposto credo fosse uno di quelli con il più alto grado di rischio perché la nostra è una cultura, almeno dal mio punto di vista, che considera il corpo quasi soltanto come strumento al servizio della testa, o come oggetto di consumo (estetico, erotico o medico ha poca importanza), o come contenitore di quegli strani oggetti che sono i figli. Per cui, mentre siamo abituatissimi ad usarlo, in modo assolutamente inconsapevole, siamo totalmente disabituati ad ascoltarlo ed a percepirlo.

In questo contesto proporre a delle/degli adulte/i di giocare col corpo e attraverso questo gioco arrivare allo scrivere, poteva rischiare di produrre nel migliore dei casi la rivolta e nel peggiore la paralisi totale.

Per fortuna la realtà è stata diversissima e questo devo dire soprattutto grazie alla disponibilità, all’intelligenza ed alla sensibilità di tutte le persone che ci frequentano nonostante o, forse anche grazie, alle nostre stranezze.

Durante

Nell’introdurre l’attività ho precisato quali sarebbero state le coordinate su cui avremmo lavorato:

  1. avrei cercato di accompagnare tutte le persone attraverso una esperienza giocosa;
  2. non ero lì per giudicare quello che avrebbero fatto;
  3. avrei dato loro delle consegne che ognuno/a avrebbe potuto liberamente interpretare come avesse voluto;
  4. l’unica richiesta che pregavo di non trasgredire era questa: non avrebbero dovuto parlare durante tutta la prima parte dell’esperienza che avrei loro proposto.

Le consegne:

  • Alzatevi in piedi.
  • Camminate nella stanza e mentre lo fate ascoltate il vostro respiro.
  • Sentite il vostro corpo che cammina.
  • Se ci sono parti contratte cercate con dolcezza di rilassarle.
  • Ascoltate sempre il respiro.
  • Ora cercate un posto nella stanza dove sentite che state bene. Il vostro posto.
  • Chiudete gli occhi e portate l’attenzione ai vostri piedi: sono una base sicura da cui partire.
  • Sempre con gli occhi chiusi immaginate di essere il personaggio di una favola.
  • Cosa indossate, immaginate i materiali ed i colori di cui siete vestiti.
  • Rimanete con le sensazioni che tutto questo vi fa sentire.
  • Ora vi chiederò di aprire gli occhi e di muovervi nello spazio.
  • Incontrerete altri “personaggi”: create, senza usare le parole, un dialogo di qualche minuto.
  •   …
  • Trovate un modo per chiudere il dialogo e l’esperienza.
  •   …
  • Avete 50 minuti per scrivere una storia.

Alla fine dei 50 minuti ho chiesto ad ogni persona se volesse darmi ciò che aveva scritto. Alcune persone hanno scelto di consegnarmi il racconto, altre no. Ed io, naturalmente, ho rispettato entrambe le decisioni.

Ciò che è successo

Durante tutta la prima parte dell’attività il mio ruolo era dunque quello di condurre ma, naturalmente, ero anche una testimone di ciò che stava succedendo ed è proprio da questo ultimo punto di vista che cercherò di descrivere non ciò che è avvenuto, ma ciò che ho visto e sentito. La differenza può sembrare piccola ma ritengo che sia importante marcare la separazione tra una presunta oggettività (ciò che è avvenuto) ed una reale soggettività (ciò che ho visto e sentito dentro di me). Se poi, coloro che hanno partecipato al mio laboratorio, nel leggere ciò che scriverò, ritroveranno anche una loro esperienza, tanto meglio.

Naturalmente la prima cosa che ho visto era la differente risposta corporea che ognuno dava alla situazione creata dalle mie consegne: difficoltà a trovare un modo rilassato di camminare, mani tenute in tasca per tutto il tempo, sorrisi, forse per allentare la tensione. Questo mentre chiedevo di camminare concentrandosi sul respiro.

Nel momento in cui ho proposto che ognuno trovasse un luogo da cui partire per un viaggio nella fantasia, molte persone sono tornate a sedersi sulla sedia (la stessa da cui erano partite?). Per un momento ho ricevuto questa scelta come un messaggio nei miei confronti: ridimensionare la mia richiesta, riportando tutto a punti di riferimento più conosciuti e concreti. Non nego di aver sentito un attimo di difficoltà. D’altra parte nelle regole del gioco avevo premesso che ognuno poteva interpretare come meglio voleva le mie consegne, per cui, nonostante la sensazione personale del tentativo “riduttivo” operato da una parte del gruppo, sono andata avanti rispettando la loro scelta che peraltro ha dovuto successivamente modificarsi quando ho esplicitamente chiesto di muoversi nello spazio dopo essersi calate/i nei panni del personaggio di una favola.

Quello che ho visto alla mia richiesta di cercare un altro/i personaggio/i creando un dialogo senza parole, usando solo il corpo, è stato molto bello: all’improvviso davanti a me c’era un gruppo di bambini/e che giocavano, lanciavano richiami ad altri/e bambini/e, rifiutavano di giocare mettendosi fisicamente da parte, saltellavano. Per me è stato un momento quasi magico. Non tutte le persone erano a proprio agio ma, se avete mai visto una festa piena di bambini/e che magari non si conoscono tanto bene e cercano una modalità di rapporto tra loro, sapete bene che l’imbarazzo, il rifiuto, l’accettazione, la ricerca di contatto fanno parte delle regole dell’approccio. Globalmente l’aria che ho sentito nella stanza, era giocosa e allegra.

Naturalmente, la scelta finale di chiedere al gruppo di scrivere una storia e non una favola era assolutamente voluta: il fatto di aver visualizzato il personaggio di una favola, nella fase precedente non serviva affatto a produrre meccanicamente quel certo tipo di racconto. Era solo un percorso possibile per lavorare con il corpo e attraverso questo vissuto aprire una porta che liberasse una dimensione creativa. Dunque ognuno/a poteva scrivere qualsiasi tipo di storia o racconto arrivasse dopo quell’esperienza.

Non vorrei sembrarvi troppo ottimista o eccessivamente presuntuosa, ma credo che il fatto che per la stragrande maggioranza delle persone i 50 minuti siano passati soggettivamente veloci, che moltissime persone abbiano scritto tanto e che qualcuno avrebbe continuato a scrivere ancora, questo fatto, dicevo, per me è l’indice che qualcosa di positivo è successo, che quella esperienza ha permesso di toccare, anche solo per un momento ed anche alle persone che non avevano vissuto positivamente tutta la prima parte, una piccola scintilla creativa.

Considerazioni

Bene, dirà qualcuno, splendido. Ma che diavolo c’entra tutta questa operazione “artistica” con l’insegnamento di una lingua straniera? E ammesso che qualcosa c’entri, come la mettiamo con tutti gli improbabili congiuntivi, con le ipotetiche paradossali, con i connettivi sconnessi che impazzano negli scritti dei nostri studenti? Naturalmente queste domande sono entrambe legittime ma, la seconda, è formulata nel contesto sbagliato, dal mio punto di vista: Produzione libera scritta non è una definizione casuale e neppure un bluff. Per cui la mia banalissima risposta è che non è questo il momento del controllo, non è questo il momento in cui l’insegnante debba rappresentare la norma a cui adeguarsi.

E passiamo alla prima domanda, che mi sembra molto più stimolante e pregna di conseguenze una volta data una risposta accettabile. Ci provo.

Winnicott mette in strettissima relazione il gioco, la creatività e la scoperta del sé, separando immediatamente però la creatività dal prodotto in quanto: “Il sé non è realmente da trovarsi in ciò che deriva dai prodotti del corpo o della mente, per quanto importanti possano essere in termini di bellezza, abilità, e significato.”

La creatività, d’altra parte, si sviluppa nell’area del gioco, intermedia tra realtà psichica interna e mondo esterno e una delle caratteristiche fondamentali del gioco stesso è, per lui, quella dell’essere “… essenzialmente soddisfacente. Questo è vero, anche quando esso porta a un grado elevato di angoscia. Vi è un grado di angoscia che è insostenibile, e ciò distrugge il gioco.”

Tutto questo discorso non può non avere delle conseguenze importantissime dal mio punto di vista per quanto riguarda la Produzione libera scritta.

  1. Nel momento in cui chiedo alla persona/studente di “giocare” ed attraverso questo giocare prendere contatto con una parte fondamentale della sua identità sto proponendo una situazione delicatissima.
  2. Se gli chiedo di creare attraverso la scrittura gli sto, in fondo chiedendo di dare il massimo di se stesso/a  a se stesso/a, non a me.
  3. Nello stesso momento faccio una scelta: quella di essere il contenitore, capace di accogliere la persona/studente in questo processo di contatto con se stesso/a.
  4. Ritengo anche che in questo percorso lo studente impiegherà il massimo della sua energia per diminuire la divaricazione che esiste tra ciò che vuole creare e gli strumenti linguistici che possiede.
  5. È chiaro, a questo punto, che la correzione è in assoluto contrasto con tutto questo: mi ricorda tanto quegli adulti che un attimo prima dicono al bambino che per imparare a fare una certa cosa deve provare a farla, e un attimo dopo, esattamente nel momento in cui il bambino comincia a farla, dando il meglio di sé, gli dicono che sta sbagliando e che non è così che si fa.

Conclusione

Insomma credo che nel momento in cui proponiamo una attività dobbiamo, come insegnanti, avere chiaro che ci sono delle scelte da compiere: lasciare lo studente libero di usare la norma, la forma, la regola se questa è funzionale al suo processo creativo – o chiedergli di adeguarsi alla norma. Quando propongo la Produzione libera scritta sto scegliendo la prima delle due possibilità e sto scegliendo di non confondere questo momento con l’altro, pure importante, in cui ci sia un lavoro sulla forma.

Per chiudere vorrei ancora citare Winnicott: “È la appercezione creativa, più di ogni altra cosa, che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta. In contrasto con ciò vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo ed i suoi dettagli vengono riconosciuti solamente come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede adattamento. La compiacenza porta con sé un senso di futilità per l’individuo e si associa all’idea che niente sia importante e che la vita non valga la pena di essere vissuta.”