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Come far uscire un’oca da una damigiana

ovvero «Calmare il sistema nervoso, rilassare i muscoli, abbassare il ritmo cardiaco possono aiutare il discente ad essere più ricettivo?»

In classe 
Claudio ‑ “Buongiorno, entrate, accomodatevi. ” Dodici partecipanti al semina­rio prendono posto nell’aula L della Dilit‑International House organizzata con file di banchi co­me nella figura A.

Claudio – “Prendete una penna” ed intanto consegno loro un foglio bianco. Eseguono.
Claudio – “Avete cinque minuti di tempo per rispondere individualmente a questi tre quesiti:

  1. Come posso unire tra loro i nove punti della fig. B utilizzando quattro e solo quattro rette, senza mai staccare la penna dal foglio?
    •  fig. B    .           .           .
    •               .           .           .
    •               .           .           .
  2. Davanti a voi c’è una damigiana; dentro questa damigiana c’è un’oca; di quest’oca fuoriescono parte del collo e la testa come nella fig. C. L’oca gode di buona saluti;. Il diametro della bocca della damigiana è di cm. 7. Come posso far uscire l’oca dalla damigiana senza che l’oca muoia e senza che la damigiana si rompa?
  3. Quale relazione esiste tra rilassamento ed insegnamento, se esiste relazionò “Da questo momento avete cinque minuti di tempo.”

(Consiglio il lettore di questo articolo di rileggere con attenzione i quesiti e di provare a rispondere). Mi siedo dietro la cattedra e comunico lo scadere di ogni minuto.

Qualcuno prova a comunicare con il vicino. Batto con le nocche sulla catte­dra, guardandoli. Tornano sui loro fogli.

Claudio ‑ “Bene è finito il tempo; giù le penne.”
Eseguono. Mi guardano e si guardano perplessi. Aleggia disagio e rassegnazione. Non sanno cosa farò, a questo punto, dei loro lavori molto probabilmente in­completi per le risposte ai quesiti 1) e 2). Li guardo, alzo l’indice e lo punto verso W.
Claudio ‑ “Per favore, alzati in piedi.”

È successo, ancora una volta è successo! È proprio vero che gli esami non fini­scono mai!
La tensione è alta.
W., in piedi, cerca solidarietà guardando i suoi compagni di sventura.

Claudio ‑ “Ci puoi dare le tue risposte?”
W – “La prima si può risolvere con cinque rette.”
Cl ‑ “Ma io ho detto quattro.”
W – Con quattro è impossibile.”
Cl. ‑ “Con quattro è possibile. Non sei riuscito, ma è possibile.”
W ‑ “Si, non sono riuscito.”
Cl. ‑ “E il secondo?”
W ‑ “Anche con il secondo non sono riuscito.”
Cl. ‑ “Il terzo?”
W ‑ “Secondo me, è molto importante che lo studente ma anche l’insegnante siano rilassati in classe perché così si crea un clima di maggior collabora­zione. Si sta tutti più tranquilli e si lavora meglio. C’è più disponibilità e comprensione.
Cl. ‑ “In questo momento, come ti senti?”
W ‑ “A disagio.”
Cl. ‑ “Perché?”
W ‑ “Sono qui in piedi, tutti mi guardano, … tu che domandi, …”
Cl. ‑ “Io ti faccio le domande per conoscere le tue risposte.”
W ‑ “Sì, ma così… non riesco.”
Cl. ‑ “Grazie, ti puoi sedere.”

Cerco un’altra persona. Vorrei trovare ora qualcuno che mi aggredisca. L’espres­sione del viso, lo sguardo, i gesti, la postura, l’uso dello spazio, mi danno delle indicazioni.
Provo. Ripunto l’indice.

Cl. ‑ “Z., per favore, alzati in piedi.”
Z si alza con un mezzo sorriso del tipo “amenonmifreghi”.
Cl. ‑ “Ci puoi dare le tue risposte?”
Z ‑ “Il primo e il secondo non hanno risposte. Il terzo ”
Cl. ‑ “No, hanno risposta. Tu non sei riuscito a trovarla.”
Z ‑ “Dai, non è possibile unire con quattro rette i nove punti e poi anche la storia dell’oca è uno scherzo!”

Si sta alterando.

Cl. ‑ “Non è uno scherzo; hanno soluzione.”
Z ‑ “Daccela, allora!”
Cl. ‑ “Prima voglio sentire che pensi tu.­
Z ‑ “Io penso che non c’è soluzione.”
Cl. ‑ “La soluzione c’è. Tu non sei riuscito a trovarla.”
Z ‑ “Va bene, non sono riuscito a trovarla.” Il piglio è di sfida.
Cl. ‑ “E il terzo?”
Z ‑ “Penso anch’io che sia molto importante per lavorare bene. Sia l’insegnante che lo studente possono esprimere meglio quello che hanno dentro. Ma tu stai rendendo tutto così difficile”

È arrivato il momento di terminare questa parte del laboratorio.
Batto le mani, faccio un sorriso.

C1. ‑ “Bene, era un specie di gioco. Adesso è finito. Uscite a sgranchirvi.”
I visi si rasserenano; si sentono molti sospiri.
Per tutto il tempo ho avuto di fronte a me M.; solo ora abbandona la respirazione clavicolare, asmatica e la sua pancia riprende ad alzarsi ed abbassarsi seguendo il ritmo dell’aria.

Un attimo di onnipresenza

Se a causa del nostro retto comportamento ci fosse concesso un attimo onnipresenza, potremmo, in quell’attimo, diventare consapevoli che l’esperienza appena descritta è comune alla stragrande maggioranza di quelle strutture chi mate scuola, in ogni parte del mondo. A est come ad ovest, a nord come a sud. L’esiguo numero di casi alternativi a questo, li rende statisticamente non significativi. A ciò, uniamo i nostri ricordi delle strutture e delle esperienze scolastici oltre a quelli di cui siamo a conoscenza attraverso i racconti di parenti ed amici.

Ne dovremmo dedurre che, data la longevità e la diffusione, tale “sistema sia il migliore o per lo meno il migliore praticabile. Se fosse così nessun insegna te e nessuno studente al mondo avrebbe seri motivi per lamentarsi. Non mi sembra che sia così. C’è disagio, c’è rabbia, c’è rassegnazione e si sono espressi anche nel microcosmo del nostro laboratorio. Anch’io ero a disagio. Perché?

Per non rischiare di cadere nel semplicismo o di trincerarci dietro una risposta rassicurante, proviamo ad analizzare:

Gli elementi in gioco

1) Ambiente

  1. Spazio fisico: normalmente è la stanza di un edificio e viene chiamata aula. La sua immodificabilità strutturale è un elemento importantissimo per l’adegua­ta relazione con i punti seguenti. Etimologicamente, aula, ci rimanda ad una sala per riunioni importanti e solenni.
  2. Mobilia: quella riservata all’insegnante è composta di una cattedra che il Devoto‑Oli definisce come banco soprelevato da cui si insegna nelle scuole. Pro­segue dicendoci che in senso figurato “stare in cattedra” si usa per chi parla con presunzione e ufficialità (Non “o” ma “e”, quindi la presunzione non è messa in dubbio). Per quel che riguarda l’aggettivo soprelevato possiamo dire che si può con­cretizzare in una pedana oltre che nelle dimensioni del mobile stesso. Poi ci sono i banchi, dal franco “bank” cioè tavolo o asse che serve da sedile a più persone; il “banco di scuola” può avere davanti un piccolo scrittoio. La sua definizione si trova scritta subito dopo “banco degli imputati” e “banco dei rematori”. Eppure scuola deriva dal greco “skholé” cioè il luogo del riposo.
  3. Luci e colori: solitamente l’unica attenzione è quella di avere luce a sufficienza per leggere e scrivere, e viene ricavata dalla luce naturale che penetra dalle fine­stre e con l’illuminazione artificiale bianca, per lo più al neon. I colori delle pareti e della mobilia, sono scelti in modo più o meno casuale. Spesso la parte inferiore delle pareti è di colore scuro, per ridurre il numero delle tinteggiature.
  4. Oggetti introdotti da noi: libri, quaderni, penne, contenuti in borse e cartelle. A volte troviamo un registratore, un televisore ed un videoregistratore.

Questi sono gli oggetti concreti accettati e usati in un’aula. Il criterio della loro presenza quindi è quello dell’accettabilità. Sembrerebbe fuori luogo intro­durre altro, anche quello che ci è familiare in altri ambienti della nostra vita quo­tidiana: dei telefoni, un vaso di fiori, delle candele, dei piatti, delle posate,…

2) Insegnante: persona che presenta in modo adeguato alle altrui facoltà di apprendimento. L’origine è latina volgare, “in” (illativo)= dentro, all’inter­no e “signum”= segno, intaglio. Tra i sinonimi, troviamo: pedagogo, studioso dei problemi della educazione c quest’ultima origina da “ex”= fuori da… e “ducere”= condurre, portare. La direzione ed il senso, dei due termini “educare” e “insegnare”, sono opposti.

3) Studente: dal latino “studeo”= adoperarsi per, cercare di… L’uso arcai­co di studiare comprendeva stimolare e sollecitare. Un’ipotesi lo dà come va­riante di “tundere”= colpire.

4) Strutturazione dello spazio e del tempo: solitamente il tem­po è definito dai programmi, organizzati non dai diretti interessati, ma da orga­nismi che si avvalgono di personale che, quasi sempre, non ha più o non ha mai avuto un rapporto diretto, continuativo con le classi. Nel quotidiano, il tempo viene speso in due attività definite come: ‘spiega­zione’, quando riguarda la trasmissione del sapere, anche se il significato della parola riguarda più il chiarimento e l’appianamento di una difficoltà intellettua­le; e ‘verifica’, scritta o orale, per controllare in che misura la trasmissione ha dato frutti.

La parola e l’arte della consapevolezza

Voglio aprire qui una parentesi per giustificare l’uso, che può sembrare quasi ossessivo, degli interventi etimologici, nelle pagine precedenti.

Durante il convegno organizzato da LEND a Montecatini nel novembre ’92 ho avuto l’opportunità di partecipare ad un laboratorio tenuto da Martin Dod­man. Spesso, mentre parlava, apriva degli incisi, descrivendo l’etimologia, cer­cando sinonimi, producendo libere associazioni intorno alle parole di cui via via si serviva.

All’inizio mi è sembrato un modo curioso di esporre. Ma questo suo inter­rompere il prevedibile flusso delle parole, portava la nostra attenzione al loro significato profondo, alla loro qualità e alla loro intima natura. Sono a lui debi­tore di questa scoperta.

La saggezza antica e anche quella moderna, che prende il nome di psicologia e psicanalisi, ci dicono che, anche attraverso le parole che pronunciamo manife­stiamo parti del nostro mondo interiore. Ogni parola racchiude simboli, ha una sua potenza; è fonte di analogie e di evocazioni. La celeberrima pubblicazione di Sigmund Freud, “Psicopatologia della vita quotidiana”, ce ne dà ampia pro­va attraverso l’analisi dei lapsus linguae, della dimenticanza dei nomi, delle paro­le straniere.

Sempre a questo proposito, Bruno Bettelheim e Karen Zelan scrivono: “… gli errori di lettura (ad alta voce) dei bambini possono aver molto a che fare con le loro preoccupazioni del momento, omero, come direbbe Piaget, con la natu­m del presente sistema di significati in uso al momento della lettura, benché egli abbia in mente soltanto significati consci. Ma un sistema di significati include anche pensieri preconsci ed inconsci. Un testo che comunica un sistema di signi­ficati suscita così reazioni a più di un solo livello di coscienza La persona compie l’errore perché, a livello subconscio, è già occupata coi pensieri che giu­stificano l’errore stesso. Altri errori hanno spesso la natura di una sfida, compiu­ta nella speranza inconscia di provocare una reazione. Alle volte sono fatti allo scopo di ottenere l’aiuto di un’altra persona per superare un punto morto. Gli errori di lettura dei bambini possono essere tentativi di risolvere conflitti …”.

Queste sono alcune delle motivazioni per cui ritengo non solo valido, ma prezioso il lavoro di analisi etimologica il cui frutto è una maggiore conoscenza e consapevolezza delle parole che usiamo, e dunque di noi stessi.

Un mondo nuovo o un nuovo mondo (in classe 2°)

Chiudo la porta dietro all’ultimo. Creo un po’ di penombra accostando le persiane; dispongo le sedie in modo da formare un grande cerchio; tutto il resto va in un angolo. Aziono il registratore e ne esce “The Pearl” di Brian Eno. Sono trascorsi meno di quattro minuti quando chiedo di riprendere posto in classe. Sono tutti seduti in cerchio. Awerto curiosità e meraviglia.

Distribuisco un foglietto.

Cl. ‑ “Pensate al nome della persona, dell’oggetto, del pensiero, che più vi di­strae dal vostro essere qui in questo momento. Pensateci e scrivete. E mentre scrivete provate a trasferire su questo foglietto an­che l’emozione legata al pensiero distraente.” Sul mio foglietto scrivo: “tensione”.

Quando tutti hanno finito, lo strappo con forza e lo butto nel cestino per la carta, che ho preparato al centro del cerchio. Invito a fare altrettanto. Alla fine dell’operazione, porto il cestino fuori dalla porta e la richiuso.

Cl. ‑ “Ecco, ora siamo tutti un po’ più presenti,…Sediamoci comodi, la schiena è ben appoggiata allo schienale, le mani sono sulle cosce, gli occhi sono chiusi ed ora portiamo l’attenzione all’aria che entra, fresca, ed esce, calda, dalle nostre narici. Entra aria fresca ed esce aria calda     Entra aria fresca ed esce aria cal­da        Tutti i nostri muscoli si stanno rilassando           sempre di più, sempre di più. Se sento tensione in un certo punto del mio corpo, lì dirigo l’aria fresca che entra e con l’aria calda che esce, se ne va anche la tensione           Più volte dirigo   D’aria fresca che entra ed espiro la tensione       e l’attenzione ritorna alle nari­ci… inspiro aria fresca ed espiro aria calda… se un pensiero si insinua, lo lasciamo passare, come una nuvola… ha un inizio…ha una fine… torniamo all’aria cric inspiriamo e che espiriamo attraverso le nostre narici…

Ora, lentamente spostiamo l’attenzione al petto, al centro del nostro petto…Sproprio in questo punto si sta formando una porta … è una piccola, bella porta… la sua forma è piacevole ed anche il suo colore è piacevole… la porta è socchiusa… proviamo ad aprirla ancora un po’ …senza sforzo …lentamente proviamo ad aprire la nostra porta… ancora un po’… un altro po’… Fermatevi quando sentite che non si vuole più aprire, ma solo se non si vuole più aprire…ora è più aperta di prima e attraverso la nostra porta esce una luce verde, intensa, gra­devolissima,… una luce verde, intensa, piacevolissima, esce dalla nostra porta…            godiamoci l’intensità e la gradevolezza di questo bel verde           riportiamo l’at­tenzione, lentamente, alle nostre narici e all’aria che inspiriamo e che espiria­mo,…inspiriamo ed espiriamo… lentamente ritorniamo qui alla DILIT, in questa stanza e quando ve la sentite aprite gli occhi e sgranchitevi.”

All’inizio del rilassamento c’è stato un po’ di imbarazzo; comunque più della metà dei presenti è riuscita a rimanere concentrata per tutto il tempo. Gli altri sbirciavano di tanto in tanto. Una sola persona ha tenuto gli occhi aperti ma non mi pareva a disagio. Per essere “la prima volta” di questo gruppo, ritengo che il risultato sia soddisfacente.

Cl. ‑ “Ora siamo un po’ più aperti di prima, la nostra porta è un po’ più aperta. Ognuno di noi ha mille buone ragioni per tener sprangata la sua porta; però da una porta chiusa non può passare nessuno, ne’ per entrare, ne’ per uscire; non passa aria; non arrivano suoni dall’esterno, ne’ possiamo mandarne. Allo stesso modo si comportano le nostre porte interne. Soprattutto se sto lavorando con una lingua ho, invece, necessità che la stessa abbia meno ostacoli possibile per il suo accesso e per la sua produzione, per la produzione della grammatica interiore.

Queste sono alcune delle tante possibilità: la musica, il cerchio, il cestino, il rilassamento, le visualizzazioni. È tutto a costo zero e sono proponibili ovun­que, secondo me. Soprattutto con le visualizzazioni, con un minimo di adde­stramento della classe e dell’insegnante, avete a disposizione l’universo.”

M ‑ “Che tipo di musica usi?”
Cl. ‑ “Dipende dall’obbiettivo. Se è per far “aprire le porte”, ho notato che è meglio usare musica che non segua una linea melodica. La musica barocca, ad esempio, segue moduli precisi, matematici, è un “pensiero musicale”. Siamo dunque portati a seguire il filo di questo “pensiero”. Se non esiste prevedibilità, ma è l’insieme musicale a creare l’ambiente, la nostra attenzione dopo poco non segue più la musica, che però continua la presenza discreta. La musica che uso io è definita appunto “musica per ambienti” o “musica di­screta”: “The Pearl”, “Ambient n° 1”, “Music For Airports” di Brian Eno. Queste sono le mie preferite, ma ci sono molti altri compositori interessanti a questo fine. Prova! L’unica attenzione, secondo me, sta nell’individuare quell’intervallo che ha ad una estremità musica con marcata melodia e dall’altra la musica da meditazione. La musica che sta oltre questo intervallo ritengo che non sia in sintonia con que­ste finalità ”

R ‑ “Qual è la soluzione delle domande iniziali?”
Cl. ‑ “Per quanto riguarda i nove punti è questa:

 Il suo significato è che non si riesce a trovare una so­luzione se non si esce dal quadrato che non esiste ma che abbiamo creato noi stessi; l’oca nella damigiana è quello che in Giappone chiamano “koan”; il suo scopo è di farci capire che per risolvere un problema dobbiamo usare gli stru­menti appropriati, non quelli abituali o quelli di cui siamo più padroni. È un problema immaginario e va risolto in modo immaginario. È sufficiente schioccare le dita 0 dire “abracadabra” e l’oca uscirà dalla damigiana.”
R ‑ “Ma non è vero!”
Cl. ‑ “Certo che non è vero. Io vi ho detto che davanti a voi c’è una damigiana e dentro la damigiana c’è un oca. E un problema immaginario, lo strumento cor­retto per risolverlo è l’immaginazione. Siamo noi che vogliamo usarne uno ina­deguato. La razionalità in questo caso è solo un ostacolo.

La terza domanda è la cornice del paradosso. Tutti ritengono che sia impor­tante lavorare in un ambiente tranquillo e rilassato ma continuiamo a vivere e a creare esattamente l’opposto nel nostro quotidiano. Il messaggio indiretto, quin­di profondo e sleale che ci arriva da un’aula organizzata come in fig. A è: la nor­ma prevede che la persona denominata insegnante sia “al di sopra” degli altri, denominati studenti. La sua posizione soprelevata, la sua frontalità rispetto al gruppo, la barriera fisica della cattedra, lo sanciscono. Così, tutti i giochi sono già fatti; questa situazione è di per se la condanna a ripetere. A ripetere gli atteg­giamenti, i comportamenti di chi ci ha preceduto. A meno che non riteniamo di aver abbastanza dubbi da mettere in discussione la norma.”

L’ora a nostra disposizione è finita; ci salutiamo. Mentre escono, per appro­fondire l’ultimo punto di cui trattavo, consiglio di leggere il Bollettino dilit n° 3 del 1992 dove Luigi Micarelli scrive:

“…un insegnante, scelto un argomento, si produce in una esauriente spiegazio­ne… abbiamo così un polo della relazione (l’insegnante) che sviluppa la sua ca­pacità di trasmissione delle conoscenze… l’altro polo della relazione (gli studenti) invece, ascolta, prende appunti migliorando così la sua capacità di ascolto. Paradossalmente, è come se l’insegnante sostenesse ogni volta un esame, c gli studenti fossero la commissione giudicante che valuta la performance dell’in­segnante stesso. Ma di tutto quello che ha detto l’insegnante, quanto rimarrà patrimonio de­gli studenti? …poi quando andiamo al piano pratico ci troviamo davanti a grossi sensi di in­ sufficienza e di impotenza. E tutto questo si trasforma in disagio… che si può incanalare o verso gli studenti colpevolizzandoli, o verso noi stessi in termini di disistima. “

A che gioco giochiamo?

Quello che scrive Luigi Micarelli trasforma la norma in un paradosso. Lo stru­mento che ha usato è l’analisi delle relazioni. Ed è proprio questa, secondo me, la strada da percorrere per cercare una risposta all’insoddisfazione, al disagio, al senso di inadeguatezza, di isolamento che si possono creare nello svolgimento della nostra professione e che troppo spesso invece sfogano in giudizi tanto som­mari quanto drastici, contro di noi o contro gli altri.

Personalmente ritengo di particolare interesse, a questo proposito, quella bran­ca della Psicologia Sociale che prende il nome di Analisi Transazionale, di cui ciò breve cenno qui di seguito con l’intento di incuriosire i colleghi e di stimolar­li all’approfondimento.

Per Eric Berne, iniziatore dell’Analisi Transazionale, ogni membro di un ag­gregato mira a ricavare il maggior numero di soddisfazioni possibili dalle transa­zioni, come vengono definite le unità di rapporto sociale, con gli altri membri; così obbedisce alle richieste interne di quelle che sono chiamate: “fame di rico­noscimento”, attraverso “carezze” simboliche, e “fame di struttura” cioè al bi­sogno di strutturazione delle ore di veglia come organizzazione della realtà esterna.

Le forme più remunerative di contatto sociale sono:

  • l’intimità, molto rara, da considerarsi un obiettivo finale;
  • i giochi, schemi fissi di stimolo e reazione inconsci e sleali che si cominciano ad imparare fin dai due anni e che probabilmente ci ac­compagneranno tutta la vita.

I giocatori siamo tutti noi nella tessitura dei nostri rapporti. O meglio, i giocatori sono i nostri “stati dell’io”. L’Analisi Transazionale definisce co­me “stato dell’io” quel sistema di sentimenti che è accompagnato da un relativo insieme di tipi di compor­tamento.

Gli “stati dell’io” sono:

  • G‑ il Genitore, che è quello che conser­va dentro di sé gli stati dei nostri genitori, come noi li abbiamo vissuti. Tutti si portano i genitori dentro.
  • A‑ l’Adulto, che è quello che riesce a valutare i dati della realtà. Tutti hanno un adulto dentro.
  • B‑ il Bambino, che è quello che porta i residui dei bambini che siamo stati. Tutti hanno un bambino dentro.

Ad ogni momento ciascun membro di un aggregato sociale manifesterà uno stato dell’io tipico del Genitore o del Bambino o dell’Adulto, e passerà più o meno prontamente dall’uno all’altro.

Le caratteristiche del Genitore sono: fronte accigliata, indice puntato, scuo­tere il capo, sguardo inorridito, mani sui fianchi, braccia incrociate sul petto, schioccare la lingua, sospirare, carezzare il capo o la spalla di un altro, usare pa­role come: “. . Una volta per tutte. . . “, “quante volte te l’ho detto?”, “non de­vi mai     devi sempre      “. Si sente sempre OK, sente gli altri non OK.

Le caratteristiche del Bambino sono: occhi bassi, ridacchiare, mordersi le un­ghie, sollevare la mano per chiedere il permesso, usa parole come: “Farò…”, “Io voglio…”, “Io desidero…” e molti superlativi. Si sente non OK, sente gli altri OK.

Le caratteristiche dell’Adulto sono: viso con espressione franca ed attenta. Nel suo vocabolario si trovano: perché, cosa, quando, chi e come, secondo me, vero, falso, probabile,… Decide e assume responsabilità, sa sopportare e accetta­re insuccessi, è presente alla realtà, manda messaggi diretti. Si sente OK, sente gli altri OK.

L’insieme classe è un aggregato sociale, quindi quello che accade, ciò che ognu­no dice o non dice, ciò che ognuno fa o non fa può essere interpretato attraverso questa analisi. Più in particolare, per quello che riguarda la nostra posizione di insegnanti, che stato dell’io vogliamo si inneschi negli studenti? Se vogliamo per­sone responsabili, che prendono le loro decisioni, dobbiamo rivolgerci al loro Adulto, ma lo potremo fare solo se sarà richiamato dal nostro Adulto. In questa direzione si muove, secondo me, la disposizione delle sedie in cerchio, il rilassa­mento, la musica, i colori e le altre proposte che avete trovato nelle pagine pre­cedenti.

A mio giudizio esistono due fattori che gravano sull’altro piatto della bilancia:

  1. Ognuno di noi porta inciso come su di un compact disc, quindi ad altissima fedeltà, i comportamenti dei propri educatori, sia nel pro­prio mondo interiore sia sulla propria corteccia cerebrale. (Chi ha tempo e voglia, a questo proposito vada a documentarsi sugli espe­rimenti eseguiti da W. Penfield e successori);
  2. Le logiche della burocrazia. Scrive B. Bettelheim: “L’educazione è diventata la più grande impresa individuale della nostra società. In essa sono impegnate più persone che in qualsiasi altro settore…Di conseguenza un’estesa e potente burocrazia serve non solo gli inte­ressi dell’infanzia ma anche i propri, non sempre in accordo con quanto servirebbe nel migliore dei modi all’educazione Molte pro­cedure quotidiane nella scuola sono permeate dalla necessità del sistema educativo e tali necessità spesso hanno la precedenza su quelle dei bambini       ciò crea tensione all’interno del sistema            educativo. . . “.

Il peso di questi due fattori sovrasta tutto quello che c’è sull’altro piatto? Questo dipende da noi: come ho scritto prima, una delle caratteristiche princi­pali dell’Adulto è quella di assumersi la responsabilità di scegliere. Dunque tutto dipende dalla risposta che decideremo di dare a questa domanda: a che gioco giochiamo?

Per approfondire

AA.W. 1982. Il rilassamento. Astrolabio. Roma.
Argyle, M. 1992 Il corpo ed il suo ligio. Zanichelli. Bologna.
Assagioli, R 1982 Psicosintesi terapeutica. Astrolabio. Roma.
Bateson, G. 1976. Verso un’ecologia della mente. Adelphi. Milano.
Berne, E. 1967. A che gioco giochiamo? Bompiani. Milano.
Bettelheim, B. e Zelan, K. 1991. Imparare a leggere. Feltrinelli. MI.
BuLler, C. 1974. La psicologia nella vita del nostro tempo. Garzanti. MI.
Cinti, D. 1980. Dizionario dei sinonimi e contrari. Ist. DeAgostini. NO.
Corman, L. 1993. Viso e carattere. Mediterranee. Roma.
Devoto, G. e Oli, G.C. 1971. Dizionario della Liria italiana. LeMonnier. FI.
Devoto, G. e Oli, G.C. 1982. Dizonario etimologico. LeMonnier. FI.
Freud, S. 1958. Psicopatologia della vita quotidiana. Astrolabio. Roma.
Fryba, M. 1992. L’arte della felicità. Mondadori. Milano.
Harris, T.A. 1992. Io sono OK, tu sei OK Rizzoli. Milano.
Hart, W. 1990. L’arte del vivere. Rizzoli. Milano.
Micarelli, L. 1992 “Chi deve fare grammatica” Bollettino DILIT n° 3, 1992
Penfield, W. 1952 “Memory mechanism” A.M.A. Archives of Neurology and Psychiatry. McGill University. Montreal.