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Che significa capire?

Abbiamo aperto la fase laboratori del seminario con quattro laboratori identici, tenuti in parallelo, ognuno con un animatore. Lo scopo era di cercare di gettare un po’ di luce su che cosa significa capire; lavoro essenziale per dare un senso al resto del seminario. Purtroppo viviamo in un mondo in cui viene costantemente divulgata un’idea ristretta del concetto di “significato”. Nei periodici di largo consumo si trovano dei “quiz” in cui il lettore deve cercare di dimostrare di sapere il corretto significato di certe parole. A scuola troviamo professori di letteratura che spiegano il corretto significato dei testi letterari. “Capire”, quindi, significherebbe “essere al corrente della corretta interpretazione delle parole, dei testi”. Il “significato” sarebbe una proprietà delle parole, dei testi. Il lettore sarebbe, quindi, una persona che riceve il significato che sta sulla pagina. La direzione sarebbe dalla pagina al lettore. Il significato delle parole sarebbe un dato di fatto oggettivo; tocca al lettore semplicemente riconoscerlo.

Eppure nella vita quotidiana applichiamo un altro criterio. Ci capita di dire, durante una conversazione, “che intendi con …?” Capiterà a chi sta leggendo questo articolo di chiedersi “che cosa intende lo scrittore?” o “dove vuole arrivare?”. O dopo aver visto un film ci capita di dire “che cosa voleva dire il regista con questo film?”. Ecco, il “voler dire” si è spostato dalle parole, dal testo, alla persona, a chi ha usato quelle parole, quel testo. Nella vita quotidiana riconosciamo che cerchiamo di capire le persone, non le parole, i testi. Le parole, i testi, sono semplicemente il mezzo, un mezzo approssimativo peraltro, del quale chi cerca di farsi capire fa uso.

Continuiamo a porre la nostra attenzione sulla vita quotidiana e prendiamo in esame non più chi produce testi bensì l’interlocutore: chi, cioè, cerca di capire. Leggere, o ascoltare (non fa nessuna differenza per questa argomentazione), un testo è un’esperienza personale. Le esperienze vengono vissute in modo soggettivo: “Come ha vissuto Paolo il distacco dalla mamma?” “Come vivi il caos della grande città?”. Oppure vengono “lette”: “Come leggi questa situazione?” “Che lettura dai a questa serie di fatti?” Si sa che le letture possibili sono molteplici. Alcuni professori di letteratura, troppo pochi purtroppo, fanno capire agli alunni che si può leggere lo stesso testo in chiavi diverse: in chiave psicoanalitica, in chiave marxista, in chiave femminista, per esempio. Quante volte, dopo aver visto un film insieme ad un amico, ci è capitato di trovarsi in disaccordo con l’amico sul grado di importanza di certe scene? Quante volte abbiamo sentito una notizia (letta precedentemente nello stesso giornale che abbiamo letto noi) raccontata agli amici da un altro in modo da farci sentire in dovere di interrompere con delle “precisazioni”?

Insomma, l’osservazione della vita quotidiana ci insegna che il lettore/ascoltatore/vivente legge/ascolta/vive in modo selettivo, in modo soggettivo. E ovvio, no? È talmente ovvio che sarebbe assurdo sprecare carta e il tempo dei lettori e dei partecipanti al seminario a parlarne, no? Invece, quando andiamo a vedere la prassi di molti insegnanti di lingua, le proposte di molti formatori e le proposte didattiche di molti editori, tanto ovvio non sembra affatto. Ci troviamo di fronte ad una prassi molto diffusa in cui, in un modo o nell’altro, allo studente arriva il messaggio che ci sia una “corretta” interpretazione di un testo, nella fattispecie di un brano di ascolto. Troviamo, per esempio, delle domande di comprensione o, l’equivalente moderno, dei fogli lavoro (tipo “vero o falso”, “scegliere la figura”, “scelta multipla”, “completare la frase”, ecc.). Chi crea questi quesiti parte col domandarsi quali sono i punti salienti del brano. Lo ascolta tante volte e si pone nella situazione di chi deve fare un riassunto “oggettivo”. La differenza fra un riassunto e un foglio lavoro risiede unicamente nella mancanza di coesione testuale in quest’ultimo. Al produttore manca la consapevolezza che la sua lettura “oggettiva” è in realtà espressione della propria lettura soggettiva. Se, come nella maggior parte dei casi lo è, egli è molto “scolarizzato”, la sua lettura soggettiva non si differenzia moltissimo da altri soggetti molto scolarizzati, altri produttori di fogli lavoro. Scambiare per “oggettività” una similitudine nell’apprendimento di certe convenzioni è un errore. Quali sono queste convenzioni? Ne bastano due per dare l’idea. Una, per esempio, è di trattare il testo come un oggetto statico, come se non ci fosse stato un lasso di tempo fra l’enunciazione delle prime parole e le ultime, come se i pensieri dei parlanti fossero rimasti senza alcuno sviluppo dall’inizio alla fine della conversazione. Un altro è di attribuire più importanza alle informazioni fattive menzionate, ai fatti concreti, a scapito delle informazioni affettive e relazionali scambiate fra i parlanti (e spesso addirittura trascurandole completamente come se non facessero parte della comunicazione).

È vero che molti insegnanti mi risponderanno che non usano questi fogli lavoro per controllare la comprensione, bensì per invogliare gli studenti a riascoltare il brano. Ci sono due cose, secondo me, cui questi colleghi non hanno riflettuto a sufficienza. La prima è che riascoltare un brano per cercare la risposta a qualche domanda posta da qualcun altro è un’attività assai diversa da, e assai riduttiva rispetto a, quella che lo studente stava facendo durante gli ascolti precedenti (senza il foglio lavoro). Diversa, perché prima le domande se le poneva lo studente stesso, e riduttiva, perché prima il brano intero era sotto esame; ora no. La seconda cosa non sufficientemente presa in considerazione è la potenza del foglio lavoro o dell’elenco di domande che sia. Lo studente non è nato ieri: lui sa che questo foglio lavoro è frutto del lavoro di un “esperto”. Sa che rappresenta la lettura “corretta” del brano. Non si permetterebbe mai di contestare la sua logicità. L’effetto è che lo studente abbandona immediatamente la sua lettura del brano e si addotta in pieno quella che si deduce dalle domande. Non si può pretendere che facendo così lo studente sta sviluppando la sua capacità di capire.

Fra i colleghi che non usano dei fogli lavoro o delle domande di comprensione c’è un’altra prassi molto diffusa. Va con il nome inglese di “feedback”. Avviene più o meno nel modo seguente. L’insegnante chiede alla classe che cosa hanno capito (dopo magari più ascolti ed una o più discussioni in gruppetti). L’insegnante, poi, “aggiusta” le risposte degli studenti, modificando qualche dettaglio qua e là e colmando qualche lacuna, per “guidarli” alla comprensione “giusta”. Questa prassi va criticata esattamente negli stessi termini sovraesposti.

Allora, che cosa abbiamo fatto nel laboratorio? Abbiamo invitato ad uscire con noi due volontari di madre lingua italiana. Poi, uno alla volta (il secondo è stato tenuto all’oscuro di ciò che succedeva con il primo) ha risposto in modo esauriente alla nostra domanda “Che cosa ha detto Stefano Urbani nel suo intervento?” (L’intervento di Stefano aveva avuto luogo immediatamente prima di questo laboratorio. Non ci avevamo assistito apposta per rendere la nostra domanda più autentica.) Le risposte dei due volontari sono state registrate e, insieme ai partecipanti del laboratorio, abbiamo sentito le registrazioni una dopo l’altra, ponendo la nostra attenzione sulle differenze fra l’una e l’altra. Le differenze rilevate erano di vari tipi:

  •  l’ordine in cui venivano raccontati gli argomenti;
  • il tempo dedicato ad ognuno degli argomenti;
  • argomenti che mancavano in uno dei due racconti;
  • la quantità di “valutazioni” personali degli argomenti o dell’intervento intero;
  • ecc.

Avevamo, quindi, una situazione in cui di costante c’era il testo originale (l’intervento di Stefano), la competenza di ascolto dei due ascoltatori (di madre lingua, insegnanti e volontari) e la domanda a cui rispondere. Di variabile c’erano le due risposte. Due persone le cui rappresentazioni dello stesso testo originale si differenziavano l’una dall’altra. Durante la discussione successiva qualcuno ha cercato, in modo diplomatico certo, di sostenere che uno dei due era più bravo, che la competenza di ascolto di uno dei due era discutibile. È esattamente quello che avevamo previsto. È praticamente impossibile lavorare con un gruppo di insegnanti senza che venga a galla l’abitudine di vedere tutto in termini di giudizi di valori, in termini di paragone con un modello ideale (che spesso è l’idealizzazione che l’insegnante fa di se stesso: “io avrei raccontato l’intervento di Stefano in un modo più organico, più sistematico, più razionale, più giusto”)

Comunque, questo discorso non ci ha convinto. Prima perché i volontari, quando è stato chiesto loro se hanno capito Stefano, hanno risposto tutti e due con convinzione “sì, perfettamente”. E chi meglio di loro può giudicare? E secondo, se fosse vero che uno dei due avesse un difetto nella capacità di capire, come fa a vivere in un modo normale? Se una persona ha raggiunto un’età matura, si è laureata, svolge un lavoro di responsabilità, affitta una casa, fa le spese, si difende dai vigili, viaggia, si tiene in salute, vota, fa amicizie, partecipa a seminari, si fa da mangiare, attraversa la strada, progetta le vacanze, usa un telefono pubblico, sceglie che cosa guardare alla televisione, impara una lingua straniera e compra i biglietti per l’autobus, come ha fatto se non riesce a capire bene?

Ciò di cui dobbiamo renderci conto è che abbiamo un nascosto desiderio di megalomania! Vorremmo che tutti capissero nel nostro stesso modo. Non importa se l’altro è più emotivo di noi. Per carità, siamo democratici, può anche mantenere la sua emotività, ma sarebbe meglio per lui se, quando ascolta, capisse in un modo poco emotivo, come noi! E se l’altro è più fantasioso di noi? Va bene: può usare la sua fantasia quando è conveniente, per raccontare favole ai bambini, per esempio. Ma quando ascolta, deve imparare a spegnere la fantasia; altrimenti capirà tutta una serie di cose che non stanno nel testo! Ahimè, perché gli studenti non riescono ad essere più simili a noi?!

Finora abbiamo parlato di differenze fra ascoltatori diversi in termini che possiamo chiamare “caratteriali” (emotività, fantasia, ecc.). Ma quando consideriamo le differenze di esperienze di vita fra persone diverse, la gamma di possibili modi di capire uno stesso testo si ampia. Quando ascoltiamo non siamo passivi ricevitori di significati preconfezionati. Siamo attivi: diamo un senso al testo. La direzione è piuttosto da noi al testo, non il contrario. E a questa impresa portiamo tutta la nostra conoscenza, tutta la nostra esperienza. Se io ho vissuto 10 anni in campagna in mezzo alle mucche, i maiali e le pecore e ascolto due contadini parlare di queste cose, è poco probabile che capisco nello stesso modo di un collega che ha passato tutta la vita in città. Ma neanche se ascoltiamo un terzo collega, cittadino anche lui, che ci racconta i suoi desideri di andare a vivere in campagna, lo capiremo nello stesso modo. Non possiamo sopprimere la nostra esperienza: fa parte di noi e spontaneamente ce ne serviamo per capire gli altri.

Insomma, abbiamo concluso il laboratorio con lo scrivere quanto segue alla lavagna e invitare i partecipanti a sottoscriverlo. Anche se mi rendo conto che sottoscriverlo non è affatto facile per chi ha insegnato in un certo modo finora, faccio lo stesso invito al lettore. Il conseguente sprigionamento di energia da parte degli studenti vale veramente lo sforzo.

  1. Io, davanti ad un insieme di stimoli, percepisco solo alcuni aspetti e in un modo personale.
  2. Le mie esperienze e il mio carattere mi orientano nella selezione e organizzazione percettiva della realtà.
  3. Siccome nessun altro ha esattamente la mia stessa esperienza né il mio stesso carattere’ devo prestare rispetto nei confronti delle percezioni altrui.