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La discussione finale su “Alcuni modi di fare grammatica”

Al termine del Seminario si è tenuta una discussione finale nella quale i partecipanti hanno avuto modo di confrontarsi sui temi emersi nel corso del Seminario stesso. Riteniamo opportuno riportare fedelmente i vari interventi.

Nota
C.H.: Christopher Humphris, coordinatore del Seminario
S.U.: Stefano Urbani, relatore e formatore presso la Dilit International House
P.C.: Piero Catizone, formatore presso la Dilit International House
Ins.: Insegnanti intervenuti

C.H. Abbiamo parlato di “che cosa” si può fare facendo grammatica. Si è parlato di “come”. Si è parlato pochissimo di “perché”. Forse è per i bisogni degli studenti.
Negli ultimi anni si è parlato sempre dei bisogni degli studenti; si è parlato molto dei bisogni comunicativi e si è cominciato a parlare dei loro bisogni cognitivi. Ci sono degli studenti che hanno bisogno di analizzare e altri no? Quindi: bisogna rispettare i bisogni degli studenti? O no? Se bisogna rispettarli perché si parlava prima del fatto che lo studente che non trova pertinente fare grammatica la deve fare comunque? Allora lì forse c’è una contraddizione, forse no.
Altra riflessione: far conciliare un syllabus, ossia un programma di prodotti, con la consapevolezza che l’insegnamento della grammatica non determina l’apprendimento della stessa. È possibile?
Nell’intervento della professoressa D’Addio Colosimo, lei sembrava alludere alla necessità di far “convivere” queste due cose. È possibile o è un’assurdità? Sono due cose incompatibili? Se bisogna rispettare il concetto del processo di sviluppo dello studente, cosa facciamo con un programma di prodotti?

[Un’insegnante chiede di chiarire questo punto]

C.H. Nell’intervento della professoressa D’Addio Colosimo, lei ha affermato che bisogna favorire il processo, lo sviluppo dello studente, seguendo i suoi ritmi. Ci sono studenti più o meno maturi per assimilare certi concetti. Però in molte realtà esiste un programma di prodotti, e per “prodotti” intendiamo regole grammaticali o esponenti di determinate funzioni comunicative, ecc. Questi programmi dominano il campo.

Ins. In quali realtà? Scolastiche? Ambientali?

C.H. Dove si insegna.

Ins. … il “programma ministeriale”.

C.H. Dove si insegna. Non da noi alla Dilit International House. Però altrove, quasi dappertutto mi risulta che ci sia questo tipo di programma. Non un programma necessariamente deciso dal Ministero, ma deciso dall’insegnante, deciso dall’editore che propone un libro il cui indice corrisponde a un programma. Allora è possibile far “convivere” queste due teorie, queste due filosofie? O una esclude l’altra? La professoressa D’Addio Colosimo sembrava dire che esse possono “convivere”. Io ho alcuni problemi in proposito.
Bisogna rivoluzionare il concetto della programmazione o no? In questo nuovo tipo di programmazione c’entrerebbe il concetto dei livelli di analisi: morfosintattica, testuale, funzionale, ecc.? E all’interno di questi livelli ci sono dei sottolivelli…
In questo programma c’entrerebbe il tipo di soluzione? Si è parlato di soluzioni a chiave aperta, a chiave chiusa… dev’essere random questa scelta? O bisognerebbe programmarla? Ecco, metto tutto questo sul tavolo, a voi la parola.

Ins. Io non avevo capito che la professoressa D’Addio avesse detto che era possibile conciliare il programma di prodotti con l’apprendimento individuale. Non so se gli altri hanno capito la stessa cosa.

S.U. Comunque per il fatto che lei ha elaborato un esame per il certificato, presuppone la competenza relativamente a certi prodotti.

Ins. Ma si presuppone che si acquisiscano delle abitudini particolari…

S.U. Sì, ma appunto la competenza relativamente a certi prodotti, quindi non si può dire che qualunque cosa lo studente impari al termine, al compimento, o a qualunque stadio del suo processo di apprendimento, vada bene perché conta il processo e non il prodotto. Lei non ha esplicitamente detto “le due cose devono coincidere o, automaticamente coincidono”, però, ecco… c’era questa compresenza di due atteggiamenti che poi di fatto, nel suo modo di operare, vengono quanto meno a coesistere.

Ins. Sì, ma è anche vero che una cosa è dire “esame”, quindi una certificazione che si ottiene tramite un esame, e un’altra cosa è dire “programma”. Il programma è qualcosa di prestabilito, I’esame è…

S.U. Sì, ma è l’esame che determina il programma…

Ins. Ma l’esame è fatto di una serie di esercizi, probabilmente, non di un elenco di competenze.

S.U. No, ma c’è una competenza lessicale; per esempio c’è un vocabolario di base, ci sono determinate strutture, cioè, ci sono delle competenze in termini di contenuti.

Ins. E allora definiamo bene che cosa significa “processo” e che cosa significa “prodotto”, altrimenti rischiamo di non capire.

S.U. Questa infatti era la “palla” lanciata da Christopher.

Ins. Io ricordo un passaggio nell’intervento della professoressa D’Addio nel quale si poneva la seguente domanda: allora si possono fare programmi? Mi pare che la risposta fosse affermativa, ma bisogna anche avere un atteggiamento di elasticità nella capacità di saperli modificare in funzione delle esigenze del singolo studente o della classe. Io credo però che quando la professoressa D’Addio parlava di “programmi”, non parlasse soltanto di programmi ministeriali, che sono un po’ una specie di mostro burocratico e di prigione obbligatoria con i quali il discorso è più specifico perché comunque è un capestro che sta sulla testa dell’insegnante, ma anche di programmi in un senso più ampio. Io non entro in una classe pensando che comunque qualcosa verrà fuori, io entro in una classe con un obiettivo didattico e, in un certo senso, l’insieme di questi obiettivi costituisce il mio programma. In che relazione l’esistenza di questo programma si pone con i meccanismi individuali di apprendimento? Credo che questa sia la questione centrale, poi il problema dei programmi ministeriali è uno specifico del tema. Forse è fuorviante partire da questo. È innegabile – credo – che in qualunque realtà di corso ci sia un’idea di programmazione alla base.

Ins. Per esempio, anche all’interno dei programmi ministeriali – parlo per il biennio delle superiori – si parla di programmazione, che è un termine acquisito già nella scuola media per cui il raggiungimento non è di contenuti, come una volta prevedeva il programma tradizionale, ma è di obiettivi, allora è chiaro che la misurazione, il “controllo”, e quindi il discorso della certificazione, si basa su obiettivi raggiunti o non raggiunti dagli studenti e, addirittura, all’interno della Commissione Brocca che ha predisposto i programmi per il biennio superiore, si parla di “percorsi individualizzati” da parte degli insegnanti per arrivare a quegli obiettivi; quindi addirittura si mette in discussione quello che era un elemento tradizionale che era il programma fisso, rigido, basato sui contenuti… Ecco, mi pare che ci siano già, anche all’interno della struttura scolastica tradizionale – anche se non tutto viene applicato – questi elementi di cui voi parlate…

Ins. Secondo me, sarebbe auspicabile che ci fosse una coincidenza della programmazione con l’apprendimento individuale, ma non sappiamo, non possiamo sapere come e quando questo avviene…

C.H. Quindi deve regnare l’anarchia?

Ins. No, deve regnare la non presunzione di vedere dentro la testa dello studente, di aspettarmi che lui reagisca in una maniera x; non è possibile capire, da come lo studente reagisce ad un determinato stimolo, come io posso interferire…

C.H. Lancio un’altra domanda: ogni quanto bisogna fare grammatica? Questa è una decisione programmatica. Posso decidere di farlo una volta al mese o ad ogni lezione. Devo prendere una decisione o no? L’insegnante programma in questo senso o no? Con quali criteri decide questa cosa?

Ins. Quando serve. Tu decidi prima quando andare dal medico? Ci vai quando ne hai bisogno. Essendo il lavoro grammaticale un intervento di “pronto soccorso”, lo fai quando è necessario, quindi stabilirlo in anticipo non è possibile. La mia idea è che la grammatica è fondamentale, però per tanti motivi, pedagogici, psicologici… è come andare a farsi medicare nel momento del bisogno, o quando l’insegnante si accorge che uno studente ha bisogno di un aiuto. Quindi questo “intervento” va fatto ad hoc.

S.U. Per me imboccare il concetto del parallelo con la medicina è interessante, ma esiste anche la medicina preventiva. Io non vado dal medico soltanto quando ho il sintomo, sarebbe auspicabile che ci andassi quando sto bene, per prevenire. In base ad un criterio di “programmazione” io faccio uno o due check-up ogni anno.

Ins. Sì, ma se voi per grammatica intendete qualcosa di molto più allargato di quello che solitamente si intende… è l’acquisizione di una forma mentis diversa, quindi a me pare che si debba fare sempre con gradualità diverse, oppure rilanciandola quando si vede che c’è una certa chiusura, perché sappiamo tutti quanto sia difficile mettersi continuamente in discussione.

S.U. Un’altra questione che non è stata affrontata in questo Seminario è stata la differenziazione tra “acquisizione” e “apprendimento”. Anche nella relazione della professoressa D’Addio Colosimo, lei diceva “io parlo di apprendimento coprendo con questo termine entrambe le categorie”. Allora bisogna vedere in che modo avviene l’assimilazione della grammatica perché, se noi pensiamo ad una assimilazione via acquisizione, allora possiamo dire che non è possibile non fare grammatica – così come Croce diceva “non è possibile non dirci cristiani”… Già l’esposizione diretta alla lingua produce dei processi nell’apprendente che fanno migliorare automaticamente la sua interlingua. Qui però c’è un’altra domanda: se, in che misura e quando attivare dei processi di apprendimento cosciente, razionale, di studio cosciente della grammatica, che sono le attività che abbiamo presentato in questi giorni, e pure nell’accezione estesa di grammatica che non è la grammatica tradizionale ridotta alla sola morfologia. Su questo punto, secondo me, si gioca la partita.

C.H. Si può non fare grammatica, nell’accezione di apprendimento consapevole? Si può, dignitosamente, portare avanti un corso di lingua senza fare grammatica? O no?

Ins. Dipende dal luogo in cui si insegna e dal tipo di studente (studente del ginnasio? persona adulta?)

Ins. Ma cambia la modalità. Comunque si fa grammatica.

Ins. Ma come rispondere agli studenti che chiedono grammatica? Il mio è un pubblico di adulti che hanno forse studiato con vecchi metodi. Il nostro punto di vista è importante, ma dobbiamo tener conto anche del punto di vista dello studente. Come far capire che la grammatica si può fare anche in modo meno tradizionale? Bisogna rispettare i bisogni?

Ins. Bisogna far riflettere sui bisogni.

C.H. Si parla da un lato di rispettare i bisogni dello studente, e dall’altro di formare lo studente, “formare” lo studente vuol dire non rispettare i suoi bisogni attuali. L’educazione si gioca su questo paradosso.

Ins. L’insegnante è un educatore. Tutti siamo d’accordo sull’accezione di “educare” nel senso di impostare dei comportamenti secondo una nostra personale visione della vita. Perché questo – che funziona per i bambini – non dovrebbe funzionare per gli adulti? Se io seguissi i bisogni dei miei studenti, farei la lezione più classica del mondo. Ma per me educare significa “cambiare”. Se, secondo me, il suo comportamento nell’apprendimento è sbagliato, io mi assumo la responsabilità di deciderlo. Il mio compito di educatore è cercare di cambiare il suo comportamento, non tanto quello di assecondare il suo bisogno di apprendere in un certo modo.

Ins. Qui dietro ci sono tantissimi altri discorsi. Ognuno di noi ha dei modelli di riferimento politici, culturali, ecc…. Tu hai un’idea di un mondo di un certo tipo e vorresti favorire questo. Il discorso linguistico sta dentro alla nostra idea del mondo, della vita, della non competitività, ecc. Ma ci sono anche altre persone che la pensano diversamente, che vogliono “conservare” mantenere l’insegnante in quel ruolo…
Linguisticamente parlando, dove voglio portare lo studente x? Devo comunque portarlo ad un certo livello altrimenti nasce un divario dei punti di riferimento per cui quello studente – anche senza la grammatica—si senta linguisticamente competente, al livello di un altro. Bisogna suddividere i vari livelli di intervento di questo problema che altrimenti rischia di portarci fuori: un ragazzo deve imparare a pensare, diventare autonomo da noi, acquisire i suoi strumenti e fare delle scelte.

Ins. Non cadiamo nell’errore di dire che qualsiasi cosa io faccia è violenza, perché mi sembrano un po’ ipocrita. Nel momento in cui lo studente entra in classe, di fatto, esiste una “delega”. Delega me insegnante come accompagnatore rispetto ad un certo percorso. Ha questa libertà: se non gli sta bene può ritirarmi questa delega. Ora, io in quanto insegnante devo assumermi la mia responsabilità rispetto a questa delega; devo stipulare con il mio studente e con il gruppo dei miei studenti un “contratto didattico”, un accordo. Tra le varie cose questo prevede anche una delega “a tempo”, nel senso che lui deve potere verificare, dopo un certo tempo, se funziona o meno. Tale delega non sta solo nel discorso “grammatica sì, grammatica no”, ma sta molto nella politica delle relazioni: il riuscire a modificare passa attraverso una condivisione di questa cosa. Io insegnante devo riuscire a rendere trasparente questa relazione; devo riuscire a raggiungere un accordo (e questo non significa mettermi a parlare, teorizzare…) e poi cercare di sfruttare questa delega secondo le mie convinzioni. Sarebbe assurdo che io facessi una cosa nella quale non credo.
La prima risposta relativa al “perché”, “come” e “quando” fare grammatica devo darla io in quanto insegnante e devo chiedere a me stesso fino a che punto sono consapevole delle scelte che faccio.

Ins. Delle volte i “bisogni” sono in realtà dei pregiudizi. Lo studente che dice “voglio la grammatica” parte da una forma mentis tradizionale. Per lui “fare lingua” equivale a “studiare le regole”. Ma la ricerca ci conferma che non c’è un rapporto diretto tra il conoscere le regole e il possederle. Non perché lo studente vuole le regole l’insegnante deve dargliele. Bisogna prendersi delle responsabilità. Spesso gli studenti hanno bisogno di essere aiutati a capire quali sono i loro bisogni.

Ins. Il vero problema è nella scuola dell’obbligo (scuola pubblica) che dovrebbe cambiare, perché se non si cambia lì, nello Stato, politicamente, non si può cambiare niente…

Ins. All’interno del nostro piccolo gruppo di lavoro questa mattina è sorto un quesito che voleva arrivare a rompere una sorta di ipocrisia secondo la quale l’insegnante tende a diventare un fantasma. È vero che all’origine di un corso c’è un’assunzione di responsabilità da parte dell’insegnante; c’è una sua presenza inserita in una volontà di non occupare tutto lo spazio, ma vuole creare le condizioni perché certi percorsi si estrinsechino in libertà, secondo i crismi della soggettività.
Un altro elemento è il seguente: gli studenti arrivano con la richiesta di grammatica, intendendo per “grammatica” delle nozioni, dei segmenti di conoscenza linguistica in progressione lineare. C’è richiesta di normativa, di schematizzazione. Questo mi fa riflettere: si aprono delle incrinature nelle certezze del comunicativismo, la grande rivoluzione che ha prodotto alcuni fenomeni tra i quali la centralità dello studente nell’apprendimento, l’emersione dell’importanza dell’oralità della lingua, e quindi la nascita di metodi di insegnamento per la lingua orale.
Ora mi sembra che stia nascendo una piccola crisi per fattori di natura forse sociologica. Forse viviamo in un universo in cui c’è una crisi della volontà di comunicazione. Gli studenti sono cambiati? Gli studenti erano avidi di stimoli per comunicare, e ora? Di fronte a questo nuovo tipo di studente, in che modo possiamo continuare a sostenere la giustezza di un’attività didattica che poi trova fondamento in un impianto teorico che noi riteniamo comunque valido? Cosa fare?

Ins. Io non penso che la motivazione dell’esposizione sia sufficiente ad imparare una lingua. Penso che ogni studente debba costruire una propria modalità di apprendimento, e in questo l’insegnante può aiutarlo. Può agire in molti modi all’interno della ricerca di questa strategia. Il bisogno di fare grammatica è un bisogno che va interpretato; è il segno di una esigenza vera. Nella richiesta di fare grammatica c’è, secondo me: 1) una richiesta cognitiva (alcuni hanno bisogno realmente di capire come funziona una lingua, 2) la richiesta di una “cornice” di una struttura, di uno schema, di “stampelle”. Io di fronte a questa richiesta non sono totalmente contraria. Una stampella può servire per un certo periodo e può aiutare a costruirsi una propria strategia.

C.H. Vi invito a pensare, a non dimenticare quello che Luigi ci ha insegnato. Come si può parlare dello studente che “rivendica” qualcosa come se fosse una caratteristica permanente dello studente? Lo studente è una persona che ha occupato un polo di una relazione di cui l’altro polo è stato occupato da un insegnante. L’insegnante e lo studente hanno negoziato, o non negoziato e accettato, un certo tipo di relazione. Il nuovo insegnante (noi) può accettare la stessa relazione proposta dallo studente o rifiutarla (e propone un’altra con più energia).

P. C. Mi sembra che stiamo parlando tanto dei problemi dello studente, ma il vero problema è l’insegnante. Se penso alla mia esperienza, io avevo molti più problemi di questo tipo dieci anni fa che oggi. Se l’insegnante è veramente convinto di quello che fa, i problemi quasi non esistono. Una cosa è accettare razionalmente dei modelli, delle teorie, un’altra cosa è la pratica. E mettere in pratica le cose di cui stiamo parlando è molto duro: mettersi in discussione e sedersi in mezzo agli studenti e ricercare le regolarità di una lingua è molto difficile. E se non si fa, si scende a compromessi; poi gli studenti rivogliono la Grammatica. Se lo studente ci vede sempre convinti, lo studente ci crede.

Ins. Sì, ma fai grammatica! Il punto non è fare o non fare grammatica, lo fai in un altro modo. Ci troviamo tutti d’accordo che la grammatica va fatta, è la modalità che è cambiata e deve essere cambiata. Però la grammatica è da fare, ma con modalità diverse. Allora forse il punto della discussione è “come”, a questo punto.

Ins. A me sembra che il “come” lo abbiamo visto, in parte, in questi giorni. Per quanto riguarda l’intervento di Piero, io penso che la cosa più importante, a parte le tecniche, che ho recepito da questo Seminario, sia proprio la “ricentrazione” in maniera nuova sull’insegnante. Si è parlato per un certo periodo di “concentrazione” e “ricentrazione” dello studente; ora, secondo me, bisogna guardare all’insegnante, non per rimetterlo di nuovo sotto i riflettori in maniera narcisistica, ma proprio per rimetterlo in discussione.

Quello che è venuto fuori da questo Seminario è appunto una rimessa in discussione totale della figura dell’insegnante che ha due ruoli quasi opposti:

  1. di scomparsa quasi totale dal momento in cui entra in classe: c’è, fa delle cose, ma in classe il problema è “I’apprendimento”, non l’insegnante, quindi è importante quello che fanno gli studenti e quello che l’insegnante non fa. Il problema semmai è fargli fare di meno, il meno possibile;
  2. Quando non è in classe, l’insegnante è fortemente protagonista; è lì che deve fare delle scelte, che deve prendersi delle responsabilità e non delegarle ad un programma ministeriale… Comunque noi facciamo delle scelte, anche se pensiamo di essere neutri (“scegliamo” di essere neutri). Io penso che sia proprio qui il problema: prendere coscienza di queste scelte. Questa è “autenticità” della relazione didattica. Io sto veramente insegnando, tu stai veramente imparando. Non faccio finta di non esserci, scelgo di non esserci, così come ci sono momenti in cui scelgo di esserci fino in fondo, per esempio nel momento in cui scelgo il quando, il come e il perché fare certe cose.