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Solo mente o anche corpo?

Nel pensare al laboratorio che avrei presentato al Seminario Internazionale, mi sono lasciata guidare, più che da un’idea precisa, da una esigenza che sento sempre più urgente dentro di me, man mano che la mia esperienza come insegnante cresce: ricomporre la dissociazione tra la dimensione mentale e quella fisica ed emozionale che attraversa la nostra cultura, quindi le nostre storie personali e che inevitabilmente ha una ricaduta anche sul nostro lavoro quotidiano.

Ho cercato così, con il supporto delle immagini videoregistrate, di ripercorrere, attraverso alcuni momenti significativi di una attività analitica relativa alla lingua parlata (Ricostruzione di conversazione), la strada che le insegnanti e gli studenti hanno fatto insieme, cercando di mettere in relazione l’accento posto, durante il loro lavoro, dalle due colleghe, in un modo più o meno consapevole, sulla dimensione mimica ed emozionale che accompagnava il pezzo di lingua a cui gli studenti dovevano arrivare alla fine del loro lavoro.

Il primo video

Il primo video mostrava la presentazione fatta da Silvia e da Marina (le due colleghe che mi hanno permesso con la loro disponibilità di realizzare il laboratorio) delle due battute della conversazione, che era la medesima per entrambe, da loro scelta per fare lavorare gli studenti, di classi diverse ma di uguale livello.
Nel rivederlo una seconda volta, coloro che partecipavano al laboratorio, avevano il compito di compilare una scheda nella quale erano proposti i seguenti quesiti:

  1. quali strumenti vengono utilizzati dalle insegnanti nella presentazione delle battute (mimica, disegno ecc.)?
  2. Qual è la loro relazione con lo spazio scenico?
  3. La loro energia, che caratteristiche ha: è contenuta? è fluida? In quali parti del corpo è concentrata? Dove vedete blocchi di energia?

Non so che cosa si siano dette/i le/i coloro che partecipavano al laboratorio, so soltanto che a me è arrivata l’immagine di persone che indicavano varie parti del corpo, che non sempre apparivano d’accordo su ciò che avevano visto, ma che comunque mi sembravano incuriosite dal punto di vista che veniva proposto nell’osservazione di una attività (la Ricostruzione di conversazione) che presuppone la utilizzazione di tutte le risorse intellettuali sia degli studenti, sia degli/delle insegnanti.

Il secondo video

Il secondo brano video presentava la “recita” delle due insegnanti alla fine di tutto il percorso analitico compiuto dagli studenti sulla parte linguistica di un enunciato. In realtà il compito delle insegnanti, a questo punto della attività, è quello di usare lo “strumento” corpo per rappresentare la scena mentre gli studenti dicono (ma ancora non recitano) le due battute. E proprio questo mimare era il centro delle due domande successive:

  1. Quanto l’insegnante ha usato la dimensione mimica ed emozionale?
  2. Quanto la dimensione mimica corrisponde al senso della battuta?

Il terzo video

Nel video numero tre si poteva osservare l’esercitazione che gli studenti delle due classi facevano tra loro e la mia richiesta era quella di osservare le differenze tra i due gruppi e di annotarle.

Il quarto video

Le ultime immagini da me presentate mostravano la recita finale eseguita dagli studenti alla fine di tutto il lavoro e il compito dei/delle partecipanti al Seminario era quello di stabilire quanto, secondo loro la recita era completa.
Dopo ogni video ed ogni gruppo di domande le mie colleghe (chiedo ai colleghi maschi che hanno partecipato di sentirsi compresi in questo femminile plurale che uso, indubbiamente scorretto dal punto di vista grammaticale ma assolutamente veritiero dal punto di vista della realtà, visto che le donne erano la assoluta maggioranza al nostro Seminario) avevano naturalmente l’opportunità di confrontarsi con le/gli altre/i, cosa che,. mi sembra, hanno fatto con passione e grande vivacità.
Quanto, secondo voi, è importante in una attività analitica come la Ricostruzione di conversazione usare didatticamente la dimensione mimica ed emozionale?

Le mie considerazioni

A questa, che era l’ultima domanda da me posta alle colleghe, vorrei dare la mia risposta comunicandovi che cosa ho potuto osservare durante ciò che ho visto mentre visionavo i due video per intero prima dell’inizio del Seminario.

Silvia

Nel lavoro di quasi un’ora da lei realizzato insieme agli studenti ha fatto loro percorrere una strada molto ricca dal punto di vista strettamente linguistico accompagnandoli, passo dopo passo, attraverso una lunga serie di tappe dall’ipotesi iniziale proposta dagli stessi studenti alla battuta completa. La immagine corporea che a me è arrivata era quella di una persona molto concentrata ed attenta a cogliere ogni occasione da sfruttare per operare qualsiasi possibile trasformazione che facesse sempre di più avvicinare gli studenti all’obiettivo senza trascurare di sottolineare i passaggi grammaticali che avvenivano, un’immagine in cui tutta l’energia fisica era concentrata nella parte superiore del corpo e massimamente nel collo e nella testa mentre le gambe che la portavano avanti ed indietro per lo spazio scenico, erano lo strumento per “scaricare” la concentrazione di questa energia tutta proiettata sulla parte intellettuale.

Ebbene, che sia casuale o meno, anche gli studenti della sua classe nell’eseguire della recita finale avevano, a mio parere, caratteristiche simili che hanno “esasperato” il loro imbarazzo, la loro difficoltà a ricordare le due battute, il loro non riuscire a vivere la scena come un luogo significativo dove si stava svolgendo un dialogo possibile tra persone. Ed anche la parte strettamente linguistica ne ha, in qualche modo, risentito.
Naturalmente nel fare queste considerazioni non escludo la possibilità che il temperamento dei singoli studenti abbia potuto giocare un ruolo importante nella riuscita della messa in scena finale. Un fatto è comunque sicuro, che nella domanda: “Come mai quel braccio ingessato?” (questa era la prima delle due battute) sono implicite una serie di sfumature emotive che vanno dalla semplice curiosità alla meraviglia che, se non vengono sottolineate sufficientemente come facenti parte del messaggio linguistico puro e semplice, difficilmente vengono tirate fuori dagli studenti spontaneamente e la loro assenza produce, o rischia di produrre, un linguaggio che ha una caratteristica molto simile ai cibi di “MacDonald”: carne o riso, insalata o macedonia se gli occhi non sono bene aperti è difficile riconoscere quale cibo si stia mangiando.

Marina

La prima differenza evidente con la situazione precedente è l’uso dello strumento grafico: nel video non si riesce a vedere quale disegno accompagni le parole con cui introduce la prima battuta, ma quello che a me arriva dalle espressioni del suo volto mentre lo esegue è il suo immediato indirizzare coloro che sono in classe verso la comunicazione emozionale (la meraviglia) connessa alle parole della battuta stessa.

La strada che percorre insieme alle sue studentesse è più veloce rispetto a quella di Silvia (il che può essere dovuto anche al fatto che la sua è una classe pomeridiana che, quindi, lavora tre e non quattro ore ogni giorno), ed il percorso strettamente linguistico meno ricco del precedente. La quantità di tempo che lei dedica alla parte “musicale” del lavoro è però maggiore ed utilizza il corpo per sottolinearla: in alcuni momenti c’è quasi una danza che sottolinea l’intonazione ed il ritmo della battuta, laddove, come in Silvia erano solo le mani e le braccia che accompagnavano il lavoro fonologico.

Durante l’esercitazione delle studentesse, poi, comunica esplicitamente ad una coppia che l’uso del corpo facilita anche il lavoro verbale e la reazione immediata di una delle due persone è quella di prendere la sciarpa che porta intorno al collo come sostituzione della ingessatura che il personaggio rappresentato dovrebbe avere.
Nella recita finale delle studentesse tutto questo produce una scena nella quale le persone si lasciano più andare, sono più naturali, usano in modo teatrale il corpo, ed eseguono in un modo più fluido e corretto anche la parte strettamente linguistica.

Conclusione

Parafrasando qualcuno ben più grande di me, oserei dire che se è vero che le emozioni senza le parole per esprimerle rischiano di essere cieche, le parole senza le emozioni rischiano altrettanto di essere mute e che un lavoro sulla lingua parlata, per quanto analitico possa essere, debba anche insegnare il modo in cui una cultura esprime attraverso le parole, la dimensione emotiva di una relazione: non esistono grammatiche a cui fare riferimento per tutto questo, esistiamo noi, con tutte le nostre caratteristiche personali. Ma queste, non sono un fatto puramente individuale perché inserite in un codice relazionale che ci accompagna fin dalla nascita. Spesso mi è capitato di osservare che coloro che imparano una lingua senza andare a scuola o che, comunque sono inseriti pienamente nel tessuto sociale, comunicano a livello emozionale in un modo più vicino a quello dei “nativi”, di quanto non facciano studenti, pure bravissimi che imparano tutto a scuola. Non credo che noi, come insegnanti possiamo dare tutto a coloro che decidono di venire in classe e credo che fare i conti con la propria corporeità sia, per noi, e non solo per noi, una bella gatta da pelare, ma ho la sensazione che il nostro modo di insegnare sarebbe molto più ricco e divertente sia per noi che per i nostri studenti se riuscissimo a lavorare, con tutti i nostri limiti e problemi, per cercare di ricomporre la divaricazione tra le parole ed il corpo finanche in una attività analitica, territorio di dominio incontrastato dell’intelletto.

Mi preme precisare, nel concludere questo mio scritto, che è lontanissima da me l’idea di emettere giudizi critici, o di dare medaglie al merito all’una o all’altra delle mie colleghe. Nel prendere visione del video non sapevo a che cosa mi sarei trovata di fronte anche se, come ho detto all’inizio, il mio interesse era preciso. D’altra parte è risaputo che “si vede solo ciò che si osserva, e si osserva solo ciò che già esiste nella mente” (Alphonse Bertillon).