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Da un fallimento all’altro, senza perder l’entusiasmo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

(In risposta a Marcello Amoruso, Bollettino Dilit 2009/1)

Success consists of going from failure to failure without loss of enthusiasm. (Winston Churchill)

Che nervi, eh? Dopo tutta la fatica fatta per liberarsi delle cattive abitudini e abbracciare, entusiasta, quella visione rinnovata, bang!, eccoti la resistenza dello studente conservatore. Complimenti, Marcello. A suo tempo, io ci sono andata giù più pesante. E sono passati giorni prima che mi rivolgessi, anch’io, a Saint Christopher.

Tu, in fondo, di fronte a chi metteva in discussione le tue posizioni ancora fresche, hai cercato appoggio nel percorso che ti aveva spinto ad abbracciarle. Hai sottolineato l’intelligenza e l’utilità del metodo, senza sospettare che l’esposizione a quelle conoscenze non avrebbe prodotto sui tuoi studenti lo stesso risultato che aveva prodotto su di te. Io, invece, di fronte alla difficoltà ho optato per la vendetta.

Subito dopo la formazione (08/2005), ho ripreso a insegnare inglese nella scuola dove avevo tenuto dei corsi l’anno precedente. Con mia estrema gioia, un buon numero di studenti erano rimasti soddisfatti e avevano deciso di continuare a studiare con me. Nulla sapevano, ahi loro, delle mie esperienze estive e della personale rivoluzione che ne era conseguita. Ricordo d’essere entrata in aula fiera come un Robespierre, pronta ad abbattere l’ancienrégime e certa di conquistare nuovi proseliti alla causa:

Noi vogliamo, in una parola, mantenere le promesse del metodo, assolvere l’insegnamento dal lungo regno della tirannia, e favorire l’avvento di una classe di ricercatori. Ecco la nostra ambizione: ecco il nostro scopo. E.Miraglia  (5 Brumaio, Anno I)

Insomma, se la vedo dal punto di vista di uno dei ‘vecchi’ studenti, di punto in bianco  ho cambiato libri, fornito materiali autentici, dichiarato illecito l’uso dell’italiano, bandito spiegazioni frontali e correzioni immotivate. D’improvviso ho spostato, spento, cronometrato, mimato, recitato, disegnato, taciuto, e risposto solo a domande specifiche.

Morale della favola? Ça va sans dire: il terrore.

Nel bel mezzo di un’attività, tale Barbara insorge con un plateale basta! Non ne può più di sentirsi un’imbecille. L’anno scorso ha consigliato a tantissime persone il mio corso, ma ora si sente persa, spaesata, sconfitta. Quest’anno, non lo consiglierà a nessuno.

Sono sbalordita. Proprio questa Barbara (l’ironia del nome, giuro, non è voluta)  prima della rivoluzione mi adorava. Sosteneva che era tutto merito mio, del mio modo di insegnare, se finalmente riusciva con l’inglese.

Ma come, quando andavo a naso era contenta, e adesso che ho un metodo protesta?

Ferita, intimorita, e con un vago senso di colpa, tentenno.

Alcuni studenti (soprattutto fra i ‘nuovi’) vengono in mio soccorso, iniziando a difendere l’utilità di ciò che facciamo. Aggiungo qualcosa, nel tentativo di chiarire le ragioni delle mie scelte. Qualcuno dei ‘vecchi’ cerca di mediare. Niente: Barbara è inflessibile.

Per placare le acque, faccio quello che mi chiede: spiego, con tanto di coniugazione alla lavagna, un tempo verbale su cui aveva dei dubbi.

Dopo lezione, tre o quattro dei ‘nuovi’ vengono a rassicurarmi: secondo loro vado benissimo come sono e devo continuare per la mia strada.

Una volta a casa, mi vergogno di aver cambiato in modo così netto direzione per andare incontro a una sola persona. Anzi, a pensarci bene mi arrabbio. Decido di fargliela pagare, alla bambinetta che ha sbattuto i piedi. Di farle vedere chi ha ragione.

Così, la settimana seguente esordisco domandando agli studenti di aggiornare chi era stato assente sul tempo verbale che avevo spiegato. Silenzio. Bisbiglio. Qualcuno chiede: “Scusa, Elena, ma qual’era?” Comincio a gongolare: rimozione collettiva. Meglio di quanto avessi sperato.  Acchiappo il mio bel coltello dalla parte del manico e butto lì, vaga: “L’aveva suggerito uno di voi, no? Barbara, non eri stata tu?” La vittima si agita, sfoglia freneticamente il quaderno degli appunti in cerca di un appiglio e, infine, confessa: nemmeno lei ricordava cosa avessi spiegato. Ah! Come volevasi dimostrare! Non mi resta che sottolineare l’inefficacia didattica delle spiegazioni alla lavagna e passare tranquillamente a un ascolto. La Barbara, a questo punto, non fa una piega.

Giorni dopo, convinta di avere risolto egregiamente la situazione, racconto trionfante a Christopher Humphris l’accaduto. Chi lo conosce può immaginare il tono britannico con cui, in sostanza, mi comunicava che avevo clamorosamente toppato. Perché? Elementare, Watson! Così l’hai umiliata, mica l’hai convinta. Adesso è più difficile.

Come dargli torto? Era vero. M’ero scioccamente vendicata, m’ero fermata in superficie. Invece di comprendere un disagio, avevo preferito salvare la faccia. Scelta fallimentare, per quanto riguarda i miei rapporti con Barbara. L’anno dopo non è più tornata.

Eppure, da lì in avanti ho iniziato ad affrontare, piuttosto che aggirare, la vergogna di cui si può essere preda per non aver incarnato l’ideale. Perché è inutile negarlo: l’insegnante senza macchia – onnisciente, onnipotente, trionfante – fa ancora parte del nostro DNA. Nel mio caso, in genere fa capolino, più redivivo che mai, proprio quando penso di averlo messo alla porta. Ah, le toppe clamorose che m’ha fatto infilare dopo la formazione! Ma il neofita è spesso una creatura intransigente. Può aderire ciecamente ai suoi principi, per non sentirsi in difetto, per timore che discostarsene un po’ significhi tout court perderli di vista.  Pur di non sbagliare, pur di non tradire, diventa più realista del re.

Ho frequentato il corso Formazione di base nel 2005. Oggi continuo a prender toppe, ma incontro meno  resistenze. Quando me ne chiedo il motivo, ripenso a quanto mi ha detto Virgilio Di Pasquale quattro anni fa: non spaventarti se ci metterai un po’ a Elenizzare il metodo, a farlo davvero tuo. Eh, già! Con il tempo si aggiusta il tiro, si trovano posizioni più equilibrate e, soprattutto, autenticamente proprie.

Il discorso vale anche, mi sembra, per quello che dall’articolo di Marcello potrebbe venir fuori unicamente come errore. Parlerei, semmai, di una strategia da migliorare. Perché se è vero che “l’insegnante si fa facendolo e non parlandone”, è altrettanto vero che gli studenti devono poter conoscere le motivazioni delle nostre azioni. Più i patti sono chiari, più l’amicizia è lunga. Certo, meglio azioni e posizioni talmente cristalline da non richiedere alcun commento. Ma se – per inesperienza, scarsa convinzione, o motivazioni che trascendono il nostro operato e appartengono al vissuto delle persone con le quali interagiamo – la chiarezza non è sufficiente? Se suscitiamo curiosità, od ostilità?  Non vedo perché gli studenti non possano dare uno sguardo dietro le quinte. Posto che noi si sia realmente persuasi dello spettacolo che mettiamo in scena.

All’epoca del mio confronto con Barbara, evidentemente c’era ancora tanto di cui non ero persuasa. Come dire, certezze troppo fresche.

Oggi tante cose vengono naturali, e sono quelle di cui sono intimamente convinta. Le altre evito di impormele a ogni costo. Faccio un tentativo, lascio perdere, ci rifletto, riprovo, ma senza dannarmi se mi ci vuole un po’. So che funziono davvero solo quando, un istante prima, sento un guizzo, la voglia di rischiare.  Allora son convinta.  Allora tutto gira bene.

Per il resto, ascolto più che posso, cerco di negoziare programmi e ruoli con la classe, puntando a quella posizione intermedia che mi consenta sia di lavorare affinché le richieste siano soddisfatte, sia di rispettare la mia identità e quello in cui credo.

Ogni studente che lascia è un fallimento, più o meno grande a seconda dei casi. Naturalmente mi interrogo, faccio ipotesi, immagino eventuali soluzioni, com’è giusto che sia. Ma l’ho capito, alla fine, che non potrò mai andare a genio a tutti. E non perdo l’entusiasmo.