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La Ricostruzione di Conversazione e il Puzzle Linguistico: principi teorici

Nel nostro percorso d’insegnanti d’Italiano come LS e L2 ci siamo spesso trovati ad affrontare il problema dell’uso di testi ed attività didattiche che non rispondevano alle nostre esigenze perché scarsamente coerenti con i principi teorici che affermavano di seguire, e che sono alla base delle nostre scelte d’insegnamento. Per questo motivo, in questo articolo ci proponiamo di illustrare le premesse teoriche di due attività, il Puzzle Linguistico e la Ricostruzione di Conversazione, che si distinguono proprio per la profonda coerenza con i principi cui s’ispirano. Si tratta di due attività complesse che, oltre a sviluppare la competenza linguistica, stimolano nel discente la capacità di riflessione metalinguistica autonoma.

Uno dei presupposti fondamentali di queste due attività è la concezione dell’apprendimento come processo creativo dell’individuo che agisce in un contesto di riferimento. Già Piaget, Vygotsikij e Bruner avevano riconosciuto il ruolo attivo del discente nella costruzione della propria conoscenza e nello sviluppo mentale in generale. Questo riconoscimento è diventato il punto di partenza per l’organizzazione di una nuova didattica centrata sul discente, che ha come obiettivo lo sviluppo della libertà decisionale dell’individuo e il suo potenziamento all’interno di un contesto comunicativo che promuove l’integrazione delle conoscenze con i propri pari. Proprio a partire da questa considerazione il ruolo dell’insegnante è passato da quello di “trasmettitore della conoscenza“ a quello di “facilitatore” del processo attivo che permette al discente di apprendere.

Nel campo della linguistica e della didattica, contemporaneamente, è avvenuto un cambiamento riguardante i contenuti da insegnare. È stata riconosciuta l’impossibilità di comprendere appieno la forma linguistica di un enunciato prescindendo dal contesto linguistico ed extralinguistico in cui è prodotto: fare grammatica, insomma, significa compiere delle scelte che dipendono dalle interrelazioni tra il sistema linguistico e una complessa serie di fattori, quali la situazione, le intenzioni comunicative, le aspettative degli interlocutori, ecc. L’apprendimento si configura come una continua ristrutturazione degli schemi mentali dell’individuo in seguito all’esperienza vissuta e questo processo di cambiamento costante produce la crescita della competenza linguistica intesa come sistema di regole il cui funzionamento, nel corso del suo sviluppo, diventa sempre più simile a quello della lingua bersaglio.

Inoltre, proprio per il fatto che tutti hanno una conoscenza del mondo da cui partire per formulare ipotesi che consentano di risolvere nuovi problemi e sviluppare, così, la propria competenza, nessun discente è da considerare come una tabula rasa, al di là della conoscenza specifica della lingua di studio. Il punto di partenza della Ricostruzione di Conversazione e del Puzzle Linguistico è dato proprio dalle preconoscenze enciclopediche e non soltanto linguistiche dell’allievo, secondo un processo di costruzione dell’apprendimento che Oller ritiene possibile grazie al meccanismo della pragmatic expectancy grammar, in italiano comunemente tradotto come ‘grammatica pragmatica delle aspettative’. L’elaborazione teorica di Oller intende rendere conto del complesso sistema di regole che governa la comunicazione, sia scritta che orale, e che, come vedremo, guida tanto il mittente quanto il ricevente di un messaggio.

Secondo Oller, la comprensione di un enunciato o di un testo dipende da una serie di inferenze fatte sulla base della conoscenza di due tipi di contesto: il contesto linguistico e il contesto extralinguistico. All’interno del primo si possono distinguere un aspetto “factive” o cognitivo, che concerne il contenuto informativo del messaggio, e un aspetto emotivo, relativo agli stati d’animo e agli atteggiamenti del mittente nei confronti dello stesso. Sul piano factive, il contesto linguistico è organizzato in una gerarchia di classi di elementi: fonemi, parole, frasi, periodi, testi, ciascuna di esse caratterizzata da regole combinatorie specifiche (cfr. Oller, 1979: 21). Sebbene le probabilità combinatorie degli elementi linguistici possano generare un numero praticamente infinito di sequenze, esistono limiti ben precisi alla creatività linguistica, che non possono essere violati senza dar luogo a sequenze prive di senso.[2] Da ciò consegue che l’identificazione di una parola, ad esempio, dipende sia dal riconoscimento dei suoi componenti (i fonemi), che dalla sua probabilità di occorrenza nel contesto in cui si realizza. La conoscenza delle regole combinatorie che operano a ciascun livello di analisi linguistica, quindi, integra i dati sensoriali e compensa eventuali difficoltà che ostacolano la percezione.

Ciò può non bastare, tuttavia, a mettere al riparo da equivoci nella ricezione ed emissione di un messaggio. La competenza dell’aspetto emotivo del contesto linguistico, infatti, è essenziale alla comunicazione, poiché le espressioni, i gesti, le intonazioni che accompagnano l’enunciazione sono fonte di una vasta gamma di informazioni importanti per una appropriata interpretazione del messaggio. Una frase pronunciata con un tono di voce forte, ad esempio, può suggerire una forte decisione, o persino ira, rispetto alla stessa frase pronunciata con un tono più debole. L’intensità espressiva delle informazioni fornite dal contesto emotivo è tale da poter addirittura contraddire il significato apparente di una frase, come nel caso dell’ironia. La componente emotivo-attitudinale della comunicazione, quindi, fornisce indicazioni precise sull’interpretazione del messaggio verbale, e pertanto l’appropriata codifica e decodifica di questo aspetto è condizione essenziale al successo della comunicazione (cfr. Ibidem: 26-27).

Le informazioni relative al contesto linguistico sono veicolate sia dagli elementi segmentali della lingua (suoni, parole, frasi, periodi), che dai tratti sovrasegmentali e paralinguistici che accompagnano l’enunciazione, quali le espressioni del viso, il tono della voce, i gesti.

La definizione di “contesto extralinguistico”, invece, fa riferimento al mondo esterno alla lingua, e dunque a tutto quel complesso di idee, cose, eventi, persone, relazioni, ecc., la cui conoscenza è, almeno in parte, condivisa dai partecipanti a un’interazione. Il contesto linguistico e il contesto extralinguistico sono intimamente correlati, al punto che non è possibile scinderli nella comunicazione:

…sequences of linguistic elements in normal uses of language are not haphazard in their relation to people, things, events, ideas, relationships, attitudes, etc., but are systematically related to states of affairs outside of language. Thus we may say that linguistic contexts are pragmatically mapped onto extralinguistic contexts, and vice versa. (Ibidem: 19)

In questa visione della comunicazione, è il termine pragmatica a fare la differenza: la sua inclusione comporta la considerazione del fatto che le regole che governano la combinazione degli elementi linguistici sono strutturate coerentemente alla loro appropriatezza rispetto al contesto extralinguistico: esso rende conto delle complesse relazioni esistenti tra la lingua, l’individuo e il mondo. I fenomeni che abbraccia includono sia i fattori psicolinguistici che sociolinguistici della comunicazione (cfr. Ibidem: 19).

Naturalmente, questa visione sulla lingua, porta Oller a dare un nuovo significato alla parola grammatica: questa non è più vista come un insieme di regole morfosintattiche, ma occorre includere nel sistema grammaticale “the language user’s knowledge of how to map utterances pragmatically onto contexts outside of language and vice versa (that is, how to map contexts onto utterances)”.[3] Questa inclusione è fondamentale per poter parlare di una reale competenza linguistica del discente.

Il successo della comunicazione, dunque, dipende largamente dalla capacità di chi riceve un messaggio di integrarlo con dati provenienti dalla sua conoscenza del mondo e del codice linguistico condiviso con gli altri partecipanti all’interazione. Il ricevente compie, così, delle inferenze creative che lo mettono nelle condizioni di poter anticipare continuamente quello che l’emittente sta per dire. Parallelamente, l’emittente “aggiusta” il suo discorso anticipando le probabili inferenze del ricevente e regola il messaggio sulla base del feedback che il ricevente gli restituisce (cfr. Ibidem: 20). La comunicazione appare, quindi, come un gioco di ipotesi continuamente confermate o smentite nel corso dell’interazione.

La pragmatic expectancy grammar opera costantemente nella comunicazione, e la facilità e immediatezza di elaborazione di una sequenza sono direttamente proporzionali al grado di predicibilità della stessa (cfr. Ibidem: 24-25). Il discente, dunque, sviluppa delle ipotesi linguistiche che dipendono da “What we have learned to expect”, ipotesi estremamente verosimili visto che gli elementi costituenti una lingua “tend to cluster together in a predictable way”. Naturalmente le sue ipotesi saranno tanto più attendibili quanto più chiaramente sarà delineato il contesto di riferimento. Di tutto questo non si può non tener conto nella programmazione dell’attività didattica e nel quotidiano tentativo di stimolare l’apprendimento degli allievi.

Una parallela evoluzione nell’analisi dei processi che guidano l’apprendimento linguistico dell’individuo si è resa possibile grazie ai concetti elaborati da Samuel Pit Corder, le cui idee si muovono nella stessa direzione di quelle di Oller, seppur in modo indipendente. Sia Oller che Corder, infatti, descrivono la competenza del discente come un sistema, governato da regole proprie, in continua evoluzione. Tale sistema, come sottolinea Corder, è altamente variabile, e il suo sviluppo è solo in parte prevedibile, anche perché non segue un percorso lineare: esso si configura piuttosto come una rete di percorsi interdipendenti che presentano un diverso grado di avvicinamento alle regole della L2 (cfr. Pallotti 1998: 81-82).

Accettando questi presupposti, siamo portati a concludere che, in una realtà di apprendimento linguistico, ogni singolo studente di una classe possiede un’interlingua peculiare, cioè una combinazione di regole con le quali opera, differente da quella di chiunque altro. In ogni individuo, quindi, si realizza una configurazione unica e irripetibile di rapporti con la lingua e con il mondo: ne consegue che anche il percorso di sviluppo della pragmatic expectancy grammar è diverso da discente a discente.

Non basta, quindi, affermare che gli studenti di una stessa classe si trovano a diversi livelli di competenza linguistica, secondo una scala graduata universalmente valida. Ogni sistema interlinguistico individuale presenta, in ogni momento del suo sviluppo, zone più sensibili all’apprendimento e zone non ancora pronte all’integrazione di nuovi dati, regole che hanno trovato una collocazione stabile nel sistema e regole non ancora fissate.

Le modalità con cui la competenza di un apprendente si sviluppa, sono descritte da Corder in questi termini:

Il discente […] è alle prese con lo sviluppo di una rappresentazione interna della natura dei dati linguistici e di come essi vengono utilizzati […] Risultato della sua interazione con parlanti della lingua bersaglio, egli è alle prese con il compito di creare per se stesso una grammatica interna della lingua sempre più adeguata. Egli fa ciò tramite i due processi di base dell’accomodamento (adattare la sua interlingua in un modo che aderisca ai fatti percepiti della lingua) e dell’assimilazione (tentare di integrare i fatti appena percepiti nello stato attuale della sua grammatica interlinguistica).[4] [Il corsivo è nostro]

Il discente, insomma, entra in un rapporto complesso con la lingua bersaglio, e l’apprendimento si configura come un processo di adattamento creativo e personale agli stimoli linguistici provenienti dall’ambiente che lo circonda.

I concetti fin qui esposti, elaborati nell’ambito della glottodidattica, della linguistica e della pedagogia, trovano corrispondenza nella teoria dell’autopoiesi, elaborata dai biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela. Questi due studiosi descrivono l’essere vivente come un sistema costituito da una struttura mutevole (data dalle caratteristiche degli elementi che lo costituiscono) e da un’organizzazione stabile (data dalla relazione tra i suoi componenti), che ne determina l’identità. La caratteristica essenziale dell’essere vivente è la sua capacità di mantenere inalterata la propria organizzazione, nonostante i mutamenti che avvengono al di fuori del sistema stesso.In che modo? Il sistema vivente si muove all’interno di un ambience o “spazio entro cui vive”,[5] il quale gli trasmette degli stimoli. Nel momento in cui li riceve, esso reagisce modificando la propria struttura: attraverso questo processo, l’essere vivente può conservare la sua organizzazione, e dunque la sua identità, pur nel processo di mutazione continua imposta dall’adattamento all’ambiente. La parola autopoiesi si riferisce proprio a questa attività di autoregolazione e l’elemento che contraddistingue ogni sistema vivente[6] è appunto il processo autopoietico.

L’essere umano, in particolare, è un organismo vivente che si muove in un ambiente linguistico. Entro questo ambiente, gli individui comunicano l’un l’altro stabilendo delle “interazioni non-fisiche” al fine di influire sul comportamento e sugli stati di altri individui. Ne consegue che la comunicazione non è un mezzo per trasmettere univocamente informazioni, e che la conoscenza e il pensiero non sono trasferibili, in quanto l’informazione è creata dall’ascoltatore ed egli capisce solo nella misura in cui è preparato a capire. La mutua comprensione tra parlanti è poi convalidata dai comportamenti reciproci (Ibidem: 80).

L’individuo, inoltre, ha la facoltà di dirigere i suoi propri comportamenti attraverso l’interiorizzazione dei processi descritti sopra. Egli può successivamente “generare descrizioni [7] comunicative” di questi processi e interagire ricorsivamente con queste descrizioni: da questo processo nasce “l’auto-coscienza, un nuovo dominio di interazioni” (Ibidem: 76).

Il dominio linguistico, insomma, pervade l’ambiente in cui si muovono gli esseri umani, estendendo il suo campo d’azione dalle interazioni tra individui – e tra individui e mondo – fino ai processi mentali interiori. Il linguaggio, allora, è uno strumento che l’uomo usa per governare una serie di relazioni complesse con se stesso, con gli altri e con l’ambiente.

Questa visione della comunicazione, si ricollega, in linguistica, al concetto di “atto” comunicativo (o linguistico), basato sul valore pragmatico della comunicazione e sull’identificazione, in base ad esso, di funzioni che sono vere e proprie azioni e che provocano nell’interlocutore un “orientamento” (o comportamento) adeguato all’atto stesso .

Questa concezione è stata assunta anche nelle raccomandazioni del Quadro Comune Europeo (2002:11):

L’approccio adottato qui è […] orientato all’azione, nel senso che considera le persone che usano e apprendono una lingua innanzitutto come “attori sociali”, vale a dire come membri di una società che hanno dei compiti […] da portare a termine in circostanze date, in un ambiente specifico e all’interno di un determinato campo d’azione.

Questi sono i presupposti teorici fondamentali che ci portano ad abbandonare l’idea dell’insegnamento come trasmissione di contenuti e accumulazione di nozioni discrete. Il fine principale dell’educazione linguistica è quello di trovare mezzi per incentivare e potenziare l’adattamento creativo dell’individuo nel dominio linguistico della lingua bersaglio. Tale obiettivo è conseguibile solo se si forniscono ai discenti occasioni di contatto con la lingua in tutta la sua complessità; il confronto tra le regole di funzionamento dell’interlingua individuale e quelle della lingua bersaglio produce, tramite l’attività di autoregolazione, la ristrutturazione continua delle conoscenze in direzione di una migliore competenza linguistica. (Oppure: grazie al confronto tra le regole dell’interlingua e quelle della grammatica della lingua bersaglio, il sistema grammaticale interno del discente si complessifica e si ristruttura).

Si tratta, quindi, di assecondare i processi di acquisizione spontanea, potenziandoli tramite l’intervento didattico. Il modo migliore per far questo è proporre, come dice Vigotskij, un apprendimento che sia “in anticipo rispetto allo sviluppo” (132). Lo psicologo russo insisteva nell’importanza di proporre compiti il cui livello di difficoltà si situi nella “zona di sviluppo prossimale”, concetto che definisce la differenza tra il livello di sviluppo effettivo, determinato dalla capacità di problem solving autonomo, e il livello di sviluppo potenziale, determinato da attività di problem solving eseguibili tramite la collaborazione tra pari e l’aiuto dell’insegnante[8] (127). Andando oltre i processi di acquisizione già completati dal discente, si attivano così “quelle funzioni che non sono ancora mature ma che sono nel processo di maturazione, funzioni che matureranno domani ma sono al momento in uno stato embrionale” (128).

Il gruppo classe diventa, allora, una risorsa didattica importante, che va sfruttata tramite attività che stimolino la collaborazione tra pari e la circolazione delle ipotesi prodotte dalle interlingue dei singoli studenti. L’insegnante ha il compito di indagare e comprendere la natura delle ipotesi interlinguistiche prodotte dagli allievi, affinché il suo intervento non sia quello di un sanzionatore di errori, ma di guida e facilitatore nel superamento delle difficoltà che il gruppo incontra nell’attività di problem solving. Attività didattiche come il Puzzle Linguistico e la Ricostruzione di Conversazione promuovono, nel discente, una maggiore consapevolezza del funzionamento della propria interlingua e delle differenze tra questa e la LS e, di conseguenza, lo inducono a conseguire un maggiore controllo sul proprio apprendimento. La riflessione metalinguistica individuale, il confronto delle proprie ipotesi con quelle dei compagni, la guida dell’insegnante nella soluzione dei problemi, fanno parte di un cammino che conduce a chiudere progressivamente il divario tra le regole di funzionamento dell’interlingua del discente e quelle della LS. (cfr. Humphris 2000).

[1] I tre articoli di questo Bollettino formano un insieme. La bibliografia si trova alla fine del terzo articolo.

[2] Cfr. Oller (1979: 22). Oller riporta esempi (riferiti alla lingua inglese, ovviamente) di sequenze impronunciabili, come gbntmbwk, pronunciabili ma prive di senso, come nox ems glerf onmo kebs, e l’esempio chomskiano di frase sintatticamente corretta ma semanticamente improbabile, Colorless green ideas sleep furiously.

[3] “la conoscenza che l’utente di una lingua possiede su come applicare pragmaticamente gli enunciati in contesti esterni alla lingua e viceversa (cioè come applicare i contesti negli enunciati)”. (Ibidem: 24).

[4] Corder (1978) cit. in Humphris (1985), consultabile nel sito <www.dilit.it >

[5] Maturana, Varela (2001: 54).

[6] Cfr. Ibidem (2001: 32-35).

[7] In corsivo nel testo.

[8] Il peso che Vygotskji attribuiva all’intervento dell’insegnante era di gran lunga maggiore di quello dato alla collaborazione tra pari. Riteniamo tuttavia opportuno fare riferimento allo studioso, perché pone le basi di un concetto di apprendimento tra pari ulteriormente sviluppato da Bruner, cui facciamo riferimento per un approfondimento del principio citato.