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Di che parlare?

Da un collega che insegna l’italiano in Germania ci sono giunte delle critiche riguardanti due testi di cui io sono coautore: Comunicare subito Comunicare meglio. In quanto questi testi riflettono determinate nostre scelte glottodidattiche, si possono considerare queste come critiche al nostro approccio all’insegnamento delle lingue straniere in generale e quindi di stretta pertinenza alla problematica trattata da sempre in questo Bollettino. C’è da supporre, inoltre, che per ogni persona che esprime critiche ce ne siano altre che le pensano; perciò ritengo opportuno discuterle in questa sede.

Il punto che vorrei esaminare è il contenuto di un programma in termini di nozioni specifiche e di argomenti. Molti lettori sapranno che questi concetti risalgono all’autorevole opera del Consiglio d’Europa: Livello soglia. Questa opera, nata negli anni ’60, è stata un importantissimo punto di riferimento per tutte le persone che, in un modo o nell’altro, si occupavano della glottodidattica. La grossa novità di quest’opera è stata l’assunzione dello studente e dei suoi bisogni comunicativi come punto di partenza di un qualsiasi progetto di programmazione di insegnamento linguistico, posto occupato precedentemente dalla lingua stessa come oggetto e dalle sue presunte difficoltà. In altri termini, si chiedeva per la prima volta “Che cosa dovrà fare lo studente nella lingua che sta per imparare?” e si stendeva un programma cercando di rispondere fedelmente a questa esigenza di azione. Gli esperti del Consiglio d’Europa hanno poi proposto degli inventari per consentire una scelta ragionata dei vari aspetti di questa azione globale a chi doveva stendere programmi di studio. Due di questi inventari s’intitolavano nozioni specifiche argomenti, e cercavano di rispondere al quesito “Di che cosa dovrà parlare il nostro studente-bersaglio?”.

Ora, gli autori di Livello soglia hanno ripetuto più volte, nei numerosi convegni tenutisi negli anni successivi alla pubblicazione, che il contenuto di questi inventari non era basato su esaurienti ricerche empiriche, ma era, più che altro, il frutto di soggettive intuizioni basate sul buon senso e su personali esperienze, sia di comunicazione che di insegnamento, da parte degli autori. Gli inventari venivano offerti, in altri termini, come esemplificazione di un certo modo di lavorare, e non come inventari definitivi con la garanzia che studenti in conversazione con stranieri vorranno parlare proprio di queste cose. E quindi, chiamarli in causa per sostenere che un certo testo è difettoso perché non li rispetta alla lettera, è un loro uso direi improprio.

La verità è che non sappiamo di che cosa vorranno parlare gli studenti quando si troveranno davanti ad uno straniero. E non c’è niente di male nell’affermare questa nostra ignoranza, anzi diventa uno stimolo ad osservare di più sia gli studenti che i parlanti nativi quando comunicano con altri in determinate circostanze.

Ho detto sopra che Livello soglia è stato un importantissimo punto di riferimento; non significa che è stato l’unico. In realtà lo studente tipo che emana da quest’opera è un tipo piuttosto razionale, piuttosto utilitario: i suoi bisogni sono piuttosto di genere pratico. Ora, contemporaneamente alla pubblicazione di Livello soglia e negli anni successivi, sono stati fatti molti discorsi sulla necessità di considerare lo studente come una persona globale e, in modo particolare, di non trascurare più i suoi bisogni affettivi. Questo principio veniva, e viene tuttora, evocato specialmente quando si parlava del trattamento dello studente in classe, della creazione di circostanze più idonee per la promozione dell’apprendimento, insomma del metodo d’insegnamento. Ma questo principio non va rispettato soltanto in decisioni sul come trattare lo studente in classe, ma anche quando si immagina lo studente post-corso come “comunicatore” e quindi quando si ipotizzano i suoi “bisogni comunicativi” che saranno la base del contenuto del programma.

Insomma è proprio vero che questo futuro comunicatore andrà nel paese straniero e svolgerà con efficienza una serie di “transazioni” per risolvere i suoi problemi pratici senza mai sentire il bisogno di entrare in rapporti di amicizia con la gente del posto? Non è uno scenario un po’ limitato, un po’ triste? Presunzione per presunzione, non è meglio presumere che lo studente vorrà stabilire qualche rapporto che va oltre il puramente “necessario”? Che vorrà cercare di fare amicizia con qualcuno?

Se è vero questo, segue che, quando si ipotizzano le “nozioni specifiche” e gli “argomenti” di cui avrà voglia di parlare lo studente, bisogna cercare di sapere di più su due cose: 1° di che cosa parlano i parlanti nativi quando si trovano in situazioni distese con la voglia di conoscere un po’ meglio una persona finora sconosciuta; 2° di che cosa parla spontaneamente lo studente in simili circostanze. Per quanto riguarda il primo punto, io consiglio al lettore di ascoltare un qualsiasi corpus di registrazioni audio di conversazioni a due fra italiani che vengono presentati l’uno all’altro in un ambiente rilassante e vengono immediatamente lasciati soli per almeno mezz’ora. Purtroppo tali corpussono estremamente rari; anzi l’unico di cui conosco l’esistenza è costituito dal materiale d’ascolto di Comunicare meglio. Chi conosce questo materiale può constatare che una parte degli argomenti spontaneamente scelti dai parlanti trova corrispondenza negli inventari di Livello soglia e una parte no. Non parlano, per esempio, di affittare una casa; parlano però del grado di attaccamento affettivo degli italiani alla casa in generale. Non parlano di cani e gatti; parlano invece di lupi. Non parlano dei musei: ma in compenso parlano dei ruoli familiari in Sicilia, ecc. Potrei proseguire con un elenco esauriente di tutti gli argomenti trattati ma il mio obiettivo non è assolutamente di “correggere” gli inventari di Livello soglia rimpiazzandoli con altri o allungandoli. Il mio discorso è un altro: è che dobbiamo smettere di volere un inventario perfetto. Dobbiamo semplicemente assicurarci che gli argomenti e le nozioni specifiche dei nostri corsi (almeno fino a un livello intermedio-alto) si trovino fra quelli di cui parlano gli italiani quando vengono confrontati con persone che non rappresentano per loro nient’altro che un’occasione per conoscere un po’ un altro essere umano. (Voglio dire con questo che vanno esclusi dall’elenco argomenti e nozioni specifiche che vengono affrontati esclusivamente in rapporti di famiglia, di lavoro, di amore, di amicizia approfondita, ecc., essendo queste possibili vicende comunicative di corsi superiori a seconda del tipo di studente e dei suoi bisogni comunicativi.)

Dato che in ogni conversazione ci sono (almeno) due persone e nelle conversazioni future per le quali dobbiamo preparare lo studente, solo una delle due è italiana, conviene, come ho detto sopra, vedere di che cosa parla lo studente spontaneamente quando ha l’occasione di conoscere un po’ un’altra persona. E a questo proposito vorrei descrivere una tecnica didattica che adopero frequentemente con i miei studenti per poi raccontare al lettore ciò che ho scoperto. Invito i colleghi a sperimentare la stessa tecnica con i loro studenti in modo da poter confrontare i risultati. La tecnica in questione serve a svolgere un’attività di Produzione libera orale, e quindi l’obiettivo della lezione è di far usare l’interlingua dello studente promuovendo così sia la scorrevolezza e la sicurezza in sé che l’acquisizione linguistica. La tecnica è di una semplicità unica e viene descritta ora.

Entro in classe, poso le mie cose sul tavolo, prendo un pennarello e scrivo lentamente alla lavagna la seguente istruzione: “Intraprendete una conversazione con una persona vicina”. Mentre scrivo, il brusio di conversazione (in lingua madre) e il rumore di chi deve ancora sistemarsi svaniscono poco a poco fino al silenzio totale da parte di una classe incuriosita da che cosa sto scrivendo; il trucco è di scrivere con la lentezza sufficiente ad ottenere questo effetto prima di finire di scrivere. Terminata la scrittura dell’istruzione, comincio ad occuparmi dei miei libri, registri, ecc., le spalle girate agli studenti, con un atteggiamento di totale disinteresse verso ciò che loro possono fare. Il lettore veterano di questo Bollettino sa quanta importanza hanno per noi questi dettagli apparentemente insignificanti della “messa in scena” delle attività didattiche. Farla in un altro modo provoca la dipendenza dall’insegnante, la quale si manifesta in domande “Con chi devo parlare?” e “Di che cosa devo parlare?”. Il mio obiettivo, invece, è di mettere lo studente davanti ad sfida non troppo dissimile da quella che può trovare all’estero, cioè che non può sempre aspettare che le iniziative conversazionali vengano prese da altri. L’attività serve a far crescere in lui la sicurezza nelle proprie capacità.

Apro una parentesi a questo punto per rispondere ad un’altra critica sentita più volte. C’è chi dice che la metodologia da noi proposta funziona sì con stranieri che studiano l’italiano in Italia, ma per chi studia all’estero non è idonea. Si sostiene che, siccome allo studente all’estero manca la ricca esperienza comunicativa goduta dallo studente in Italia anche fuori la classe, egli non è in grado di trarre molto profitto da questo tipo di lezione. Invece in realtà tutta la metodologia proposta dai Bollettini Dilit è frutto in primo luogo di sperimentazione sui miei studenti (i quali sono italiani che studiano inglese in Italia ad un ritmo di 3 ore la settimana, e quindi in realtà alla lavagna è scritto “Start a conversation with your neighbour”) e poi di sperimentazione condotta dai colleghi su studenti di tedesco e di francese, e infine di sperimentazione di massa su studenti d’italiano venuti dall’estero, i quali studiano 3 o 4 ore al giorno.

Chiudo la parentesi e torno all’attività didattica proposta.

Gli studenti vengono lasciati in pace (cioè io rimango occupato dai miei libri, registri, ecc.) per ben mezz’ora, alla fine della quale mi alzo, richiamo la attenzione, mi complimento con loro della loro capacità di gestire una conversazione autonomamente per così tanto tempo, e cambio attività. C’è, però, una piccola modifica a questo schema che non ho detto prima, ed è che tre o quattro minuti dopo l’inizio scrivo alla lavagna fra parentesi: “Ask for words you need” (“Chiedetemi parole che vi servono”). I miei studenti sanno che questo vuol dire che possono dirmi quando e quante volte vogliono: “What’s the English for…?” (“Come si dice…?”) aggiungendo la parola in italiano.

Sento già, presso alcuni lettori, un’altra critica la quale viene espressa come “Non si deve parlare in L1 in classe” oppure “La traduzione non si deve fare in classe”. Risponderei in questo modo: in realtà non parlano in L1, né fanno traduzioni. Parlare in L1 significa esprimere un pensiero in L1, ed un pensiero non è quasi mai espresso in una sola parola. Così pure per la traduzione: qualsiasi traduttore competente negherebbe di tradurre singole parole; anche lui cerca di rendere nella lingua-bersaglio pensieri compiuti espressi nella lingua di partenza. I miei studenti, invece, fanno riferimento alla L1, e parlano con me della L1; il che è molto diverso dal sostenere che parlano nella L1. In pratica una classe di 10 studenti mi chiede in media una trentina di parole, il che vuol dire una a testa ogni 10 minuti.

L’ultima volta che ho svolto quest’attività ho appuntato le parole richieste per riportarle al lettore. Il motivo, visto che molti di questi termini e parole non si trovano in Livello soglia, o meglio non sono “esponenti” di argomenti e di nozioni specifiche elencati negli inventari di Livello soglia, è di poter raccomandare ai lettori di non prendere tali inventari troppo alla lettera. Ecco l’elenco della mia classe (12 studenti, alla 150° ora circa di studio):

vicino

Scozia

fino a

io ero abituato

carnevale

discussione animata

proprietà

facile

multa

ripida discesa

tenda

nessuno

affettuoso

pesi

il sedere

posta

quarto

tempo

lungo

godere

in ritardo

(il passato di) dare

qualsiasi altro luogo

fortunatamente

paesaggio

imbarazzata

in questo periodo

qui

primavera

peggio

fossi

fammi vedere

formazione

spinta

trascorrere

catastrofe

a volte

cercare

paura

di parlare

stanco

cose

Prima di arrivare alla conclusione, vorrei riferire un’altra mia esperienza, questa volta nell’ambito di un laboratorio bilingue tenutosi nella nostra scuola. Gli studenti, metà dei quali italiani che studiavano inglese e l’altra metà persone di madrelingua inglese, dovevano chiudere gli occhi e pensare all’ultima volta che hanno conosciuto una persona nuova. Poi dovevano informare i compagni del gruppo (ogni gruppo era composto di 3 o 4 persone) sull’argomento o gli argomenti trattati in quella prima conversazione avvenuta al momento dell’incontro. Dopodiché ho chiesto ad ogni gruppo di dirmi quali erano questi argomenti (mi servivano per il proseguimento del laboratorio). Questo è l’elenco risultante:

lavoro

esami

la morte

come conoscere le persone

il tempo

attività del tempo libero

la donna

condizioni ambientali che consentono rapporti uomo/donna

vacanze

l’indipendenza della donna

concerti

bere

i referendum italiani

i viaggi

insegnamento

una commedia

una giornata tragica

i bar

ballare

un naufragio

vivere

occhi

Che cosa si può concludere da questi due miei elenchi? Che cosa si può concludere da altri elenchi prodotti da quei lettori che decidano di replicare gli esperimenti con i loro studenti? Per me, il dato più rilevante è che l’umanità è varia, molto varia! Insomma dare il primo posto nelle nostre considerazioni sulla programmazione ai bisogni comunicativi dello studente va benissimo, ma tradurre poi queste considerazioni in elenchi standardizzati per tutti e fossilizzati per sempre porta ad un risultato che tradisce in pieno la premessa stessa.

Mi rendo conto che chi cerca certezze o formule semplici non rimarrà molto soddisfatto da quest’articolo, però qualche principio concreto se ne può trarre. Dobbiamo, per esempio, aumentare i momenti dello studio in cui lo studente è libero di scegliere di che cosa parlare (consiglio un uso frequente della tecnica sopra descritta, per esempio).

Poi dobbiamo accettare che lezioni che vertono su “aree lessicali” decise a priori dall’insegnante avranno un successo relativamente modesto. Infine, dato che non sappiamo di che cosa vorrà parlare lo studente (e poi ogni classe contiene più studenti), dobbiamo assicurare almeno che lo studente si trovi in un ambiente linguistico estremamente vario e ricco. In pratica questo significa l’uso di tanto materiale autentico da leggere e da ascoltare. Ma proprio tanto.