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Sull’Analisi Transazionale come strumento di interpretazione delle interazioni in classe

Ossia come passare dal termometro al termostato

Situazione: 7 febbraio 1994, aula A della Dilit, livello 5°, dieci persone in classe;
Insegnante: Bene, ora cambiamo attività. Giochiamo con le parole. Questo gioco…
Studente S.: [a voce alta] Oddio, ma non siamo all’asilo!

Domanda: che fare?

Soluzioni (alcuni esempi di reazione dell’insegnante):

1) Sì, è un gioco, e allora?
2) Sei sicuro che non siamo all’asilo?
3) Se non ti piace puoi anche uscire!
4) Continua come se non avesse sentito.
5) No, è vero, non siamo all’asilo ma usiamo questo gioco per imparare la lingua.
6) S., perché non vuoi giocare?
7) C’è qualcun altro che la pensa come S.? Vediamo chi vuole giocare e chi no?
8) Sì, è vero. Ma vedete, attraverso il gioco noi riusciamo ad esprimere quelle parti di noi stessi che in altri modi e momenti non avrebbero la possibilità di…
Ora chiedo a chi legge di fermarsi, rileggere dall’inizio e scegliere una soluzione dopo aver valutato i pregi e i difetti di ognuna. Stop! Rileggete, non abbiamo fretta!

Molte volte ci siamo trovati in situazioni analoghe o più complesse addirittura. E di fronte alla risposta siamo stati e ci siamo sentiti soli.

Ne possiamo parlare a casa o con qualche collega, ma anche loro sono soli come noi, in queste decisioni. Anche chi ha scelto di rispondere con le soluzioni 1 e 3 e pensa così di aver sistemato a dovere lo studente, si sente vincente ma in realtà è solo. Chi ha deciso per la 7 si sente aperto e disponibile ma in realtà è solo.

Voglio chiarire che intendo qui per solitudine. La solitudine scelta, la solitudine consapevole, ha qualità. È una decisione ed è finalizzata a qualche tipo di ricerca che si svilupperà con gli opportuni strumenti. Ma la solitudine di cui voglio parlare è quella non scelta, di cui non siamo neppure consapevoli, che ci regalano le nostre istituzioni scolastiche insieme ai diplomi ed alle lauree che sanciscono la nostra abilitazione all’insegnamento.

Un giorno sul treno ho chiesto al mio vicino di cosa si occupasse. Con cordialità mi ha risposto che è laureato in lingua e letteratura tedesca. A quel punto io ho domandato quale fosse il suo lavoro. Sgranando gli occhi e con un mezzo sorriso ha replicato: “Sono laureato in lingua e letteratura tedesca e insegno lingua e letteratura tedesca”.

A prima vista la mia seconda domanda sembra ingenua e la sua replica sembra lapalissiana. Ma non è così; l’argomentazione del mio compagno di viaggio era di tipo tautologico. Infatti non ha messo minimamente in dubbio il legame logico tra le proposizioni che ha usato. Non gliene faccio una colpa; i più non avrebbero da ridire. Se invece vogliamo andare a verificare questi legami, come ho provato a fare con le mie domande a lui, noto che la prima proposizione mi dice che ha studiato all’università in modo tale da avere determinate conoscenze in quella materia.

La lingua e la letteratura tedesca come pure il nome che dà alle sue emozioni, la strada che porta dalla sua casa alla sua scuola, la forza che deve imprimere con i pollici per rompere un uovo, fanno parte delle sue conoscenze, formano il suo mondo o meglio la sua epistemologia. La seconda proposizione mi dice che in modo conseguenziale quel signore trasferisce parte del sapere del suo mondo nel mondo di altre persone.

Personalmente invece ritengo ci sia una profonda differenza tra lo sviluppo della epistemologia individuale e l’operare in modo che altre persone possano sviluppare la loro. In altre parole, il mio compagno di viaggio mi ha detto che ha studiato, si può ipotizzare che sappia studiare, ma come può sapere che sa insegnare?

È nell’esperienza di molti, il professore universitario ottimo ricercatore, ottimo scrittore, ma pessimo insegnante. Non deve sembrarci strano in quanto conoscere, pensare, decidere per sé e operare in modo che altre persone sviluppino il loro conoscere, il loro pensare, il loro decidere, hanno lo stesso rapporto logico che lega il termometro al termostato. Vi mettereste sotto l’ascella un termostato? I più saggi tra voi risponderanno di no. Come pure non vi affidereste ad un termometro per regolare il calore dei termosifoni della vostra casa.

Appurato che siete saggi la domanda è: perché non scambiate un termostato con un termometro? Perché il secondo è solamente una delle componenti del primo, vale a dire che appartengono a “tipi logici” differenti.

Le direttive ed il controllo derivati dalla regolazione del termostato domestico sono di tipo logico superiore al controllo derivante dal termometro, come spiega magistralmente G. Bateson in Mente e natura, a cui vi rimando per approfondire l’argomento. Traslando, quello che viene chiamato “insegnamento” è di tipo logico superiore a quello che viene chiamato “apprendimento”.

Voglio chiarire che la mia interpretazione di “superiore” non ha niente a che vedere con la creazione di gerarchie ma sta ad indicare il grado di articolazione delle due attività. Le caratteristiche e le abilità che soggiacciono al secondo possono essere inglobate nel primo (a rigor di logica, tutto andrebbe definito in modo opportuno). Questa condizione forse è necessaria ma non è certo sufficiente.

D’altra parte l’aristotelica “chiesa della ragione”, come R. Pirsig chiama l’istituzione scolastica nel suo Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, ci consegna i diplomi e le lauree e poi l’abilitazione all’insegnamento che ci autorizza ad esercitare.

Spero sia sufficientemente chiaro che sul filo di questo ragionamento stiamo penzolando fra i due corni di un paradosso. Ed è questo vivere il paradosso probabilmente senza essere consapevoli, che fa nascere la solitudine di cui parlavo prima. A volte i veterani riescono ad uscirne grazie ad anni di esperienza, buon senso e riflessione. A volte. È in ogni caso un lavoro immane ed ancora una volta solitario. Molte altre ci sclerotizziamo nella “praticaccia”, legittima ma non gratificante e soprattutto inefficace per uscire dal paradosso.

Paul Watzlawick nel suo Istruzioni per rendersi infelici, riporta la storiella della chiave perduta:

“Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede cosa ha perduto. ‘La mia chiave’ risponde l’uomo e si mettono a cercare tutti e due.
Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì. L’altro risponde: ‘No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio'”.
Lo stesso Watzlawick commenta così la storiella:

“Assurdo? Se è così che pensate state cercando anche voi nel luogo sbagliato. Perché il vantaggio, in questo caso, è che tale ricerca non porta a niente se non ‘ancora allo stesso’ cioè al niente… L’aspirante all’infelicità si deve attenere a due semplici regole. Primo: esiste un unica soluzione possibile consentita, ragionevole, sensata e logica di un problema, e se questi sforzi non hanno ancora avuto successo, questo prova soltanto che non ci si è ancora sufficientemente applicati ad essa. Secondo: la supposizione che esista solo quest’unica soluzione non può mai in quanto tale essere messa in discussione; prove di verifica possono essere fatte solo relativamente alla sua applicazione”.

Ora sappiamo come continuare a rimanere ancorati al paradosso di cui parlavo. Per approfondire questo argomento vi consiglio dello stesso autore Di bene in peggio. Nel caso in cui invece volessimo renderci felici penso che, innanzitutto, sia necessario essere consapevoli che siano immersi nel paradosso e che questo si compone dei due succitati corni.

Ciò fatto, nasce la necessità di strumenti adeguati per uscirne. Per risolvere il problema “strumenti adeguati”, dobbiamo ricordarci di quello che ci ha detto prima Watzlawick e provare a rispondere alla domanda: quali caratteristiche devono avere questi strumenti per permetterci di passare dal tipo logico “la mia epistemologia” al tipo logico superiore “operare affinché si sviluppi l’epistemologia di un’altra persona”?

A mio avviso le caratteristiche devono tener conto che ambedue i termini si basano sulla relazione. Nel primo caso, la relazione è tra me e me; nel secondo è tra me e l’altro. Il principale strumento con queste caratteristiche è la psicologia; da questa base nasce il resto. Ed ecco che grazie ad un complesso ragionamento siamo arrivato a scoprire l’acqua calda. O almeno così può sembrare, perché invece ritengo che nella realtà quotidiana dell’insegnante la psicologia sia ancora fuori dal cerchio di luce del lampione della storiella di prima.

Sono sicuro che molti per la loro preparazione universitaria o per curiosità personale se ne sono occupati e se ne occupano. Non credo che altrettanti la pratichino e la applichino entrando in classe.

Non voglio banalizzare, ma per cominciare probabilmente sarebbe sufficiente domandarsi:

1) perché e come dico o non dico qualcosa
2) perché e come faccio o non faccio qualcosa.

Se ho la disciplina per farmi queste due domande, meglio se in tempo reale, posso col tempo acquisire sempre più consapevolezza. E nasceranno naturalmente nuove domande.

Ma nasceranno anche nuove risposte. per quanto riguarda l’Analisi delle relazioni, all’interno della Psicologia Sociale mi sembra utile segnalare l’Analisi Transazionale che, nella pratica quotidiana di insegnamento, ho trovato efficace, agile e proponibile anche ai non-specialisti, quale io sono. Attenzione! Siamo insegnanti. Non psicologi o psicanalisti. Prendiamo da queste discipline quello che ci serve per fare meglio il nostro lavoro. Se confondiamo i ruoli entriamo in un nuovo paradosso.

Quello che segue è un breve cenno per stimolare all’approfondimento dell’Analisi Transazionale.

Cenni sull’Analisi Transazionale

Il punto di partenza è la constatazione che tutti noi cambiamo continuamente, anche nell’arco di una giornata o addirittura di una singola ora, cambiamo atteggiamenti, punti di vista, voce, vocabolario…

Questi cambiamenti sono attribuibili a realtà psicologiche distinte definite “stati dell’io”. Sono sistemi coerenti di sentimenti accompagnati da un relativo insieme coerente di comportamenti. Vengono divisi in tre categorie:

1) stati estropsichici, chiamati anche “Genitore” in quanto ricordano le figure di quelli che sono stati i nostri educatori. Tutti si portano dentro i genitori;
2) stati neopsichici, detti anche “Adulto”, in quanto si rivolgono autonomamente alla propria valutazione obiettiva della realtà. Tutti hanno un adulto dentro;
3) stati archeopsichici, detti anche “Bambino”, che sono ancora attivi, fissati nella prima infanzia. Tutti si portano un bambino o una bambina dentro.
In ogni momento, in ogni aggregato sociale, ognuno manifesterà uno di questi tre stati, passando più o meno prontamente da uno all’altro.

Altra considerazione fondamentale è che ogni membro di un aggregato tende a ricavare il maggior numero di soddisfazioni dalle transazioni con gli altri membri. Per transazione si intende l’unità di rapporto sociale. Il vantaggio del contatto sociale è da ricercarsi nell’equilibrio somatico e psichico. Alla sua origine troviamo quella che viene definita “fame di stimolo”.

Spitz descrive l’irreversibile depressione ed addirittura l’esito fatale a cui arrivano i neonati privati delle cure (privazione emotiva). Un fenomeno analogo si nota anche negli adulti sottoposti a privazione sensoria come i detenuti in isolamento. Sembra si possa arrivare alla degenerazione delle cellule nervose del sistema attivatorio reticolare del cervelletto.

Eric Berne, iniziatore dell’Analisi Transazionale, nel suo libro A che gioco giochiamo?, scrive che: “Senza carezze non si cammina a petto in fuori!”, e per carezze intende ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un’altra persona. È quindi lo scambio di “carezze” che costituisce la transazione, l’unità di rapporto sociale.

Se pensiamo alle carezze simboliche che prendono il nome di saluto, non è difficile ritrovarci nello scambio a sei carezze (molto italiano), del tipo:

A) “Buongiorno.”
B) “Buongiorno, come va?”
A) “Non c’è male. E lei?”
B) “Discretamente. Non mi lamento.”
A) “Bene! Arrivederci.”
B) “Arrivederci.”

Pensate a cosa succederebbe se B non rispondesse, deliberatamente, alla carezza simbolica di A. A proposito: salutate quando entrate in classe? e come salutate? guardate le persone in faccia? sorridete o borbottate?

Dopo il saluto, inizia l’imbarazzante pausa di silenzio. È da qui che nasce la “fame di struttura” cioè l’organizzazione delle ore di veglia. La vita sociale è una reciproca assistenza per risolvere questo problema attraverso scambi che dipenderanno dall’accettabilità sociale, le cosiddette buone maniere. In certe regioni africane è considerato estremamente inopportuna qualsiasi domanda del tipo: “Come sta sua moglie?”, che in Italia fa parte di un certo repertorio.

Quando si entra in rapporto con un’altra persona intervengono in modo sempre crescente le programmazioni individuali (Genitore, Adulto, Bambino) e così cominciano gli intoppi, i problemi, gli screzi, le incomprensioni, che saranno sempre recepiti come fortuiti dagli interessati ma che in realtà seguono schemi classificabili e rispondenti a precise regole. Così si attivano quelli che l’Analisi Transazionale definisce “giochi”.

L’aspetto essenziale di ogni gioco sta nel fatto che le emozioni obbediscono per l’appunto a determinate regole. L’A.T., nella sua espressione più semplice, si occupa di diagnosticare quale stato dell’io ha provocato lo stimolo transazionale e quale ha messo in moto la reazione transazionale.

Per maggior chiarezza riporto qui di seguito lo schema degli stati dell’io e le caratteristiche fisiche e verbali del Genitore, Adulto, Bambino.

G – registrazione permanente delle norme dei comportamenti (come soffiarsi il naso, come ringraziare, come piantare un chiodo, …);
– routine e automaticità nelle relazioni.A – raccogliere dati, li valuta e calcola le probabilità;
– sperimenta contrattempi e soddisfazioni;
– media tra G e B;
– trasforma stimoli in informazioni, li elabora e li immagazzina sulla base dell’esperienza precedente;
– decide;
– sviluppa e aumenta la sua efficienza con l’esercizio.B – intuizione, spontaneità, capacità di godere, simpatia, gioia, stupore;
– le sue reazioni sono perlopiù stati d’animo;
– le ”prime volte”;
– gli stati d’animo “non OK” superano di molto quelli ”OK”.

Caratteristiche del Genitore

Fisiche: fronte accigliata, labbra increspate, indice puntato, lo scuotere del capo, lo “sguardo inorridito”, il pestare i piedi, le mani sui fianchi, le braccia incrociate sul petto, il torcersi le mani, lo schioccare la lingua, sospirare, accarezzare il capo di un altro. Questi sono gesti tipici del Genitore. Vi possono essere, tuttavia, altri genitori particolari, tipici del proprio Genitore. Ad esempio, se vostro padre era solito schiarirsi la voce e volgere gli occhi al cielo ogniqualvolta doveva fare un’osservazione riguardante il vostro cattivo comportamento, non c’è dubbio che mostrerete un atteggiamento analogo come preludio ad un’affermazione del vostro Genitore, anche se ciò potrebbe non essere considerato un atteggiamento del Genitore nella maggior parte della gente. Bisogna poi anche tener conto di differenze culturali. Negli Stati Uniti, ad esempio, per sospirare si emettono un’espirazione, mentre in Svezia si inspira.

Caratteristiche del Genitore

Verbali: “Sono deciso a mettere fine a questo stato di cose una volta per tutte“; “Quant’è vero Iddio…”; “Ricordati sempre…”; (“sempre” e “mai” sono quasi sempre parole del Genitore, che rivelano i limiti di un sistema arcaico, chiuso all’apporto di nuovi dati); “Quante volte te l’ho detto? Se io fossi in te…”.

Molti termini di valutazione, sia critici che favorevoli, possono servire a individuare il Genitore, in quanto esprimono un giudizio su un’altra persona non basato su un apprezzamento proveniente dall’Adulto, ma su reazioni arcaiche, automatiche. Esempi di questo genere di espressioni sono: “stupido”, “cattivo”, “ridicolo”, “disgustoso”, “urtante”, “idiota”, “stupidaggini”, “assurdo”, “povera creatura”, “povero caro”, “no! no!”, “figliolo”, “gioia cara”, (come potrebbe dire una piazzista premurosa), “Come ti permetti?”, “grazioso”, “andiamo andiamo”, “E ora cosa c’è?”, “Ancora?”. È importante tenere presente che tali espressioni hanno carattere indicativo e non sono definitive. Dopo una seria considerazione l’Adulto può concludere, sulla base di un sistema etico Adulto, che certe cose sono davvero stupide, ridicole, disgustose e urtanti. Due parole “dovresti” e “sarebbe bene” possono anche essere espressioni proprie dell’Adulto. È l’impiego automatico, arcaico, irriflessivo di queste espressioni ad indicare la presenza attiva del Genitore. Queste parole, unitamente al gestire e al contesto della transazione, ci sono di aiuto nell’individuazione del Genitore.

Caratteristiche del Bambino

Fisiche: Dato che le prime reazioni del Bambino agli stimoli del mondo esterno non hanno avuto carattere verbale, le caratteristiche più facilmente riconoscibili del Bambino si notano nelle espressioni fisiche. Una qualsiasi, fra quelle elencate sotto, è indice della presenza attiva del Bambino in una transazione: le lacrime; il labbro tremante; il broncio; la stizza; la voce acuta o lamentosa; il roteare gli occhi; il fare spallucce, gli occhi bassi; lo stuzzicare; il provare delizia; ridere; sollevare la mano per chiedere il permesso di parlare; mordersi le unghie; mettersi le dita nel naso; dimenarsi e ridacchiare.

Caratteristiche del Bambino

Verbali: Oltre al linguaggio infantile, sono molte le espressioni che servono a individuare il Bambino: “io desidero”, “io voglio”, “non lo so”, “Farò”, “Non me ne importa”, “Immagino”, “Quando sono grande, più grande”, “Il più grande”, “Migliore”, “Il migliore” (molti superlativi hanno origine nel Bambino, da cui vengono usati come “gettoni” nel gioco “il mio è migliore”). Simili nello spirito a “Guarda, mamma, senza mani!” le espressioni suddette servono a impressionare il Genitore e a vincere il senso di NON OK.

Esiste un altro gruppo di parole pronunziate continuamente dai piccoli. Queste, tuttavia, non sono caratteristiche del Bambino, ma piuttosto dell’Adulto attivo nel piccolo. Tali parole sono: perché, cosa, dove, chi, quando, come.

Caratteristiche dell’Adulto

Fisiche: Qual è l’aspetto dell’Adulto? Se impediamo alle registrazioni del Genitore e del Bambino di apparire visibilmente, che espressione assumerà il volto? Sarà assente? Benevolo? Velato? Insulso? Ernst sostiene che un volto inespressivo non è indice del volto dell’Adulto. Egli osserva che nell’Adulto l’atto di ascoltare è rivelato da movimenti continui del volto, degli occhi e del corpo, con una frequenza del battere delle palpebre che va dai tre ai cinque secondi. L’assenza di movimento è indice di mancanza di attenzione. Il viso dell’Adulto è franco, dice Ernst. Se il capo è inclinato, la persona ascolta da un punto di vista preconcetto. L’Adulto, inoltre, consente di mostrare il volto al Bambino curioso ed elettrizzato.

Verbali: come ho detto in precedenza, il vocabolario fondamentale dell’Adulto consiste di perché, cosa, dove, quando, chi e come. Altre espressioni sono: “in che misura”, “in che modo”, “relativo”, “vero”, “falso”, “probabile”, “possibile”, “sconosciuto”, “obiettivo”, “credo”, “capisco”, “secondo me”. Tutte queste parole sono indice di una analisi dei dati compiuta dall’Adulto. Nell’espressione “secondo me”, l’opinione può derivare dal genitore, ma l’affermazione è da Adulto in quanto viene espressa come un’opinione e non come una dato di fatto certo.

La comunicazione tra due giocatori sottostà alle seguenti regole:

1) si procederà senza intoppi finché le transazioni saranno di tipo complementare, come nello schema seguente:

2) si interromperà la comunicazione quando si verifica una transazione incrociata:

Per chiarire, riporto un esempio tratto da A che gioco giochiamo?:

Prima Signora: (Guarda l’orologio, lo carica, borbotta, l’attenzione della signora seduta accanto a lei, sospira con aria stanca).
Seconda Signora: (Sospira a sua volta, si muove dando segni di disagio, guarda il proprio orologio).
Prima Signora: Pare che dobbiamo arrivare in ritardo un’altra volta.
Seconda Signora: Non c’è dubbio.
Prima Signora: Si è mai visto un autobus arrivare in orario, dico mai?
Seconda Signora: Mai.
Prima Signora: Lo dicevo proprio stamattina ad Herbert: i servizi non sono più come quelli di una volta.
Seconda Signora: Ha ragione, assolutamente. È un segno dell’andazzo generale.
Prima signora: Però te lo fanno pagare. Su quello ci puoi contare!

Queste transazioni sono del tipo Genitore-Genitore in quanto si susseguono senza ricorrere ai dati offerti dalla realtà e fanno parte dello stesso genere di scambi categorici di giudizi che queste signore, da piccole, hanno udito per caso intervenire tra le rispettive mammine e ziette a proposito delle traversie che comportava un viaggio in macchina. La Prima e la Seconda Signora si divertivano maggiormente a enumerare le “seccature” che ad appurare i dati di fatto. Il motivo di ciò sta nella sensazione di benessere che si ricava dal biasimare e dal trovare da ridire. Allorché biasimiamo e critichiamo, ripetiamo i primi biasimi e le prime critiche registrati nel Genitore, e questo ci fa sentire Ok, poiché il Genitore è Ok e noi assumiamo l’atteggiamento del genitore. Se si trova qualcuno che concorda con noi, e si unisce al gioco, ciò produce una sensazione di quasi onnipotenza. La Prima Signora fece la prima mossa. La seconda avrebbe potuto porre termine al gioco se, in un momento qualsiasi, avesse reagito con un’osservazione da Adulto ad un’affermazione qualunque della Prima Signora:

Prima Signora: (Guarda l’orologio, lo carica, borbotta, attira l’attenzione della signora seduta accanto a lei, sospira con aria stanca).

Possibili reazioni dell’Adulto:

1) Ignorare il sospiro, volgendo gli occhi altrove;
2) Un semplice sorriso;
3) (Nel caso che la Prima Signora fosse stata piuttosto afflitta): “C’è qualcosa che non va?”.

Prima Signora: Pare che dobbiamo arrivare in ritardo un’altra volta.

Possibili reazioni dell’Adulto:

1) “Che ore sono?”;
2) “Questo autobus di solito è puntuale”;
3) “È arrivato in ritardo altre volte?”;
4) “Provo a chiedere”.

Prima Signora: “Si è mai visto un autobus arrivare in orario, dico mai?”.

Possibili reazioni dell’adulto:

1) “Sì”.
2) “Di solito non vado in autobus”.
3) “Non ci ho mai pensato”.

Prima Signora: “Lo dicevo proprio stamattina a Herbert: i servizi non sono più come quelli di una volta”.

Possibili reazioni dell’Adulto:

1) “Non posso condividere il suo parere”;
2) “A che genere di servizi allude?”;
3) “Il tenore di vita è quanto mai alto, a mio modo di vedere”;
4) “Non posso lamentarmi”.

Queste reazioni alternative sarebbero state da Adulto, ma non complementari.

Possiamo finalmente ritornare al nostro esempio iniziale. Provate a rileggerlo e osservate la vostra risposta alla luce di quanto avete letto. Fareste la stessa scelta o volete cambiarla?

Questo è solo un esempio di cui abbiamo trattato a tavolino, ma il bello viene se domani proverete in classe e poi dopodomani e poi ancora per affinare via via l’uso di questo strumento. Un vantaggio indiretto ma prezioso che ne deriva è la crescita del rispetto sia in voi che nell’altro.

Voglio fin da ora esprimere la mia solidarietà e la mia simpatia a coloro che vorranno sperimentare questa strada, o altre in questa direzione; ricordiamo che non ci dobbiamo comunque scoraggiare perché non possiamo fare errori. Gli errori e gli sbagli non esistono; a meno che non esista la volontà di commetterli. Chi sperimenta non può sbagliare o commettere errori; può invece fare ipotesi ed accumulare esperienza.

Ricordatelo domani in classe; se vale per voi vale anche per gli studenti.

Bibliografia

Bateson, G., 1976 Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.
Bateson, G. 1984 Mente e Natura. Milano, Adelphi.
Berne, E., 1993 A che gioco giochiamo?, Milano, Bompiani.
De Martino, M., Novellino M., Vicinanza A.1990 L’alleanza nella relazione didattica. L ‘Analisi Transazionale in campo psicopedagogico, Liguori.
Pirsig, R., 1981 Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi.
Steward, I., Jones, V., 1990 L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Milano, Garzanti.
Watzlawick, P., 1987 Di bene in peggio, Milano, Feltrinelli.
Watzlawick, P., 1993, Istruzioni per rendersi infelici, Milano, Feltrinelli.
Watzlawick, P., Helmick Beavin, J., Jackson, D.D., 1971 Pragmatica della comunicazione umana, Roma Astrolabio.