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“Questo esercizio non mi piace”

È facile immaginare l’effetto che una frase simile, pronunciata con stizza verso l’insegnante a circa 10 minuti dall’inizio della lezione, può sortire. Un gelo pietrificante cala sulla classe e il clima rilassato, attento e giocoso al tempo stesso che si era cercato di creare sembra irrimediabilmente incrinato. Ma mancano ancora 3 ore e 50 minuti alla fine della lezione. Sarà quindi meglio risalire la china al più presto.

Non so quanti di voi si siano trovati in condizioni di attrito con uno o più studenti. È un problema non frequente, ma che ricorre regolarmente e forse è uno dei più cruciali nel nostro campo, specialmente quando lo “scontro” ha luogo in pubblico. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici, spesso non è possibile conoscerle tutte. Possono essere d’ordine didattico o culturale, fisico o psicologico, emotivo o tutte le cose messe insieme, sia da parte dell’insegnante che da quella dello studente. Eppure non possiamo evitare di sentirci immediatamente messi in causa, non solo come professionisti, ma anche come persone.

Tornando all’accaduto, la prima cosa che ho pensato è stata: “Evidentemente le sono antipatica”, perché la sua reazione rabbiosa a un’attività che certo poteva piacerle o meno, ma che comunque gli altri allievi sembravano svolgere con partecipazione, era fuori luogo. È proprio su questo eccesso che desidero riflettere e non tanto sulla diversità di gusti o di opinione, che considero legittimi.

Ho parlato di ragioni molteplici. Nel caso specifico una poteva essere il fatto che insegnavo in quella classe soltanto da 3 giorni, alternandomi a un collega che nelle 2 settimane precedenti ne era stato l’unico titolare. Potevo quindi essere considerata un’intrusa. Del resto ne avevo avuto il sentimento fin dai primi attimi del primo giorno. Gli studenti per la maggior parte non erano stati messi al corrente del cambiamento e 3 o 4 allievi (su un totale di 14), immagino particolarmente affezionati al mio collega, non avevano saputo nascondere un’ovvia delusione. I loro sguardi freddi, leggermente angosciati, di gente preparata al peggio sembravano analizzarmi ai raggi infrarossi. A momenti mi son chiesta se ci fosse qualcosa di particolare nel mio aspetto che li impressionasse. Chissà, forse per errore mi ero tracciata un grande sbaffo sulla guancia col pennarello… In fin dei conti trovavo la scena abbastanza ridicola. Il fenomeno del “primo acchito”, benché con gradazioni diverse, è classico. Per questo non mi lascio abbattere da tali dimostrazioni di diffidenza e mi era sembrato di aver superato rapidamente l’impasse.

Evidentemente era riemersa un’isola di resistenza. Gli occhi chiari del mio collega avevano colpito ancora! Ma la preferenza di questa ragazza dipendeva unicamente da fattori estetici e di simpatia umana o non esisteva piuttosto da parte mia una carenza didattica? Ma allora perché soltanto lei aveva reagito a quel modo? Forse il problema non aveva niente a che vedere con la lezione. Forse scendendo dall’autobus per venire a scuola qualche buzzurro l’aveva spinta senza chiederle scusa e lei sentiva l’urgenza di sfogarsi contro qualcuno.

Più tardi, alla ricerca disperata di un lato positivo, ho trovato un’idea consolante o almeno giustificativa nel libro Aggressività e adattamento di Bonino e Saglione, i quali a loro volta fanno riferimento a Eibl-Eibefeldt:

“La necessità di affermare se stessi e la propria individualità, soprattutto quando più stretto si fa il legame con un’altra persona, spiega perché le esplosioni aggressive siano così violente con i propri familiari [e insegnanti?, Ndr] […]. La contraddizione è solo apparente: sono i rapporti di dipendenza che suscitano un’aggressività incontrollata”.

La consolazione comunque è magra

Non proseguirò con l’elenco dettagliato di tutte le varie ipotesi che mi sono passate per la mente in quei minuti. Il fatto è che volevo sapere a tutti i costi cosa esattamente l’avesse spinta a comportarsi in quel modo, per evitare che l’inconveniente si ripetesse.

Lì per lì mi sono limitata a fingere di non darci troppo peso. L’ho invitata a non drammatizzare e ho concluso velocemente l’attività per introdurne un’altra, che per mia fortuna ha entusiasmato la studentessa in questione, che d’ora in poi, per comodità, chiamerò Rompina.

Dopo la pausa era tempo dell’attività didattica Puzzle linguistico. E rieccola all’attacco. Va premesso che nella nostra scuola, pur avendo obbiettivi generali in comune, gli insegnanti sono liberi di dare un’impronta personale all’attuazione dei vari esercizi. Ora il caso ha voluto che il metodo da me adottato fosse leggermente diverso rispetto a quello del collega.

Apriti cielo. A Rompina un nuovo affronto proprio non andava giù. Come avevo osato cambiare le regole del gioco?

A quel punto si è aperta una discussione interessante soprattutto per la sua dinamica, che è già stata catalogata da E. Berne in un suo libro sull’analisi transazionale, di cui Claudio Chiavegato mi aveva parlato.

Lo schema è il seguente:

A) “Perché non …?”
B) “Sì, ma…”

e può continuare così all’infinito.

Detto a grandi linee, secondo Berne la persona “A”, che io rappresentavo, offrendo dei suggerimenti vuole in realtà controllare la persona “B”, nella fattispecie Rompina. A “B” i suggerimenti non interessano. L’unica cosa che desidera è attirare l’attenzione per ottenere un rapporto privilegiato.

La teoria combacia in modo stupefacente con quanto si è verificato in classe. Visto che la polemica era senza soluzione di continuità ho preferito soprassedere ancora una volta e rimandare il tutto a un dialogo privato al termine della lezione.

Quando le ho chiesto se potevamo parlare un po’ da sole, la ragazza ha accettato con un sorriso, mostrandosi molto disponibile. Probabilmente non aspettava altro. Abbiamo chiacchierato per circa mezz’ora, con franchezza e senza ostilità. Infatti non dovevamo salvare la faccia com’era accaduto di fronte al resto della classe.

Non mi illudo di avere finalmente conosciuto il vero o i veri motivi che hanno fatto scattare in lei quegli assalti. Mi ha detto che il tono brusco, che aveva usato nei miei confronti, nel suo paese d’origine era da considerarsi assolutamente normale. L’importante è che la scena in seguito non si è più ripetuta. Certo ho avuto difficoltà a sentirmi di nuovo totalmente me stessa. Avevo sempre un po’ il timore che un’altra mina vagante potesse esplodere da un momento all’altro, ma la paura si è rivelata infondata.

Mi farebbe molto piacere conoscere altre esperienze e opinioni in merito. Temo che una medicina universale non esista, ma il solo fatto di parlarne insieme potrà probabilmente aiutarci ad esorcizzare il pericolo. Aspetto una vostra risposta

Bibliografia

Bonino, S., Saglione, G., 1978, Aggressività e adattamento, Torino, Bollati Boringhieri
E. Berne, 1971, Analisi transazionale e psicoterapia, Roma, Astrolabio