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Il cuoco, il cinese e altre storie

Quando mi sono iscritta al corso di formazione alla Dilit International House non avevo la più pallida idea di cosa volesse dire insegnare la mia lingua ad uno straniero e sapevo bene che non sarebbe mai bastato un mese per imparare a fronteggiare ogni possibile difficoltà… e infatti così è stato, malgrado gli sforzi di Christopher Humphris e Piero Catizone. Ma devo dire che non sono stati sufficienti neanche i successivi sei mesi e c’è sempre qualche problema imprevisto che non riesco a risolvere con l’agilità e la destrezza che tutti si aspetterebbero dal vero insegnante Dilit.

I “problemi imprevisti”, finora, sono stati di diverso tipo: di carattere comunicativo alcuni, metodologico altri; a volte è stato un problema il dislivello tra gli studenti, altre volte la profonda differenza culturale tra loro. In genere non succede di doverli affrontare tutti insieme, ma ricordo una classe in particolare in cui c’era sia lo studente principiante assoluto, sia quello che non capiva il metodo di lavoro che proponevo, sia il normale studente europeo che ha molti riferimenti culturali in più nell’avvicinarsi all’italiano anche se per la prima volta. È stata un’esperienza che non auguro a nessuno: provate solo a immaginare quale tipo di confronto possa esserci, dopo un ascolto o una lettura, tra un cuoco giapponese, principiante assoluto, che parla solo giapponese, non incontra mai italiani e non possiede né radio né televisione, ed un funzionario della F.A.O. (organismo delI’O.N.U.) cinese che pronuncia l’italiano come l’inglese pronunciato da un cinese. Quest’ultimo non immaginava neanche cosa volesse dire “didattica” e per lui imparare una lingua significava ripetere esattamente tutto quello che diceva l’insegnante; di questi due studenti per diversi giorni non sono riuscita a capire quale fosse il nome e quale il cognome e per quanto riguarda il cuoco giapponese mi è rimasto il dubbio.

In effetti ho avuto molte difficoltà con gli studenti orientali e sarei quasi tentata di proporre ai responsabili della formazione un seminario sui problemi che si possono incontrare con loro. Certo, ormai ho imparato a distinguere i nomi giapponesi femminili da quelli maschili e ad usare un po’ meglio mani, piedi, matite e lavagne per farmi capire, ma erano veramente tante le cose che non sapevo e di cui nessuno mi aveva parlato. Ad esempio non conoscevo il diverso significato di alcuni gesti e solo dopo un bel po’ ho intuito che se un giapponese annuisce non è detto che abbia capito; e ancora il diverso uso del “sì” e del “no” in frasi come: “Vai a Genova, no?”, “Sì!”. Ma Yuki voleva dire: “Sì, non vado a Genova”. Forse non sarebbe servito parlare di tutto questo durante il corso di formazione, il fatto è che molte situazioni non riuscivo neanche a immaginarle, quando ho iniziato a lavorare.

Il cuoco giapponese è stato il primo principiante assoluto che ho conosciuto: avevamo parlato spesso della differenza tra un vero e un falso principiante, ma era la prima volta che ne vedevo uno brancolare così nel buio. La sua espressione è rimasta fissa ed immobile per quasi tutte e tre le ore di lezione, ogni giorno per quasi tutto il mese; ogni tanto si illuminava, poi, però, gli era impossibile comunicare quello che aveva capito. Non potevo neanche aiutarlo attraverso il confronto con gli altri, perché i suoi compagni erano il funzionario cinese, appunto, e altri due ragazzi (un francese e una inglese) molto simpatici e disponibili, ma che non potevo far parlare sempre con gli altri due. Era troppo grande la differenza di livello e non sarebbe stato utile per nessuno. Così era come lavorare con due classi contemporaneamente e per un mese ho preparato le attività per i due orientali, pensando a quello che avrei fatto fare in più agli altri due. Anche questo problema, il dislivello all’interno di una classe, è stato del tutto inaspettato per me.

Con il funzionario cinese ho avuto meno problemi di comprensione ma molti di più per farlo lavorare come gli altri: non sapevo come affrontare il suo modo di ripetere qualsiasi parola dicessi. Se gli chiedevo: “Come hai detto, scusa?”, lui diceva “Scusa?… Sì, conosco” e aggiungeva “Scusa, scusi, prego, mi dica, per favore”. E io non sapevo se ridere o piangere. Se poi aveva un dubbio su come dire una data parola, durante ogni tipo di conversazione, confronto interattivo o produzione libera che fosse, non si dava pace finché non aveva esaurito tutte le possibili varianti fonetiche di quella parola, che così diventava sempre più incomprensibile. Faceva lo stesso quando leggeva: anziché arrivare alla fine e preoccuparsi di cercare di capire il testo nel suo insieme, leggeva a voce alta parola per parola, per poi tradurla dall’italiano in inglese e poi in cinese. Solo dopo alcuni giorni mi sono resa conto che utilizzava il momento del confronto per avere dai compagni la conferma delle traduzioni fatte. Insomma tutto questo era esattamente il contrario rispetto a quello che avevo visto succedere durante il corso di formazione: io non aveva fatto altro che dare le stesse istruzioni.

Per non parlare della Ricostruzione di conversazione: inutile dire che ripeteva ogni mia informazione sul contesto, senza capire che doveva ricostruire il discorso fatto, eppure avevo pensato allo scenario, a caratterizzare bene i personaggi, tant’è che aveva capito anche il ragazzo giapponese. Lo studente cinese, no; ad un certo punto si è estraniato, nonostante i miei tentativi per fargli capire come lavorare, e così ho deciso che avrei lavorato con gli altri tre. Solo che durante l’attività successiva, una lettura mi pare, ho scoperto che aveva scritto tutte le battute ricostruite dai compagni e ora, durante i momenti di confronto, faceva le solite traduzioni, ma sul testo della Ricostruzione di conversazione.

Certo, io ero inesperta, non sapevo mai se interrompere l’attività per spiegargli come lavorare, far lavorare gli altri e parlare solo con lui o non parlarne per niente; fatto sta che, pur avendo provato tutte queste cose, il problema vero restava l’abisso culturale e la diversissima esperienza di apprendimento che c’era tra lui e gli altri. Non ero affatto preparata a questo, anche se qualche tempo prima mi era successa una cosa del genere con una signora giapponese che frequentava il 2° livello di un corso non intensivo. Sposata ad un giapponese, anche lei non possedeva né radio né televisione (… no comment!) eppure aveva una buona conoscenza della grammatica. Una volta avevo preparato un gioco grammaticale, il cosiddetto “filetto”, e sapevo che lei sarebbe stata in grado di far vincere la propria squadra, facendo però riflettere tutta la classe. Ad un certo punto, invece, ha smesso di partecipare al gioco, evitando di proporre ipotesi e di correggere quelle dei compagni. Alla fine, appena ho potuto, le ho chiesto se aveva avuto difficoltà. Ha risposto molto semplicemente “Gioco no buono, in Giappone no gioco!”. Quando finalmente aveva riflettuto abbastanza da poterne riparlare con lei, qualche giorno dopo, lei aveva già deciso di non continuare più il corso. Inutile dire che durante il corso di formazione mi era stato dimostrato in modo indiscutibile, e lo avevo sperimentato io stessa, che, giocando si impara molto di più e che è necessario quindi un insegnamento che lasci spazio al gioco. Beh, a me non ha funzionato.

Mi sono chiesta spesso se in questi casi devo cercare dei compromessi, per colmare gli abissi culturali, o se insistere per far capire loro che possono fare determinate cose che magari già fanno senza rendersene conto: in realtà si tratterebbe di trovare ogni volta un equilibrio diverso tra le due cose, ogni volta adatto al rapporto che c’è tra me e quello studente in particolare in quel momento.

E anche questo, ovviamente, l’ho capito solo dopo il corso di formazione.