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Forse le cose non sono come noi insegnanti crediamo…

Un’esperienza veramente formativa per un’insegnante di lingue è sicuramente quella di insegnare in una classe composta unicamente di studenti orientali, nella fattispecie di nazionalità coreana. E’ quello che mi è capitato di recente e mi piacerebbe, con questo articolo, partecipare alcune riflessioni.

Prima di oggi mi era accaduto altre volte di avere in classe – in una classe formata da studenti di nazionalità diversa – uno o più studenti orientali (soprattutto coreani e giapponesi) che molto spesso diventavano “il problema” di quella classe. Prendendo in considerazione un corso intensivo per principianti, normalmente, dopo la prima settimana di lezione (60 – 80 ore) il “divario” tra studente europeo e studente orientale era già molto forte. Diventava difficile, se non alle volte impossibile, far lavorare insieme i due studenti. E questo, senza voler togliere nulla a nessuno, sembrava inevitabile, tenendo conto delle differenze culturali dei due.

Sarò molto sincera e, per dirla in termini molto espliciti, nonostante gli sforzi e la mia buona volontà, ho pensato spesso che uno studente di lingua orientale in classe fosse un “regalo” poco gradito, una sorta di “imprevisto” da mandare giù in qualche modo. Tutto questo perché uno studente che richiede pazienza infinita e tempi lunghissimi, che parla poco e interagisce ancora meno non è certo gratificante per l’insegnante.

Così, spesso la lezione diventava una dura fatica da sostenere e lo studente era il primo a sentirsi frustrato e infelice.

E’ evidente che in dinamiche di questo tipo il modo di porsi dell’insegnante non può non avere un peso determinante e le sue “aspettative” non possono non condizionare l’andamento della lezione e i risultati ottenuti. Questo va detto per inciso. Tuttavia questo andamento mi sembrava quasi normale, se non addirittura inevitabile. “E’ chiaro – pensavo – che uno studente coreano o giapponese sia sempre “indietro” rispetto al suo collega tedesco o inglese. Sono troppo diverse le loro posizioni di partenza, e poi non è possibile aspettarsi qualcosa di diverso”. La “diversità”, infatti, costituiva l’eccezione.

Inoltre credo sia opportuno confessare una debolezza di noi insegnanti che, essendo umani, non riusciamo sempre a prendere le distanze dalle categorie “simpatico/antipatico”, ed è molto facile trovare più simpatico uno studente spigliato estroverso e ‘chiacchierone’, piuttosto che uno timido, silenzioso e talvolta impenetrabile.

A questo punto, dopo l’esperienza in questione, si è resa necessaria una mia personale pausa di riflessione. Alcuni parametri sono saltati e necessariamente ho dovuto rivedere la mia posizione nei confronti di quello studente che impone un ritmo più lento alla classe e che inevitabilmente crea qualche problema.

Mi è capitato – dicevo all’inizio – di insegnare in una classe di soli studenti coreani assolutamente principianti. Qualcuno di loro possedeva una scarsa conoscenza della lingua inglese come unica lingua europea. Non nascondo che, informata dell’inizio di tale corso, ho vissuto un momento di panico. Non sapevo proprio da che parte cominciare: 11 studenti e tutti coreani! Temevo soprattutto di non avere la pazienza necessaria per affrontare quella classe. Comunque dividevo il corso con un collega e il fatto di avere un “compagno di sventura” è stato di grande aiuto (di 20 ore settimanali 12 erano mie e 8 sue).

Globalmente è stata un’esperienza molto positiva che sicuramente ha cambiato il mio modo di insegnare e, soprattutto, di relazionarmi con gli studenti in questione. I punti fondamentali della mia riflessione sono i seguenti:

  • L’insegnante viene avvertito dallo studente in questione come l’Autorità suprema che non bisogna interrompere tantomeno contraddire. La difficoltà maggiore che ho incontrato è stata sicuramente la scarsa capacità di porre domande, di chiedere spiegazioni, in qualche modo di “rivendicare la lezione”. Questo ha reso necessaria – fin da subito – la proposta di attività ludiche che potessero rompere il clima troppo carico di silenzi e di sguardi interrogativi. La cosa ha funzionato e ad un certo punto devono aver capito che l’insegnante non era il mostro intoccabile presente nelle loro menti.
  • Il “ritmo” della classe è un ritmo del tutto diverso da quello di altre classi. La fretta non ha alcun senso, tantomeno le aspettative dell’insegnante . Entrare in classe con l’obiettivo di arrivare a un determinato punto di un ipotetico programma conduce inevitabilmente al fallimento. Qui è stato necessario non aspettarsi nulla, lasciare che fossero loro – GLI STUDENTI – a dettare i ritmi e a questi adeguarsi. Soltanto allora, paradossalmente, ci si accorge di quanto essi siano in grado di “dare” .
  • Una delle cose che più mi ha colpita è stato lo “spirito di gruppo”, una specie di complicità edificante che aiuta i più deboli a sentirsi sullo stesso piano dei più forti. Una sorta di “uno per tutti…” che permette ad ognuno di costruirsi la propria sicurezza.
  • Ho dovuto quindi riflettere sulla necessità di non dare nulla per scontato. È innanzitutto necessario trovare un codice comune per intendersi e a questo proposito espressioni come “che significa…?”, “non ho capito”, “come, scusa?” si sono rivelate più che fondamentali. Hanno rappresentato il primo gradino per poter intraprendere una qualche “conversazione”.
  • Altro punto importante è stata la necessità di non “avere fretta”, non c’è alcun motivo di “correre”. È necessario lasciare agli studenti tutto il tempo di cui hanno bisogno perché “digeriscano” quanto proviene da una persona (l’insegnante) che vedono così diversa da loro. E’ perciò inevitabile che i tempi delle attività proposte si dilatino molto.
  • Dopo tre settimane dall’inizio del corso due nuovi studenti di nazionalità tedesca si sono inseriti nella classe già formata. Non nascondo di aver avuto qualche timore al riguardo e invece sono stata costretta a interrogarmi su cosa sarebbe successo se la situazione si fosse capovolta: due studenti coreani in una classe di tedeschi (!). Premettendo che gli studenti tedeschi erano di livello poco inferiore in quanto a competenza linguistica, e non “addestrati” come i “vecchi” studenti, ho dovuto constatare l’assoluta capacità di accoglienza e l’aiuto che gli studenti coreani – in gruppo – hanno offerto ai nuovi arrivati. Questo è servito moltissimo ad accrescere la loro sicurezza ed ha costituito un’ulteriore spinta per progredire nello studio di una lingua – l’italiano – da loro considerata così difficile.