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Categorizzazione e aspettative dell’insegnante

Ci capita di parlare dei nostri studenti usando espressioni come “i giovani di oggi” o “gli americani” o “le casalinghe tedesche” o “i giapponesi” ecc., magari seguite dai presunti bisogni o dalle presunte incapacità di tale gruppo. Tali affermazioni ci avvicinano alla verità a ce ne allontanano? Per aiutare a rispondere propongo la lettura di un estratto da un libro[1] scritto da Marcel Postic, direttore del laboratorio di Psicologia dell’educazione e dell’UER (Unité Enseignement Recherche) di Psicologia, Sociologia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Haute Bretagne (Rennes II) in Francia.

Christopher Humphris

Categorizzazione e aspettative dell’insegnante

Marcel Postic

Il processo di categorizzazione dell’altro consiste nell’attribuir­gli determinate caratteristiche, sulla base dell’appartenenza a categorie socio-economiche, socioculturali, oppure etniche…, ecc. Si attribuisce all’altro un’identità sociale attraverso la percezione che si ha del gruppo sociale al quale egli appartiene. Max Pagès[2] preferisce che si sostituisca alla parola percezione, l’espressione comprensione dell’altro per indicare l’insieme dei processi cognitivi, non limitati alla percezione. Si tratta in effetti di una interpretazione dell’ambiente sociale, influenzata totalmente dal sistema dei valori della personalità. La categorizzazione corrisponde al bisogno che prova ogni individuo di strutturare il suo ambiente fisico e sociale per collocarsi e orientarsi in una determinata situazione, ma essa assume la forma di una valutazione con risonanze emozionali particolarmente intense. La caratterizzazione degli oggetti o avvenimenti sociali sfocia spesso in un processo di semplificazione dicotomica, buono o cattivo, oppure in stereotipi. Se ne hanno molti esempi nella relazione educativa. Alcuni ricercatori americani[3] hanno chiesto a diversi professori esperti di valutare dei brevi saggi che si è supposto fossero stati scritti da allievi del fifth grade, corrispondente in Francia al Corso medio di 20 anno. Gli stessi saggi sono stati associati, a caso, a quattro cognomi considerati favorevoli e attraenti, e ad altri quattro considerati sfavorevoli e non attraenti. Sebbene gli stessi saggi fossero associati a nomi differenti per professori differenti, quelli che erano firmati da nomi favorevoli hanno avuto una valutazione più elevata di quelli che erano firmati da nomi sfavorevoli, con un risultato più marcato per i nomi di ragazzi.

Si vede, attraverso questo esempio apparentemente anodino, poiché concerne soltanto un attributo della personalità, l’importanza che la categorizzazione dell’allievo da parte dell’insegnante può avere nello sviluppo della relazione educativa. Se certi elementi che costituiscono la rappresentazione che ha l’insegnante del suo allievo hanno un carattere di necessità, di rigidità, dovuto ad una categorizzazione unilaterale, immutabile, ogni rapporto di comunicazione, ogni collaborazione diventa impossibile. Quanti in­segnanti, anche quelli che fanno ostentazione di opinioni progressiste, categorizzano, senza esserne consapevoli, i fanciulli di certi ambienti popolari o i figli d’immigrati[4]. L’azione educativa richiede, da parte dell’educatore, ottimismo sulle risorse del fanciullo e una totale fiducia nelle sue possibilità di sviluppo.

Categorizzare un allievo, significa negargli in anticipo l’accesso ad una condizione diversa da quella in cui lo si è imprigionato, significa, per l’educatore, perdere volontariamente e definitivamente il contatto con lui, e condannarlo a rassegnarsi o a ribellarsi. Al contrario, comprendere le potenzialità del fanciullo, scoprire la forza che potrà svilupparsi in lui, sono gli unici comportamenti capaci di dimostrare che si ha fiducia in lui e nell’educazione e che si rispetta la sua libertà.

A proposito dei diversi studi riguardanti la valutazione nell’insegnamento, parecchi ricercatori dell’Università di Aix-Marseille hanno analizzato le distorsioni percettive che influiscono sul giudizio formulato dagli insegnanti sugli allievi. J.-J. Bonniol, J.-P. Caverni, G. Noizet (1972) hanno mostrato che lo status scolastico dell’allievo determina o una sopravalutazione dell’elaborato pro­dotto, se egli appartiene ad un corso di 6a di livello forte, o una sottovalutazione, se si trova in un corso di livello debole. La conoscenza che ha il valutatore dei risultati scolastici anteriori dell’allievo lo porta a cercare una continuità con le valutazioni successive, il che è talvolta di ostacolo alla possibilità di prendere in considerazione i cambiamenti effettivi dell’allievo (J.-P. Caverni, J.-M. Fabre, G. Noizet, 1975). L’organizzazione di una classe in “gruppi di livello” rischia di generare un rafforzamento dello status iniziale dell’allievo (J.-J. Bonniol, C. Henry, 1973).

Mentre la categorizzazione dell’allievo sulla base del suo status scolastico si manifesta globalmente, l’incidenza del suo status familiare o etnico assume aspetti differenziati, secondo le caratteristiche sociali o etniche dell’insegnante: gli elaborati sono sopravalutati dai giovani diplomati, quando sono attribuiti ad allievi socialmente svantaggiati, o dagli insegnanti che hanno un’origine etnica diversa da quella dell’allievo, forse per controbilanciare i pregiudizi sfavorevoli di cui il valutatore avrebbe consapevolezza (R. Amigues, J.-J. Bonniol, J.-P. Caverni, 1975).

I lavori più noti, relativi alla percezione dell’allievo da parte dell’insegnante, sono quelli di Robert Rosenthal e Lenore F. Ja­cobson (1971). Questi ricercatori hanno comunicato una categorizzazione degli allievi agli insegnanti di una scuola pubblica primaria frequentata da fanciulli di ambiente popolare, per mezzo di informazioni arbitrarie date a proposito del quoziente intellettuale. Preoccupandosi di non creare soltanto aspettative favore­voli, i ricercatori inducevano gli insegnanti a credere fin dall’inizio dell’anno scolastico che i loro allievi erano capaci di compiere notevoli progressi. Alla fine dell’anno, un’analisi dei risultati ottenuti in una prova standardizzata, che misura l’abilità verbale e la capacità di ragionamento, ha permesso di rilevare un aumento di quoziente intellettuale significativo per diversi allievi delle classi di Corso preparatorio e di Corso elementare di 1° anno. Quando si è chiesto agli insegnanti di descrivere il comportamento dei loro allievi nella classe, hanno tracciato dei ritratti di fanciulli vivaci, attratti dagli studi, dotati di autonomia intellettuale, diversi dagli allievi che essi avevano abitualmente. La categorizzazione proposta per le necessità dell’esperimento è stata evidentemente efficace.

  1. Carlier e H. Gotterdiener[5]hanno compiuto un’analisi critica di questi lavori ed hanno esaminato le altre ricerche svolte sulla scia di risultati dell’esperimento di Rosenthal e Jacobson. Esse ne hanno tratto la conclusione che l’effetto di Pigmalione non è dimostrato, poiché presuppone una modificazione di atteggiamento nel maestro. A loro avviso, un apporto di informazione così parziale come un voto ottenuto in un test non potrebbe modificare il giudizio di insegnanti che confrontano quotidianamente il comportamento osservabile dell’allievo con il comportamento desiderato.

Si pone un certo numero di questioni, oltre a quelle relative alla validità statistica del dispositivo sperimentale. Su quali tipi di risultati influisce l’aspettativa? Per Rosenthal e Jacobson, in­fluiva sui voti assegnati al test di capacità di ragionamento. Ma esistono risultati significativi per i voti scolastici? Qual è il modo in cui l’insegnante esprime i segni che rivelano la sua aspettativa? È esso di origine emozionale, affettiva, si manifesta attraverso la parola, o attraverso comportamenti non-verbali (movimenti, sguardi attenti, ecc.).

Ci sembrerebbe che l’effetto dell’aspettativa si ripercuota più sulla relazione maestro-scolaro che sul rendimento dell’allievo. L’aspettativa porta l’insegnante a seguire di più l’allievo, a occuparsi di lui, e quest’ultimo, sentendosi oggetto di attenzione, va nel senso dell’aspettativa dell’insegnante. Quando si osserva in maniera regolare i comportamenti dell’insegnante in classe, ci si accorge che, a seconda dell’obiettivo dell’intervento, essi sono determinati dallo status scolastico dell’allievo. Per esempio, quando pone una questione difficile, l’insegnante rivolge subito lo sguardo verso gli allievi più bravi; quando si muove in direzione degli allievi allo scopo di controllare il loro lavoro, va o verso gli al­lievi molto modesti, per esprimere dei giudizi sfavorevoli, o verso gli allievi più bravi, per stimolarli con apprezzamenti positivi.

Inoltre, nei rapporti di interazione, l’insegnante non cercherebbe forse se stesso? Attraverso l’aspettativa, definiamo noi stessi, nell’altro si cerca il riflesso della propria immagine. Questi aspetti narcisistici non sono, trascurabili nell’aspettativa. L’informazione esterna deve essere accettata, in virtù di un sistema di riferimento al quale si crede, e interiorizzata. Inoltre, l’insegnante prova la soddisfazione intellettuale di ottenere con un certo allievo dei risultati che corrispondono alle sue attese personali, risultati “oggettivi” che lo confermano nella sua convinzione di essere un “buon” professore, un professore il cui giudizio predittivo è sicuro, la cui azione è efficace. Al contrario, egli distoglie la sua attenzione dall’allievo che gli riflette un’immagine sfavorevole di se stesso.

Potrebbero essere esplorati diversi terreni di ricerca relativi alle aspettative dell’insegnante. Il primo concerne la variabile sociologica. Si tratterebbe di analizzare in modo differenziato le aspettative che gli insegnanti manifestano nei confronti degli al­lievi, in particolare verso quelli che appartengono ad ambienti socioculturali svantaggiati, in funzione della loro rappresentazione dei genitori[6] e della categorizzazione che essi fanno del loro status socioculturale, sulla base della professione, dei titoli di studio, del padre e della madre. A questo proposito, è noto che il linguaggio del fanciullo fa da criterio discriminante: fin dal momento in cui il fanciullo entra a scuola, l’insegnante gli conferisce uno status fondato sulla sua origine sociale, sulla qualità del vocabolario, e della sintassi che egli adotta[7].

Il linguaggio dei fanciulli e dei loro genitori provoca un’aspettativa che ora è sfavorevole, ora favorevole all’allievo, ma un’aspettativa favorevole rischia di arrecargli danno se i suoi risultati scolastici non corrispondono all’attesa dell’insegnante. Il fatto viene rilevato a proposito dei fanciulli collocati in ambienti caratterizzati da status culturale elevato; gli insegnanti si attendono dal fanciullo un rendimento elevato e non gli perdonano il fatto di non essere all’altezza degli obiettivi che gli hanno assegnato. Si è tanto più delusi quanto più elevata è l’aspettativa.

Lo stesso comportamento non è dunque richiesto a tutti gli allievi, esso varia in rapporto al concetto che si ha inizialmente di ciascuno di loro, e i risultati scolastici attesi dall’insegnante differiscono quantitativamente e qualitativamente. Ciò provoca tal­volta delle conseguenze sulle opinioni degli insegnanti a proposito dei metodi pedagogici da usare con certi fanciulli: conferma dei metodi tradizionali, in certi casi, fiducia negli approcci di compensazione fin dalla scuola materna, in altri.

Il secondo terreno di ricerca sarebbe psicosociologico. Agli al­lievi che entrano nella scuola vengono date delle “etichette”, secondo lo status della famiglia e secondo la definizione del rendimento scolastico richiesto in rapporto a tale status. M. Gilly (1976) fa riferimento ad un’indagine[8] nella quale si dimostra che, supponendo uguali quoziente intellettuale e riuscita scolastica, gli allievi inseriti in un ambiente caratterizzato da basso livello socio-economico sono presentati nel complesso meno favorevolmente degli allievi inseriti in ambienti socio-economici elevati; egli fa notare che la rappresentazione sfavorevole di cui sarebbero vittime gli allievi degli ambienti sociali svantaggiati è stata spesso menzionata nelle critiche rivolte alle pedagogie di compensazione, perché gli obiettivi e i programmi formulati corrispondono ad aspettative pessimistiche relative alle possibilità degli allievi ed anche perché, attraverso un processo di causalità circolare, essendo perpetuata la mediocrità dei risultati scolastici, la rappresentazione sfavorevole degli allievi ne risulta amplificata.

Tale etichetta viene trasmessa di classe in classe, di livello in livello di studi, e subisce l’effetto di rinforzo. Quando il fanciullo cambia classe, il maestro ne disegna in poche parole il ritratto al collega che lo prenderà sotto la propria responsabilità: “è un buon allievo come se ne ha ogni cinque anni”; “è un fanciullo che presenta dei problemi”; “è sensibile solo ai rapporti di forza”; “molto mediocre, non partecipa alle lezioni”; “brava allieva, capace di far bene le cose, ma i risultati sono scarsi”. Egli arriva perfino a precisare talvolta il comportamento che si deve avere con certi allievi.

Nel corso dei rapporti di interazione tra maestro e scolari agisce occultamente un meccanismo di conferma del giudizio iniziale e di reiterazione delle aspettative. Di qui deriva un atteggia­mento differenziato dell’insegnante nei confronti dei suoi allievi e un comportamento preferenziale, secondo la percezione che egli ha di ciascuno di essi.

È evidente, in queste condizioni, il pericolo che rappresenterebbe la creazione di un dossier scolastico, che seguisse l’interessato dall’inizio alla fine della sua scolarità e che contenesse l’insieme dei giudizi espressi su di lui. Si rischierebbe di imprigionarlo molto presto in una categorizzazione da cui non potrebbe più liberarsi. Abbiamo potuto constatare personalmente che de­gli allievi sui quali gravavano giudizi sfavorevoli, rafforzati per un effetto di gruppo tra gli insegnanti, non hanno potuto cominciare a lavorare e non hanno potuto ottenere dei buoni risultati se non quando hanno cambiato istituto, tenuto conto del fatto che i loro nuovi professori non hanno mai ricevuto il loro dossier precedente.

Piuttosto che raccogliere le informazioni per trovare la forma di assistenza che si potrebbe dare al fanciullo, il più delle volte l’insegnante si appoggia ad esse per consolidare, senza esserne consapevole, il suo ruolo selettivo all’interno dell’istituzione. Per ti­more di sbagliare, per rassicurarsi, egli tende allora verso un accordo con le valutazioni dei colleghi.

Pertanto, solo attraverso il riconoscimento di ciò che distingue ogni allievo dagli altri, attraverso un appello che gli viene rivolto in modo specifico – un appello a cominciare ad essere se stesso – può prendere avvio un’azione educativa in profondità, ma tutto dipende dalla concezione che l’insegnante è in grado di avere della propria funzione, tenuto conto dei condizionamenti istituzionali e sociologici.

 

[1] La relazione educativa. Oltre il rapporto maestro-scolaro, pubblicato nel1983 dall’Editore Armando Armando, Roma. [Titolo originale: La relation éducative, pubblicato nel 1979 dalle Presses Universitaires de France, Paris]

[2] Max Pagès, in Traité de psychologie expérimentale, sotto la direzione di P. Fraisse e J. Piaget, PUF, voI. 9, p. 107.

[3] H. Harari e J. V. McDavid, Teachers expectations and name stereotypes, pubblicato in “Journal of Educational Psychology”, 1973, 65, pp. 222-225

[4] Numerose ricerche americane trattano degli aspetti razziali. Per esem­pio, P. C. Rubovits e M. L. Maehr, nel 1973 (Pygmalion: Black and White, “Journal of Personality and Social Psychology”. 25, pp. 210-218) hanno comunicato a 26 donne, allieve-professoresse bianche, prima che entrassero in un rapporto di interazione con gli alunni, una descrizione di coloro che erano considerati come dotati o non dotati. In realtà, tutte le informazioni erano date a caso. Gli allievi negri sono stati meno considerati, più discussi dei bianchi. Gli allievi negri “dotati” hanno anche ricevuto trattamento meno preferenziale dei negri “non dotati”.

[5] Michèle Carlier e Hana Gotterdiener, Effet de l’expérimentateur, effet du maitre, réalité ou illusion, “Enfance”, n. 2, maggio-giugno 1975, pp 219-241.

[6] Un’analisi delle valutazioni espresse dall’insegnante sull’allievo permetterebbe di affrontare questo problema. Cfr. l’analisi delle valutazioni del maestro sullo scolaro alla fine del 1° e del 2° anno della scuola primaria in W. Brandis e B. Bernstein, Selection and control. Teachers of Children in the lnfant School, Routledge & Kegan Paul, London 1974.

[7] C. R. Seligman, G. R. Tucker e W. E. Lambert, The effects of speech style and other attributes on Teacher’s attitudes toward Pupils, “Language in Society” 1 (1972, pp. 131-142) dimostrano che le valutazioni espresse dagli insegnanti sulla qualità della composizione del disegno di un fanciullo sono influenzate da una registrazione delle sue spiegazioni orali. Cfr. anche F. Williams, G. L. Whitehead, L. Miller, Relations between language attitude and Teacher expectancy, “American Educatianal Research Journal”, 9, 1972, pp. 263.277. Si può rilevare, molto empiricamente, il ruolo attribuito al linguaggio sulla valutazione degli allievi, attraverso affermazioni del tipo: “Essi non comprendono ciò che voi dite… Le parole dei libri non hanno alcun significato per questi fanciulli; e ancor meno si può parlare ai loro genitori, poiché anch’essi sono insensibili alle scorrettezze espressive”.

[8] C. K. Miller, J. A. McLaughlin, J. Haddan, N. M. Chansky, Socioeconomic class and Teacher bias, “Psychological Reports”, 1968, 23 (3, Pt 1), 806.