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Un salto in libreria I “Come parlano gli italiani” a cura di Tullio De Mauro

Apro questa mia collaborazione con l’auspicio che “Un salto in libreria” possa diventare, con il lavoro di tutti, una rubrica di frequente presentazione di un libro di particolare interesse didattico-linguistico. Il primo lavoro di cui voglio occuparmi è un libro pubblicato nell’aprile del 1994 da La Nuova Italia Editrice di Scandicci (Firenze). Titolo dell’opera, curata da Tullio De Mauro, è Come parlano gli italiani. Si tratta, in sostanza, della raccolta dei contributi di studiosi italiani e stranieri, prodotti durante due convegni svoltisi l’uno a Roma, nei locali della Sapienza il 2 aprile 1993, l’altro all’Università di Pavia il 13 maggio dello stesso anno. Oggetto dei due incontri era la presentazione del Lip, cioè il “Lessico di frequenza dell’italiano parlato”. Il tutto sotto l’egida della fondazione IBM, che ha seguito i lavori di elaborazione del Lip fin dall’inizio e che tuttora sponsorizza la ricerca scientifica nel campo della linguistica. A proposito del Lip, voglio dire che la sua uscita è di basilare importanza, perché esso viene estratto da un corpus, che a sua volta, è l’insieme dei testi dell’italiano parlato. Come ci ricorda Anna Giacalone Ramat a pagina 46,
“… d’un colpo l’italiano colma il ritardo rispetto ad altre lingue europee, in particolare, il tedesco, il francese, l’inglese, lingue per le quali, da qualche anno, disponiamo sia di corpora di parlato, sia di liste di frequenza”. Che vi sia un corpus è decisivo per una lingua, in quanto da esso si può partire poi per tentare tanti altri tipi di ricerca come appunto sulle liste di frequenza sopra ricordate, ma anche sulla fonologia, sulla sintassi o sull’organizzazione delle regole del parlato, cioè di una grammatica del comportamento di chi parla una lingua e via dicendo. Insomma, il corpus non è solo un punto di riferimento, ma anche un moltiplicatore di opportunità di ricerca nel campo del parlato.

Tra i venticinque contributi (sì, venticinque!), di cui si arricchisce Come parlano gli italiani, ne ho scelti solo alcuni per motivi di spazio. Va da sé che non è una selezione meritocratica, non aspiro a tanto, ma solo di umana curiosità. Mi riservo comunque di elencare tutti i contributi alla fine di questo articolo.

Partirei senz’altro da Vincenzo Lo Cascio e dal suo intervento titolato “Ricchezza e povertà dell’italiano parlato in Italia e all’estero”. Si tratta, in sostanza, di un confronto tra l’italiano parlato da italiani che vivono nella Penisola e quello degli italiani residenti all’estero. Analizzando velocemente il Lip, come nota Lo Cascio, si vede che l’organizzazione discorsiva e la struttura sintattica dell’italiano parlato si differenziano abbastanza da quelle dell’italiano scritto. L’italiano parlato dagli italiani, come del resto tutte le altre lingue, appare povero, praticamente quasi identico, come bagaglio lessicale, al livello soglia dell’italiano insegnato agli stranieri, ove per livello soglia si intende la competenza lessicale bastevole per superare onorevolmente le vicende comunicative più frequenti che la vita presenta loro.

La causa della povertà dell’italiano parlato da italiani viene individuata in un “processo di desemantizzazione” dovuto al passaggio dell’italiano da lingua in special modo scritta a lingua veramente e diffusamente parlata. Questa desemantizzazione fa sì che il lessico di un determinato settore venga dominato dall’uso di certe parole che si svuotano di ogni propria peculiarità o specificità per assumere un ruolo di iperonimi; questi fanno un po’ la parte del leone a detrimento dei loro sinonimi, che potrebbero invece essere più riccamente e diffusamente utilizzati. Sempre legato alla desemantizzazione del lessico è il fenomeno della scarsità dei verbi performativi e modali. Invece di questi ultimi si usano, ad esempio, gli avverbi, morfologicamente più semplici ed anche molto utili, una volta desemantizzati, ad assolvere alla funzione di connettivi discorsivi.

Osservando l’indice di frequenza dei connettivi temporali, argomentativi, discorsivi, ecc., Lo Cascio perviene alla conclusione che le funzioni degli enunciati sono sempre meno esplicite. Non solo. Aggiunge anche che, pian piano, anche nella scrittura argomentativa si nota una certa tendenza di questa ad oralizzarsi.

Praticamente, conclude Lo Cascio, quando lo scritto assume le caratteristiche del parlato, aumenta la frequenza delle strutturazioni paratattiche del testo e, di conseguenza, si riducono i margini d’uso dell’ipotassi. Un esempio di ipotassi può essere il seguente:

a) Non t’amo più, perché sono stufa delle tue prepotenze.

La stessa frase si può organizzare paratatticamente eliminando la parola perché. Si otterrà così:

b) Non t’amo più, sono stufa delle tue prepotenze.

La conclusione del discorso di Lo Cascio è che l’italiano parlato tende a semplificarsi, a diventare più snello, proprio grazie all’assunzione di una certa linearità discorsiva, dovuta soprattutto alla desemantizzazione dei connettivi e, quindi, alla polivalenza degli stessi, all’uso degli avverbi invece dei verbi modali e, infine, alla preferenza per ogni riferimento di tipo deittico.

E mi fermerei qui per quanto riguarda Lo Cascio, anche se sarebbe bello e interessante inoltrarsi nella seconda parte del suo discorso in cui viene affrontato il tema dell’italiano parlato da italiani all’estero.

Un altro apporto di grande interesse è, a mio avviso, quello di Christophe Schwarze, il quale, nell’intervento intitolato “Struttura grammaticale e uso del lessico” ci offre, fra l’altro, un modello di lessico diviso in due componenti: il vocabolario memorizzato e quello non memorizzato.

Il primo comprende:
a) le parole basiche come, ad esempio, “albero”, “partire”, “lungo”;
b) le parole derivate come, ad esempio, “albereto”, “partenza”, “allungare”;
c) le forme flessive irregolari come, ad esempio, “uomini”, “è”;
d) i formativi lessicali come, ad esempio, i suffissi “-ete”; “-enza”;
e) i formativi grammaticali affissi come, ad esempio, il suffisso verbale “-iamo”;
f) i formativi grammaticali non affissi come, ad esempio, “lo”, “ci”, “ne”.

Il secondo, cioè il vocabolario non memorizzato, comprende:
a) le parole virtuali come, ad esempio, “betulleto”, “disprobabilizzazione”, “toccazione”;
b) le forme flessive regolari come, ad esempio, “strade”, “finisce”.

C. Schwarze parte da queste distinzioni prettamente strutturali per passare poi a configurare relazioni dinamiche e condizioni quantitative nell’ambito lessicale, parlandoci di opacizzazioneinnovazionestabilizzazione delle forme lessicali. Quanto detto finora, insomma, costituisce un modello del lessico, fotografa una lingua non solo nella sua staticità strutturale, ma, anche nel suo divenire, prevedendone con sapienza le linee di sviluppo. Non so se l’espressione è troppo azzardata, ma il discorso di Schwarze potrebbe configurarsi, secondo me, quasi come una “biologia” della lingua. Potrei concludere dicendo che l’importanza di questo intervento risiede proprio nel fatto di aver offerto un modello del lessico. Questo modello è formato dalla struttura morfologica del lessico più la sua dinamica.

Prima di concludere il suo contributo, Schwarze ci offre un significativo spunto di riflessione laddove parla del nucleo centrale del lessico. Si intravede un certo scarto tra il suo modello che lo individua nelle parole basiche e il modello offerto invece dagli autori del Lip, che individuano il nucleo centrale del lessico in un gruppo di parole statisticamente definito. Schwarze si chiede a questo punto: “In quale misura questo nucleo centrale corrisponde ad un nucleo definito sulla base della struttura interna e la funzione delle parole?”. Questo quesito gli fa immaginare un’ipotesi dove si possa parlare di equivalenza fra nucleo grammaticale e nucleo quantitativo del lessico, ove il primo è formato dalle parole basiche più i formativi grammaticali non affissi, il secondo invece sarebbe formato solo dalle parole molto frequenti. Non mi sembra, però di aver rintracciato risposte certe a questa ipotesi, né mi pare che Schwarze intendesse darne.

Particolarmente interessante è, secondo me, il discorso di Alberto A. Sobrero, il quale con Gli stili del parlato ci accompagna e ci invita ad esplorare due aeree solo apparentemente marginali rispetto al parlato contemporaneo. Nella prima si collocano tutti quegli elementi che costituiscono il tessuto dei linguaggi non verbali, con i quali vengono accompagnati i messaggi parlati. Nella seconda, che lui definisce “di sfondo”, si colloca l’ambiente, ovvero “l’insieme delle circostanze in cui, di volta in volta, ci troviamo a parlare”. La cinesica, la prossemica, i ritmi, le cadenze, le intonazioni, ecc., tutto è in grande movimento. Rispetto al passato si sta andando verso una certa moderazione, una certa normalizzazione, una sorta di omologazione nazionale e ciò succede quasi inconsapevolmente, sotto l’azione subliminale soprattutto di radio e televisione. Anche la scolarità diffusa, ancorché di modesta qualità, ha il suo bravo peso in questo processo di attenuazione di tutto ciò che, nel passato, era più marcatamente localistico. A questi elementi Sobrero aggiunge, come linguaggio parlato, anche quello della moda, dell’oggettistica personale, degli accessori come macchina, moto, occhiali, ecc. Tutto serve a trasmettere un “pezzo di significato”. Non solo. Il peso dei significati tra linguaggio verbale e non verbale si ridistribuisce riequilibrandosi spesso a vantaggio di quest’ultimo. Ogni cosa, in ultima analisi, ha una forte spinta condizionante nelle scelte linguistiche di chi parla.

Passando poi alla situazione comunicativa o “zona di sfondo” Sobrero afferma che anche qui si sono avute profonde mutazioni. Sono cambiati, cioè, i luoghi, l’architettura, la luce, i colori ambientali, le condizioni socio-politiche generali e individuali. Di conseguenza è cambiato anche il modo di parlare: si è semplificato, ad esempio, ed è diventato più sciolto il cerimoniale dei saluti, al di sotto dei trentacinque anni spesso ci si dà del tu. I luoghi pubblici che molto tempo fa erano veri e propri contenitori di vicende comunicative “calde” oggi svolgono una funzione inversa, refrigerante delle relazioni, quando non le portano all’estremo dell’indifferenza. Penso ai locali pubblici, ai negozi, alle varie botteghe artigianali, tipo il barbiere, una volta vere fucine di socializzazione, oggi non più. Ad eccezione, s’intende, di qualche sperduta località di campagna.

Per gli stessi motivi esposti anche lo scritto si è molto trasformato, nel senso che parlato e scritto si sono molto avvicinati fra loro condizionandosi vicendevolmente. Ma torniamo alla lingua parlata: essa è figlia del tempo e della storia nel suo divenire, con tutte le trasformazioni sociali che ciò comporta. è anche, però, più ricca di potenzialità espressive rispetto al passato, proprio perché sganciata finalmente da schemi rigidi di vago sapore letterario. Non una lingua “di plastica”, ma una lingua “plastica”, agile, scattante, dinamica. Questa è la conclusione di Sobrero, altra da quanto affermato in altra parte del libro da Ornella Castellani Pollidori. Sobrero dà del termine “plastica” una connotazione positiva: una lingua plastica ha, cioè, “consistenza compatta ma non rigida e può essere quindi modellata e mantenere la nuova forma assunta”, come da citazione del dizionario di Dardano. Una lingua agile, allora, moderna, espressivamente ricca e in linea con i tempi.

Ma ormai ho messo i lettori in curiosità con il termine “plastica”. Perciò concludo questa presentazione di Come parlano gli italiani proprio con il contributo di Ornella Castellani Pollidori intitolato “La plastica nel parlato”. Con questo titolo un po’ ad effetto si vuole stigmatizzare l’uso insistito di certe espressioni, quasi la voracità di queste che, a loro volta, tendono a distruggere e poi sostituire tutte le possibili soluzioni alternative. Si pensi per un attimo alla parola “scenario”. Essa viene usata così spesso ed anche a sproposito, da togliere spazio e respiro ad altre soluzioni più nobili e pertinenti come, non so, “scena”, “panorama”, “quadro”, “prospettiva”, “progetto”, “situazione”, “piano”, “ipotesi” e chi più ne ha più ne metta. Ma non è tanto questo che mi colpito leggendo il contributo della Castellani Pollidori, quanto il suo modo di leggere il Lip. Leggo testualmente a pagina 9 e 10: “Da dati statistici che il Lip ci mette ora a disposizione, mi sembra risulti sostanzialmente confermata l’impressione che l’italiano d’oggi, se finalmente è arrivato davvero a risuonare nei più riposti angoli della nostra penisola, col servire ad una massa sempre più ampia di utenti, si sia anche fatalmente banalizzato e ristretto nelle sue potenzialità lessicali e grammaticali, tendendo insomma a divenire un italiano ‘basico’”. Credo che quest’ultima parola sia stata espressa con intendimenti negativi, volendo con essa significare terra-terra.

Certo, la posizione della Castellani Pollidori è legittima e rispettabile ma anche un po’ discutibile, a mio avviso, specialmente se penso a quanto lavoro argomentativo abbia speso Sobrero nel suo intervento per dimostrare l’opposto; cioè che il parlato moderno ha un potenziale espressivo ricco e multiforme, che quaranta o cinquanta anni fa era follia sperare. Non una lingua povera e banale, quindi, come tenderebbe a rappresentare il parlato moderno l’autrice de “La lingua di plastica” ma una lingua scintillante, agile, rappresentativa, significativa, in una parola ricca. Personalmente Sobrero mi convince di più, in quanto si pone con più ottimismo di fronte al fenomeno “lingua”.

Però, lungi dal voler condizionare chi legge con questo mio breve scritto, consiglio volentieri la lettura di questo libro, veramente interessante in ogni sua parte, anche perché ognuno possa farsene un’idea propria.

Elenco dei contributi

Giorgio Tecce, “Prefazione”
Tullio De Mauro, “Premessa: il LIP”
Giovanni Nencioni, “Introduzione”
Franco Lo Piparo, “Quanti italiani parlano italiano?”
Ornella Castellani Pollidori, “La plastica nel parlato”
Gaetano Berruto, “Come si parlerà domani: italiano e dialetto”
Ugo Vignuzzi, “Il dialetto perduto e ritrovato”
Alberto A. Sobrero, “Gli stili del parlato”
Anna Giacalone Ramat, “Il LIP e l’italiano fuori d’Italia”
Vincenzo Lo Cascio, “Ricchezza e povertà dell’italiano parlato in Italia e all’estero”
Christophe Schwarze, “Struttura grammaticale e uso del lessico”
Harro Stammerjohann, “L’italiano L2: dalla descrizione alla didattica”
Massimo Vedovelli, “L’italiano parlato dagli italiani e l’italiano appreso dai non italiani”
Federico Albano Leoni, “L’analisi fonica del parlato”
Rosanna Sornicola, “Quattro dimensioni nello studio del parlato”
Miriam Voghera, “Promemoria per una teoria del linguaggio”
Emanuele Banfi, “‘Linguaggio dei giovani’, ‘linguaggio giovanile’ e ‘italiano dei giovani'”
Paola Benincà, “Che cosa ci può dire l’italiano regionale”
Arrigo Castellani, “Ascoltando i Fiorentini”
Maurizio Dardano, “Testi misti”
Daniele Gambarara, “Il passato remoto nell’italiano parlato”
Stefano Gensini, “Dal LIP alla didattica del parlato”
Peter Koch, “Prime esperienze con i corpora del LIP”
Federico Mancini, Miriam Voghera, “Lunghezza, tipi di sillabe e accento in italiano”
Lorenzo Renzi, “Egli – lui – il -lo”
Franceso Sabatini, “Il parlato e la storia moderna dell’italiano”
Luca Serianni, “Il LIP e la formazione delle parole”

Il testo

De Mauro, T., (a cura di), 1994 Come parlano gli italiani, Firenze, La Nuova Italia Editrice.