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Interlingua – parte seconda

Ma tutto questo ci porta da qualche parte?

Con l’avanzare degli anni ’70 le ricerche sull’interlingua si sono moltiplicate. Hatch (1980) rileva che gran parte delle ricerche non mostrano una coerenza negli errori di uno studente, e quindi egli mette in dubbio la fondatezza della tesi di Corder che l’interlingua sia sistematica. La maggior parte degli insegnanti, invece, direbbe che gli errori sono coerenti (se non fosse così, impazziremmo tutti!), e io credo che gli insegnanti sono meglio informati dei ricercatori. Questo mi riconduce alla mia terza difficoltà riguardo al lavoro di Selinker (1972). Quasi tutti i ricercatori utilizzano metodi di valutazione del tipo “ad elementi discreti” oppure, nel migliore dei casi, un metodo tipo colloquio in cui sono presenti moltissimi fattori non pertinenti, come ad esempio il pensare da parte dello studente: “Vado bene?”, “Che cosa vorrebbe l’esaminatore che io dicessi?”, “Sto facendo una brutta figura?”, “Non mi piace questo esaminatore, e quindi non collaboro”, ecc. Certamente, questo tipo di situazione non può illuminarci gran che.

Tarone (1979) prende in mano questo problema esaminando sistematicamente ognuno degli assiomi di Labov riguardo al paradosso dell’osservatore. In particolare, differenti tipi di compiti sperimentali genereranno differenti stili di linguaggio. Registrare dati fonologici, morfologici e sintattici senza classificarli in base alla situazione produrrà risultati contraddittori. Il grado di attenzione prestata alla lingua da parte del parlante può variare a seconda dei suoi scopi, e modificherà il suo stile. Krashen (1981) dice che la variazione è binaria: controllo o non controllo; mentre Labov, più plausibilmente secondo me, dice che il grado di attenzione può essere tracciato su un continuum. Egli chiama lo stile meno controllato “lo stile vernacolo”, ed è questo lo stile più sistematico. Il “paradosso dell’osservatore” è che i dati di qualità migliore (il microfono vicino alla bocca, ecc.) sembra si possano ottenere soltanto in una situazione che produce uno stile all’altra estremità del continuum.

Tarone riferisce varie tecniche sviluppate da Labov per incoraggiare lo spostamento dello stile verso il vernacolo e raccomanda ai ricercatori di utilizzarle:

Soltanto in base a studi longitudinali individuali dell’interlingua sarà dato ai ricercatori di capire la vera natura sistematica dell’interlinea. (1979)

Ora sì!

Vigil e Oller (1976) innalzano, come spesso fanno, il livello del dibattito rilevando che, qualunque sia l’aspetto linguistico sotto esame (in questo caso, la fossilizzazione), non si possono ignorare i fattori pragmatici interattivi. La comunicazione non ha soltanto una funzione cognitiva, consistente nel dare e ricevere informazioni cognitive. Contemporaneamente, la comunicazione ha una funzione espressiva: la motivazione alla interazione umana proviene anche da

il bisogno di definire il proprio io, e di trovare accettazione nell’esprimere questo io in rapporto con altri per cui si ha stima. La lingua, quindi, serve anche come base per la definizione degli io altrui e per il rafforzamento reciproco di identità sia individuali che collettive. (1976, p. 283)

Vigil e Oller sviluppano un modello plausibile per spiegare sia le interlingue fossilizzate che quelle in via di sviluppo. La chiave è il feed-back che riceve il discente. Il feed-back opera su due livelli simultanei: il cognitivo e l’affettivo. Se l’interlocutore risponde in modo positivo sul livello affettivo, ciò incoraggia a proseguire nella comunicazione. Se, però, la risposta è positiva anche sul livello cognitivo, anche quando il discente sbaglia frequentemente, questi sbagli possono fossilizzarsi. Le condizioni per uno sviluppo continuo e rapido dell’interlingua sono presenti solo quando l’interlocutore è cordiale e interessato ma contemporaneamente non esita a dire “Non so che intendi”, ecc. Questa tesi, che mi sembra piuttosto plausibile (anche se un po’ troppo semplificata), ha delle indicazioni profonde per l’insegnamento.

Allo stesso tempo considerazioni fatte da Vigil e Oller costituiscono un avvertimento per i ricercatori: se essi vogliono dati affidabili, non possono continuare a trascurare il fatto che un colloquio, o altro, è sempre una vicenda comunicativa, e, in quanto tale, entrambe le funzioni, e quella cognitiva e quella affettiva, sono in gioco. Inoltre, il parlante, (“la fonte”) prende delle decisioni, osserva e sperimenta. Per esempio:

La fonte può decidere di inviare un messaggio, oppure no, e se lo fa, può decidere che cos’è che vuole inviare. (op. cit., p. 289) La fonte non solo crea il messaggio e lo invia, ma crea un costrutto ipotetico circa la probabile reazione dell’interlocutore nei confronti del messaggio. (op. cit., p. 290)

Se i ricercatori cominciano a vedere i loro intervistati in questi termini, dovranno buttare via la maggior parte del lavoro svolto, e ricominciare. Se non lo fanno, gli insegnanti di lingua avrebbero ragione a pensare che gli studi sull’interlingua erano solo l’ennesimo esempio di accademia che non fa che perpetuare se stessa.

“Una rentrée”

Non volendo essere superato da Vigil e Oller, Selinkerquesta volta insieme a Lamendella (1979), produce un modello molto più soddisfacente rispetto a quello di sette anni prima. Essi riconoscono esplicitamente l’importanza del contributo di Vigil e Oller, però li criticano per aver trascurato certi fattori. Studenti diversi hanno diversi modelli di aspirazioni e quindi hanno bisogno di diversi livelli di feed-back negativo prima di sentirsi soddisfatti. Questi livelli cambiano a seconda delle circostanze. Comunque sia, secondo me, l’importante è che la dimensione pragmatica venga accettata, i bisogni interattivi vengano riconosciuti, e il campo affettivo venga preso in considerazione (anche se Selinker e Lamendella generalmente lo mettono fra parentesi). Abbiamo finalmente un modello di sviluppo con livelli di stabilizzazione (generale e relativa) che variano e il concetto di destabilizzazione pienamente riconosciuto. Il termine “fossilizzazione” (e anche questa può essere differenziata, cioè può riguardare soltanto alcuni sottosistemi) viene spinto avanti fino al caso più estremo:

Secondo noi, la conclusione che un certo discente abbia realmente fossilizzato potrebbe esser tratta solo nel caso in cui la cessazione di ulteriore apprendimento linguistico persistesse, malgrado la capacità, I’opportunità e la motivazione di imparare la lingua bersaglio e di acculturarsi nella società bersaglio. (1979, p. 374)

Verso una conclusione

Questa relazione ha toccato alcuni momenti, nell’arco di più di un decennio, del concetto di interlingua. Come troppo spesso accade, gran parte della ricerca è stata uno spreco di tempo per quanto riguarda la professione dell’insegnamento. Questo perché ha utilizzato, come dati, enunciati di discenti non prodotti nella comunicazione normale. Avevamo, quindi, una situazione in cui i cosiddetti esperti affermavano delle cose che contraddicevano ciò che gli insegnanti, sensibili ed abituati a chiacchierare con studenti in ambienti informali, sapevano. Inoltre gli insegnanti, bravi, per definizione, sono interessati ad aiutare i loro studenti a svilupparsi: devono credere che ogni studente è in grado di progredire. Il cattivo insegnamento, invece, è caratterizzato da profezie negative autorealizzantisi: l’ossessione per la fossilizzazione presente in molti dei primi studi si sarebbe potuta congiungere al test del quoziente d’intelligenza nella promozione del cattivo insegnamento, se fosse entrata nelle aule degli insegnanti. “Non puoi fare niente con lui: è fossilizzato” si sarebbe congiunto all’affermazione “Ha un quoziente d’intelligenza basso” come scusa per smettere di provare.

La penultima parola a Corder

Corder, il quale mi sembra esemplare per quanto riguarda l’aderenza ai criterio che la ricerca accademica trovi la sua giustificazione nella promozione di un insegnamento buono, rileva che troppi linguisti vedono l’interlingua come statica anziché dinamica (1978, p. 73). L’apprendimento dovrebbe essere concepito come

un processo di complessificazione progressiva dell’interlingua. (op. cit., p. 75)Il discente… è alle prese con lo sviluppo di una rappresentazione interna della natura dei dati linguistici e di come essi vengono utilizzati… Risultato della sua interazione con parlanti della lingua bersaglio, egli è alle prese con il compito di creare per se stesso una grammatica interna della lingua sempre più adeguata. Egli fa ciò tramite i due processi di base dell’accomodamento (adattare la sua interlingua in un modo che aderisca ai fatti percepiti della lingua) e dell’assimilazione (tentare di integrare i fatti appena percepiti nello stato attuale della sua grammatica interlinguistica). (op. cit., p. 79)

Il fatto che Corder senta la necessità di argomentare ciò che Piaget osservava circa l’apprendimento più di 40 anni fa, è, di per sé, un’indicazione dell’estremo isolamento della glottodidattica fino a tempi molto recenti. Lo scritto estremamente importante di Corder suggerisce ciò che fa lo studente quando impara una lingua: e nel far ciò Corder dimostra che il concetto di interlingua intesa in questi termini è uno strumento prezioso fra le mani degli insegnanti di lingue.

Per Corder il discente è coinvolto in un processo doppio: egli sta al tempo stesso ristrutturando sulla base della sua propria lingua, e rendendo via via più complesso un codice semplificato:

Nell’apprendere una seconda lingua, forse non partiamo da zero, ma neppure partiamo dal codice della nostra madrelingua nella sua intera complessità. Il nostro punto di partenza può essere un registro semplice della nostra madrelingua, un sistema linguistico di base, un sistema semantico-sintattico naturale dal quale ogni lingua si sviluppa… il quale… può essere… il prodotto dei processi cognitivi e percettivi innati della mente umana. Si potrebbe, comunque, aggiungere la seguente qualificazione: quanto si scende lungo la scala della semplificazione prima di iniziare a costruire di nuovo (a “ricomplessificare”) dipenderà da quanto la madrelingua dista dalla lingua bersaglio… In altri termini, l’economia dello sforzo suggerisce che non dobbiamo sempre necessariamente togliere tutto fino all’osso, ma solo fino al punto in cui le due lingue cominciano a divergere strutturalmente. (op. cit., p. 90)

L’intuizione di Corder mi sembra sensata e le mie osservazioni informali di studenti la confermano. L’implicazione più evidente per l’insegnamento è che non dovremmo prestare attenzione al fatto che richiede un ritorno al controllo delle forme linguistiche cui viene esposto lo studente. Altrimenti egli non sarà in grado di percepire la distanza corretta fra la L2 e la L1, e quindi non sarà in grado di costruire in modo economico il suo sistema semplificato che poi gli servirà come punto di partenza per la complessificazione progressiva.

Nessuno è perfetto

Trovo, nonostante tutto, due punti deboli nella tesi di Corder. Anzitutto, egli dice che “è tentando di comunicare con parlanti della lingua bersaglio che il discente impara” (op. cit., p. 80, corsivo mio). E secondo, egli considera che strategie di semplificazione adoperate dalla madre, ecc., sono essenziali perché il bambino impari e quindi gli insegnanti dovrebbero fare altrettanto (cfr., op. cit., p. 83).

A mio avviso, è gratuito attribuire al fatto che la madre semplifica la propria lingua quando parla con il bambino lo status di causa dell’apprendimento linguistico del bambino. È molto più plausibile supporre che il fatto che la madre semplifica il proprio codice quando parla con il bambino sia la conseguenza del ruolo sociale imposto alla maggioranza delle madri. In questa società (non in tutte le società) ci si aspetta che la madre smetta di lavorare e si isoli da altri partner comunicativi per la maggior parte della giornata, per mesi di seguito. Eppure ella ha bisogno di comunicare. Date queste condizioni, sembra perfettamente naturale che la madre farà tutto il necessario per trasformare il bambino in un partner comunicativo. Madri diverse seguono la norma in gradi estremamente diversi, eppure non risulta che la lingua venga acquisita differenzialmente su questa base. Wexler e Culicover sostengono appunto che, a parte il fatto che non esiste alcuna giustificazione teorica per la tesi che un’immissione semplificata agevoli l’apprendimento linguistico,

la migliore evidenza empirica mostra che, comunque sia, I’immissione nei bambini generalmente non possiede queste caratteristiche speciali [semplificate]. (1980, p. 66).

Sulla base di osservazioni personali su studenti che hanno spesso partecipato a compiti di gruppo e alla drammatizzazione in cui in entrambi i casi la L1 è vietata, riscriverei la prima affermazione di Corder nel seguente modo:

“È tentando di comunicare con altri che il discente impara”. E, per quanto riguarda il secondo punto, una costante alimentazione a base di materiale autentico darà allo studente tutte le informazioni di cui egli ha bisogno sia per percepire la distanza fra la L1 e L2, in modo da poter stabilire il punto di partenza più economico, sia per ricavarne un programma di ricomplessificazione.

Perché preoccuparsi?

Se non vengono riconosciute queste due debolezze potremmo avere, da una parte, insegnanti non nativi (i quali sono, tutto sommato, la maggioranza) che si sentono inadeguati, e, dall’altra parte, un’etica professionale irrealistica che pretende che gli insegnanti di lingua passino la maggior parte del tempo a parlare con gli studenti anziché fornirgli materiale autentico e permettergli di risolvere problemi, ecc. Una tale politica sarebbe negativa per gli studenti perché accrescerebbe la loro dipendenza dell’insegnante e sarebbe negativa per gli insegnanti perché li svuoterebbe emotivamente e il parlare costantemente in un codice semplificato impoverirebbe la loro lingua.

Per sviluppare correttamente gli ultimi punti avrei bisogno di scrivere un’altra relazione.

(fine)

Bibliografia

Corder, S.P. 1967 “The Significance of Learners’ Errors” in IRAL, n° 5, p. 161-170.

Corder, S.P. 1971 “Idiosyncratic Dialects and Error Analysis” in IRAL, n° 9, p. 147-160.

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Hammarberg, B. 1974 “The Insufficiency of Error Analisys” in IRAL, n° 12, p. 185-192.

Hatch, E. 1978 “Acquisition of Syntax in a Second Language” in Richards, J.C. 1978, p. 34-69.

Krashen, S. 1981 Second Language Acquisition and Second Language Learning, Pergamon Press.

Nemser, W. 1971 “Approximative Systems of Foreign Language Learners” in IRAL, n° 9, p. 115-123.

Richards, J.C. (a cura di) 1978 Understanding Second and Foreign Language Learning: Issues and Approaches.

Selinker, L. 1972 “Interlanguage”, IRAL, n° 10, p. 209-231.

Selinker, L., Lamendella, J.T. 1979 “The Role of Extrinsic Feedback in Interlanguage Fossilization. A Discussion of ‘Rule Fossilization: a Tentative Model'” in Language Learning, n°29, p. 363-375.

Tarone, E. 1979 “Interlanguage as Chameleon” in Language Learning, n° 29, p. 181 -191.

Vigil, N.A., Oller, J.W. 1976 “Rule Fossilization: A Tentative Model”, Language Learning, n° 26, p. 281-295.

Wexler, K., Culicover, P.W. 1980 Formal Principles of Language Acquisition.