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Scambio fra un exformando Francesco Diodato e il formatore Christopher Humphris

Seguono alcuni estratti da un intenso scambio epistolare (per facilitare la lettura ho raggruppato gli interventi sotto dei titoli).

F.D. Ciao, Christopher.
Come va? Ormai è passato circa un mese dalla fine del corso e mi manca molto. L’atmosfera era molto bella e il corso è stato molto utile. Sono cresciuto professionalmente, ho acquistato sicurezza, ho conosciuto delle persone fantastiche e, ora, sto mettendo in pratica tutto quello che ho imparato. Dopo il corso di formazione tutto mi sembra più chiaro, è stata come una specie di illuminazione, mi ha aperto la mente.
(…)
Per cercare di migliorare (non si finisce mai di imparare!), da quando sono tornato in Giappone mi sono messo a rileggere vecchi articoli del Bollettino Dilit e alcuni atti dei seminari, ne ho letti di nuovi e, inoltre, sto analizzando la struttura di “Volare”. In realtà, proprio da questi ulteriori approfondimenti, sono nati dentro di me degli spunti di riflessione, che ho messo per iscritto per riorganizzare le idee (altra cosa che ho imparato alla Dilit). (…) magari potrai dirmi anche la tua.

Ascolto autentico ecc

In “Volare” ci sono attività chiamate “Ascolto attivo”, “Lettura con quesito”, “Lettura con quiz” e via dicendo. Prima di notarle mi ero imbattuto nella lettura di un articolo del Bollettino Dilit del 1991, quindi precedente a “Volare””, intitolato “Ascolto autentico: basta con i fogli lavoro”. Anche se si riferisce all’Ascolto autentico, credo che le osservazioni fatte, che condivido, siano valide anche per la Lettura autentica. Quello che sto cercando di spiegarmi è come mai alla fine in “Volare”, nonostante le considerazioni fatte nell’articolo, si sia optato per attività in cui è l’autore a guidare l’ascolto e la lettura, come si fa con i fogli lavoro. Le spiegazioni che mi sono dato sono diverse:

a. in “Volare” i quesiti sono spesso generici e soggettivi (per esempio, “scegliere la foto che secondo te rappresenta meglio il contenuto dell’articolo”, “dà un titolo all’articolo” ecc.) e non si forniscono risposte alternative tra cui scegliere (quindi non domande del tipo “vero/falso” o quesiti con risposte a scelta multipla, cose che limiterebbero lo studente; tuttavia ho visto risposte alternative, disegni, tra cui scegliere nel caso di un ascolto attivo in cui lo studente deve localizzare la posizione di un edificio);

b. naturalmente ognuno di noi, per vari motivi, capisce di un testo cose diverse dagli altri lettori, ma in queste attività secondo me vengono chieste spesso cose più “universali” (per esempio, se nel testo audio un personaggio dice “Ho comprato 1 kg di mele” non possono essere 2 kg per un ascoltatore e 500 g per un altro);

c. credo che queste attività siano giustificabili anche per il fatto che nella vita non sempre ci basta capire il significato globale di un testo, ma in alcuni casi ci viene chiesto anche di selezionare le informazioni, a seconda dell’occorrenza: ad esempio quando si chiede un’informazione stradale. (Infatti, in Volare si deve compilare un modulo con i dati di uno studente che vuole iscriversi a una scuola.) Quest’ultimo punto, giustificherebbe, secondo me, la compresenza di questi tipi di ascolto e lettura oltre a quelli di ascolto autentico e lettura autentica (in realtà nel primo volume di “Volare” non ho visto nessuna attività di Lettura autentica, che in “Volare”, però, viene chiamata “lettura rapida”).

C.H. Sei troppo buono! Per far pubblicare libri bisogna convincere un editore; le giustificazioni che tu dai rappresentano il parere dell’editore e ho dovuto cedere!

F.D. Credo che il tuo sia un modo elegante per dire che ho preso un granchio. 🙂 Quindi ci riprovo: probabilmente è un espediente per non rendere frustranti gli ascolti. Facendo solo quelli “rilassati” lo studente potrebbe scocciarsi a fare sempre l’ascolto nello stesso modo. È un modo per creare una motivazione nuova, ma comunque essendo una comprensione guidata mi pare che limiti la libertà degli studenti, a differenza di quanto ho letto nel tuo articolo sull’abolizione dei fogli di lavoro. Forse anche in questo caso si tratta di optare per il male minore? Scusa se mi sono fissato su questo, ma se quest’altro tipo di ascolto e di lettura può essere utile per i miei studenti mi piacerebbe farlo, ma prima devo capire perché farlo. 😉

C.H. Non mi sono spiegato! Intendevo che se fosse dipeso da me tutti gli ascolti di Volare sarebbero stati del tipo rilassato. La maggior parte degli insegnanti alla Dilit tratta tutti gli ascolti di Volare come tutti gli altri ascolti che porta in classe: alla maniera “rilassata” (cioè in cerchio intorno al registratore con consultazioni in coppie fra un ascolto e l’altro). Gli studenti lo fanno ogni giorno. Decine di migliaia di studenti l’hanno fatto (sono venti anni ormai che lavoriamo così). L’editore di Volare lo sapeva ma riteneva che il mercato non ci avrebbe creduto. Tutto lì. Secondo me un insegnante formato da noi non dovrebbe usare i fogli lavoro in Volare.

Ricostruzione di conversazione
F.D. A proposito della Ricostruzione di conversazione, mi capita che quando due studenti recitano anche se alla classe chiedo di controllare e correggere, non sempre lo fanno (qualcuno lo fa a bassa voce come se stesse facendo una cosa scorretta alle spalle dell’insegnante, allora io li invito ad alzare la voce). Nonostante eventuali problemi, io non intervengo durante le esecuzioni perché spero in un intervento di qualcuno. Alla fine, però, quando ho ormai perso ogni speranza, correggo tutti gli errori, in quanto si tratta di produzione controllata. Forse correggere alla fine e non subito, però, è meno efficace e, inoltre, se alla fine correggo, non sprono gli altri studenti a partecipare al controllo perché sanno che tanto poi ci sono io. Forse, durante la recita, in presenza di errori, dovrei, almeno all’inizio per farli abituare, fermare l’esecuzione e dire alla classe: “C’è un problema: quale?”. Ma anche questo, temo, non li renderebbe autonomi.

C.H. Per quello che so io della cultura giapponese la persona “a posto” deve fare di tutto per salvare la faccia al prossimo e quindi non mi sorprende ciò che racconti. Ma comunque, anche con studenti italiani (che sono l’opposto da questo punto di vista!) in questa fase della lezione non parlo mai di “correggere” o di “controllare”. La mia idea è che recitare davanti alla classe è un atto generoso da parte dello studente che ha accettato il mio invito a rendere più bella la mia lezione: ci vuole molto coraggio per recitare davanti agli altri. Il livello di ansia è altissimo e la qualità dell’esecuzione è conseguentemente a rischio: errori che sembravano superati riappaiono al momento della recita; è naturale. La mia strategia è lasciare che gli attori portino a termine la recita e immediatamente ringraziarli calorosamente riprendendo io il posto davanti alla classe e mandando loro a posto. Dopodiché, coinvolgendo tutta la classe, rievoco eventuali battute in cui c’erano delle imperfezioni e ripeto il lavoro dei passaggi e delle ripetizioni (anche a ritroso) che erroneamente avevo pensato di aver fatto a sufficienza precedentemente (l’errore è mio, non degli studenti). L’altra cosa che può succedere durante la recita studenti è che non si ricordino qualcosa. In questo caso invito la classe ad “aiutarli” (“aiuto”, non “correzione”), indicando eventualmente un determinato studente nel caso nessuno parli.

Stili di apprendimento
F.D. Potrei sbagliarmi, ma da quel poco che ti conosco e dalla tua scorsa e-mail, credo che tu non sia tanto per assecondare gli stili di apprendimento degli studenti, vero? Sei più per spingerli da subito nella fossa dei leoni, no?:)

C.H. Il concetto di stile di apprendimento è interessante, ricco di spunti di riflessione e controverso! Sapevi che esistono nella letteratura una settantina di modelli diversi? Sono sicuramente da conoscere. Si può anche provare a classificare i propri studenti all’interno di un modello e poi all’interno di un altro e poi di un altro e poi… Così facendo possiamo allontanare il rischio, sempre in agguato, del luogo comune, del pregiudizio. Se studiare gli stili d’apprendimento, gli stili cognitivi, le intelligenze multiple, le strategie di apprendimento e quant’altro ha come risultato aprire le nostre menti all’idea di quanto sia vario l’essere umano (il nostro studente), allora è un bene. Se invece porta a percepire gli studenti in categorie fisse e invariabili…
Per me gli studi più interessanti sono quelli che rivelano quanto le nostre convinzioni influenzano il nostro modo di apprendere. Osservare come una convinzione cambia durante o dopo aver vissuto una determinata esperienza è fondamentale per un insegnante. È per questo che le nostre proposte didattiche (e metadidattiche: es. il corso di formazione che hai fatto) sono di tipo esperienziale.

Ascolto analitico
F.D. A proposito degli Ascolti analitici, nella guida per gli insegnanti di “Volare” si consiglia di chiarire il significato delle parole scritte sul libro dello studente. Tra le attività che conosco, mi sembra che sia l’unica dove gli studenti possono fare domande relative al significato di tutte le parole.

C.H. Direi che in qualsiasi attività analitica o controllata non dovrebbe normalmente essere limitato, per chiarire significati, il ricorso al dizionario o all’insegnante. Non so da dove tu abbia preso l’idea contraria. Per fare analisi, per controllare la correttezza di ciò che faccio, devo sapere precisamente il significato di ogni parola.

F.D. Mi è chiaro che in altre attività in cui si fa uso della scrittura – la Produzione libera scritta, il Puzzle linguistico e la Revisione tra pari – si possono utilizzare non solo dizionari, ma anche grammatiche ecc.. Ma per quanto riguarda la Lettura analitica e il Cloze, continuo ad avere dei dubbi. Di norma si tratta di compiti come: distinguere i verbi dai nomi, distinguere le forme verbali o il “si” riflessivo da quello impersonale, coniugare i verbi, mettere nel testo delle parole quando non è il significato a guidare la scelta. (Un esempio di quest’ultimo: immaginiamo che nella lista di parole da cui scegliere abbiamo un solo nome maschile singolare e nel testo abbiamo uno spazio dopo l’articolo “il”. Anche senza capire il significato lo studente dovrebbe essere in grado di scegliere la parola giusta.) Quindi non riesco a capire perché bisogna usare il dizionario, in quanto la riflessione verte su un singolo aspetto formale. Credo che sia per questo che l’insegnante scrive degli esempi alla lavagna: per chiedere agli studenti di cercare altri esempi del genere, basandosi sull’imitazione. Il dizionario, invece, fornirebbe tutte le risposte, quindi dal mio punto di vista lo studente non si troverebbe a riflettere più di tanto: dando per buono quello che dice il dizionario avrebbe un ruolo passivo. Se, a fronte di un eventuale divieto di usare il dizionario, lo studente sente comunque il bisogno di conoscere il significato di una parola, secondo me può chiedere all’insegnante. Che cosa mi sfugge?

C.H. Per me ogni quesito didattico va esaminato tenendo conto del perché propongo una determinata attività agli studenti. Per esempio, perché faccio fare grammatica? L’unica risposta convincente per me è che l’utilizzo di certe abilità metalinguistiche è la garanzia del loro sviluppo. In altri termini si fa grammatica per diventare più bravi a fare grammatica (anche da soli, senza l’insegnante), punto. Cioè il nostro studente deve sentirsi sempre più competente (e più contento) nel ruolo del ricercatore. Un ricercatore sa quali sono gli strumenti idonei al lavoro e li usa con crescente competenza. Il dizionario è lo strumento di lavoro per eccellenza. Ma saperlo utilizzare bene non è per niente automatico; sbagliando si impara! Se il dizionario fornisce “tutte le risposte” come sostieni, l’analisi proposta dall’insegnante è probabilmente troppo banale. E poi mi sembra strano che si voglia dare l’idea agli studenti che problemi risolvibili senza ricorrere al significato siano problemi “grammaticali”. Per me la grammatica è tutto ciò cui devo attingere per tradurre il mio pensiero in testo (regole, vincoli, norme, convenzioni, tendenze, ecc)… e, viceversa, per tradurre in pensiero il testo prodotto da un altro. Una “grammatica” non al servizio del pensiero non dovrebbe chiamarsi grammatica.

Lettura analitica e Cloze
F.D. Vorrei raccontare un aneddoto di una classe di (falsi principianti) con cui cerco di applicare i principi della Lettura analitica nonostante stiamo usando un libro che segue una diversa metodologia. Vorrei precisare che spesso gli studenti principianti giapponesi hanno già studiato da sé con uno di quei libri “fai da te” in commercio, di stampo grammaticale traduttivo. Di recente ho voluto far riflettere questa classe sulla formazione del plurale e sugli articoli indeterminativi, ma conoscendo i miei polli, ho chiesto di dire la propria opinione solo se non avevano veramente mai studiato l’argomento. Solo una, tra gli studenti chiamati in causa (li chiamavo io a caso quando vedevo che nessuno si muoveva, chiedendo prima se avevano mai studiato questa cosa), molto timidamente, aveva dichiarato di averlo un po’ visto, gli altri hanno tutti dichiarato convinti che era la prima volta. Per qualcuno era davvero la prima volta e si vedeva dalle ipotesi che formulava, incentrate veramente sul testo che avevamo e che mi facevano felicissimo, indipendentemente dal contenuto. Altri, invece, davano risposte, esatte, che andavano oltre quello che noi avevamo davanti e, inoltre, durante la formulazione delle risposte usavano un linguaggio tecnico, grammaticale, proprio di quei libri di cui sopra. A uno di questi studenti, che anche durante altri momenti, mi hanno dato segni di conoscere l’argomento, ho detto: “È giusto quello che hai detto, ma davvero mai mai hai visto queste cose?”. Ha confermato, con sicurezza. Per qualche secondo ci siamo guardati in silenzio, ma, niente, non voleva proprio ammettere. Non potevo certo mettermi a discutere, quindi sono andato avanti. Ma perché molti studenti fanno così? Mi ricordo anche di una signora che, tanto tempo fa, si era rivolta a uno degli istituti in cui insegno per chiedere di iscriverla a una scuola di italiano in Italia. Questa signora, però, sull’apposito modulo di iscrizione, dove si chiedeva di indicare il livello, ha scritto un livello molto più basso di quello reale, giustificandosi dicendo che altrimenti l’avrebbero messa in una classe troppo difficile per lei. Perché l’ha fatto? Perché preferire rifare quello che già si sa invece di andare avanti e progredire? È una cosa a cui ho assistito spesso in Giappone, soprattutto tra persone di una certa età. Le ipotesi che posso fare in base a queste esperienze, che potrebbero essere diverse di persona in persona, sono le seguenti:

1. è importante in Giappone mostrare umiltà, quindi non bisogna fare i saputelli, anche se certe cose si conoscono già. Tra l’altro in Giappone c’è un proverbio che recita: “Deru kugi wa utareru” (trad. “I chiodi che sporgono vengono appiattiti”);

2. hanno paura del nuovo e si rifugiano nel vecchio, anche perché secondo loro c’è sempre qualche parola nuova o qualcosa che non si ricordano di quello già fatto. Questo probabilmente è da ricollegarsi alla cultura dello “yoshu”, ossia del prepararsi la lezione, cosa a cui gli studenti vengono abituati nella scuola pubblica: infatti, per non scatenare l’ira dell’insegnante, devono studiarsi a casa (parte di) quello che sarà oggetto della lezione successiva (oltre, naturalmente, al ripasso di quello già fatto) ;

3. se l’insegnante sa che io so, potrebbe chiedere cose più difficili la prossima volta e io, non sapendo rispondere, farò la figura dello stupido;

4. l’insegnante desidera che noi riflettiamo su un argomento? Accontentiamolo facendogli credere che si tratta di una riflessione, così “chi sa fa bella figura e chi non sa non fa una figuraccia”.

Nel caso durante la Lettura analitica gli studenti dovessero formulare ipotesi errate ma non ci sono frasi nel testo che possano dimostrare l’errore, io do esempi corretti che confutano le loro ipotesi. Per esempio, una studentessa era arrivata alla conclusione che “piace” si usava davanti all’articolo “la” (Mi piace la pizza) e non davanti agli altri articoli. Allora ho scritto alla lavagna la frase “Mi piace il Giappone” e l’allieva ha cambiato strada fino ad arrivare alla soluzione. Con gli studenti meno aperti si potrebbe restringere il campo e, quindi, invece di chiedere quando si usa “piace” e quando “piacciono”, si potrebbe chiedere di dire, per ognuno dei due, se si usa con i verbi all’infinito, con il soggetto singolare o con il soggetto plurale. In questo modo la ricerca è molto più guidata, ma meglio di niente. Forse sarebbe meglio trovare un articolo con più esempi, in modo che non sia neanche necessario scrivere frasi per confutare le ipotesi: mi basterebbe fargli notare la frase nel testo. È difficilissimo, però, trovare un testo appropriato, quindi credo di potermi concedere questo ripiego.

C.H. Non sono d’accordo! Stai dimenticando che l’obiettivo di un’attività didattica è di far usare determinate facoltà cognitive, nella convinzione che tale uso sia la garanzia che tali facoltà si sviluppino. Ogni volta che un’insegnante pensa che gli studenti non devono andare via dalla classe avendo capito fischi per fiaschi, ha perso di vista l’obiettivo.

F.D. Non ho capito su cosa non sei d’accordo, ma forse non mi sono spiegato. Lo studente continuerebbe a lavorare, a ragionare. Io, insegnante, darei solo esempi che confutano la sua opinione in modo che ci ragioni ancora fino a trovare da solo la risposta: non equivale a quando l’insegnante fornisce la riga del testo dove appare il fenomeno che si sta osservando in modo da spingere gli studenti a rivedere le proprie posizioni? Se, come in questo caso, l’obiettivo era capire la differenza tra “piace” e “piacciono” non vedo altra via (era un libro di testo). Io mi ricordo anche che al corso ci avete anche detto che se, durante la riflessione finale di alcune letture analitiche, gli studenti non dovessero arrivare alla soluzione o dovessero dare soluzioni parziali, l’insegnante può integrare. Devo aver frainteso.

C.H. Il procedimento che segui è contraddittorio. Affidi un lavoro di ricerca allo studente (messaggio: “ho fiducia in voi”) e poi quando lui non arriva alle conclusioni che vuoi tu, inventi degli esempi per dimostrare che ha torto (messaggio: “senza di me non sei buono a fare niente”). Applicare una “modalità di integrazione” richiede coraggio: il coraggio di accettare che gli studenti vadano via a volte avendo capito fischi per fiaschi. Senza questo coraggio, il gioco non vale la candela; la “modalità di trasmissione” (quella pura, senza inganni) è più rapida e in più lo studente non ha nessuna difficoltà a capire che cosa si vuole da lui. Ricordati che la modalità di integrazione deve terminare sempre con “Ci sono domande?” e l’insegnante risponde alla domanda, qualunque essa sia. Con un procedimento del genere lo studente diventa progressivamente più responsabile per le proprie decisioni.

F.D. Alla fine di una Lettura analitica, capita che alla domanda “Ci sono domande?” la risposta sia proprio la correzione di ogni singolo quesito, del tipo: “È giusto?”. Questo, secondo me, invece, è proprio il caso in cui l’insegnante deve chiedere “Secondo te?” ecc., in quanto le domande riguardano proprio l’oggetto dell’analisi proposta. In questo modo lo studente imparerà a fare domande non perché dipende dall’insegnante, ma perché ne sente l’esigenza.

C.H. La debolezza di questa strategia è che ti contraddici! La strategia che preferisco in situazioni del genere è di annunciare che fra un po’ risponderò a n domande a coppia e che ora le coppie hanno tempo per discutere e decidere le loro domande. L’effetto è di costringerli, visto che non possono avere tutto su un piatto d’argento, a valutare il grado di dubbio che hanno rispetto ad ogni elemento e a crearne una gerarchia (capacità fondamentale in un ricercatore!).

F.D. Cioè dici di rispondere anche a domande che riguardano gli elementi oggetto della Lettura analitica o del Cloze? Di rispondere, per esempio, nel caso in cui in un Cloze uno studente abbia coniugato al passato prossimo lo stesso verbo che un altro ha coniugato all’imperfetto o nel caso in cui nella Lettura analitica sui vari tipi di “si”, secondo uno studente un “si” è riflessivo mentre secondo un altro studente è impersonale? Ma così non si stimolano gli studenti a discuterne, a riflettere: la riflessione che hanno già fatto prima potrebbe essere stata superficiale (a me capita).

C.H. Devi decidere! O i tuoi studenti li tratti come ricercatori o li tratti come “scolari” (subordinati, oggetto di continui richiami all’ordine, cui viene detto ripetutamente che possono fare di più, che sono pigri, che non usano bene il cervello, che non si assumono la responsabilità, ecc., ecc., come abbiamo tutti vissuto la scuola tradizionale). Se credi che la scuola tradizionale sia efficace continua pure. Altrimenti, devi imboccare un’altra strada (e convinto, senza mezze misure!). La strada, grosso modo, si può caratterizzare così: “se ti vedo ricercatore aumenta la probabilità che ti veda ricercatore pure tu”. Insomma bisogna aver fiducia in loro! Un esempio pratico: lo studente A ha messo il verbo all’imperfetto e lo studente B l’ha messo al passato prossimo e la loro discussione si limita a registrare la differenza di opinione. Non discutono oltre. Mettiamo che la stessa situazione si ripeta per 8 dei 10 spazi del Cloze (loro sono d’accordo solo su 2 e anche questo accordo è arbitrario in quanto non hanno discusso del perché, bensì casualmente avevano messo la stessa forma). Secondo loro, hanno finito il loro lavoro. Vorrebbero ora che l’insegnante segnalasse quali sono corretti e quali sbagliati (l’atteggiamento di chi controlla se ha vinto la lotteria!). Invece l’insegnante non lo fa. Annuncia invece che risponderà (più tardi) a solo 5 domande. La coppia deve decidere quali 5 domande vorranno fare. I nostri due studenti (per ora lungi dall’aver un atteggiamento da ricercatori) decidono immediatamente di escludere i due che sono uguali. (Mi dirai che è sbagliato perché il fatto che siano uguali non è una garanzia della loro correttezza. E hai ragione, ma non è questa la sfida sul tavolo. La sfida è fare in modo che alla fine della lezione i nostri 2 studenti si comportino un pochino più da ricercatori di prima.) Tolti i due uguali, ne rimangono 3 di troppo e uno degli studenti dice “chiediamo i primi 5: è sempre meglio di niente”. L’altro sarà d’accordo? Forse dirà “Io voglio saperli tutti.” “Solo 5, l’ha detto l’insegnante.” “Ma non è giusto.” E affronta l’insegnante “vogliamo saperli tutti”. “Risponderò solo a 5 domande.” ripete l’insegnante. “Ma perché?” dice lo studente pensando di mettere in difficoltà l’insegnante. Molti insegnanti a questo punto mollano davanti all’arma potente del “perché?” dello studente e assistiamo ad un caso (purtroppo troppo frequente) in cui l’insegnante abdica alle sue responsabilità (nascondendosi dietro “lo volevano loro”). La strada appropriata, invece, è semplicemente dire “Al lavoro! Eventuali obiezioni le discutiamo dopo la lezione” (dopo la lezione l’insegnante andrà con chi vorrà in un posto – bar, giardino, terrazzo, ecc. – per discutere con calma le sue scelte didattiche e le loro obiezioni). Il primo studente magari dice al compagno “per me è importante sapere il numero 6”. Ora cercherà di convincere il compagno che uno dei primi 5 è meno importante del sesto. Il nostro obiettivo è raggiunto: stanno valutando la relativa importanza dei vari punti e/o il relativo grado di insicurezza che sentono per ciascuno. Esattamente ciò che fa un ricercatore. Posso rassicurarti che, una volta innescato il meccanismo, lezione dopo lezione vedrai crescere il loro livello di autonomia.

Produzione libera scritta
F.D. All’università, dove la maggior parte delle allieve sono demotivate, ho provato la Produzione libera scritta, con tanto di fase di suggestione. A causa del tempo richiesto dall’attività precedente, superiore al previsto, è durata solo 25 minuti ma le allieve… hanno scritto! Diverse verso la fine non stavano scrivendo ma stavano pensando, ma qualcuno continuava a cercare parole sul dizionario. La volta successiva abbiamo fatto l’Editing (anche qui per problemi di tempo hanno lavorato solo 12 minuti su ogni composizione), ma si sono date molto da fare! Quando ho annunciato la fine del lavoro, in realtà erano ancora lì a pensare, a ricercare, a discutere. Solo una coppia con una composizione mi ha detto di aver finito dopo pochi minuti, ma alla mia domanda: “E i verbi?” hanno continuato a lavorare fino allo scadere del tempo.

Un’allieva durante l’editing, pur avendo consultato il dizionario, non era sicura dell’infinito di “mi alzo”: “alzarsi” o “alzare”. Mi ha chiamato e le ho detto che era “alzarsi” trattandosi di un verbo riflessivo (forse non avrei dovuto aggiungere questa informazione perché non mi era stata chiesta); lei, quindi, ha scritto “alzarsi” sul quaderno e mi ha chiesto conferma (invece di dire di sì avrei dovuto chiedere: “Secondo te?” anche in questo caso?). Io le ho detto che andava bene, ma immagino che il soggetto fosse la studentessa (“io”) e che quindi avrebbe dovuto scrivere “alzarmi”, argomento nuovo per loro. Non so se ho fatto bene a confermare che “alzarsi” andava bene o avrei dovuto suggerire “alzarmi”. Io sono più propenso al sì perché posso solo immaginare che il soggetto fosse lei: non mi è stato detto, quindi in teoria non avrei potuto fornirle l’informazione. È anche vero che lei non poteva pensarci a chiederlo perché, almeno non con me, non aveva mai affrontato la questione: credo sia proprio questo il punto.

C.H. Per me la regola durante l’editing è “rispondere alla domanda” e allontanarsi subito!! In altri termini avrei risposto, come te, “alzarsi”. Prima ancora che lei avesse scritto la parola io già sarei stato seduto al mio posto! Comunque sia, in ogni caso, se lo studente è un ricercatore la domanda “Secondo te?” è un insulto. Non diventerà mai un ricercatore se l’insegnante non lo vede tale.

F.D. Io ho proposto “Secondo te?” ritenendolo un equivalente del “Voi che dite?”, nel tuo articolo sulla revisione fra pari. Infatti leggo, dopo che l’insegnante ha invitato gli studenti a controllare i verbi: La reazione tipica è “Perché? Non vanno bene?” La risposta adeguata è “Voi che dite?” e l’insegnante si siede tranquillo al suo posto. Normalmente la ricerca al miglioramento riparte. Perché nel mio caso, invece, diverrebbe un insulto?

C.H. Il brano che tu citi parla dell’ultima carta da giocare se proprio nient’altro ha funzionato (e comunque normalmente una sola volta nella storia di una classe è sufficiente). Tu invece parli di un momento in cui stanno lavorando correttamente. Il procedimento viene inquinato dal fatto che, dopo aver risposto alla domanda sull’infinito, sei rimasto vicino alla ragazza per il tempo sufficiente per scriverlo. Anzi, non dovevi essere neanche in una posizione tale da poter vedere il suo testo. Ti ricordi quando abbiamo caratterizzato il quaderno dello studente come “privato”?

L’ascolto autentico – studentessa problematica
F.D. Una studentessa, in privato, mi ha chiesto per la terza volta chiarimenti sul fatto che non avevo accettato di rivelare il tema del brano dell’Ascolto autentico e, mentre parlava, ha cominciato a piangere senza riuscire più a fermarsi. Mi ha chiesto di parlare in giapponese perché forse non era riuscita a spiegare le sue perplessità in italiano. L’ho accontentata e, ho notato, che almeno a livello di parole ci eravamo capiti benissimo, ma per niente a livello di pensiero. Questo mi confermava ciò che cercavo di spiegare a lei sulla comprensione: che è personale. Ho rispiegato quello che avevo spiegato in classe la settimana prima cercando di aggiungere altri esempi, ma niente da fare. Lei voleva da me il tema perché nel confronto con gli altri erano venute fuori storie completamente diverse (per forza, gli avevo chiesto io di inventare!) e lei voleva sapere se aveva ragione perché era convinta delle sue idee. Non voleva più sentire la storia che il tema era soggettivo, giustificandosi in questi termini: “Era un programma radiofonico e se qualcuno telefona lo fa per parlare su un tema proposto dal presentatore del programma”. Ho provato a farle capire che aveva ragione, ma, ho spiegato che, pur non avendo capito la parola che il presentatore aveva usato per definire il suo tema, tutti se n’erano fatti un’idea propria e, magari, avevano anche capito il contenuto. Cioè, una stessa discussione la si può vedere da una pluralità di punti di vista e se io dessi la parola del presentatore agli studenti, pur avendo capito il contenuto ma non la parola, pensando si trattasse di un altro tema, si sentirebbero disorientati. E lei: “Io mi sento disorientata se non me lo dici. Se me lo dici io capisco di aver imboccato la strada giusta e sono contenta”. E io: “E se, invece, capissi di aver imboccato la strada sbagliata?” Lei: “Capirei di dover studiare di più”. Io: “Studiare? Come? È un ascolto”. Lei: “Farei esercizi di ascolto”. Io: “Avete già ascoltato 7 volte. Avete dato il meglio di voi stessi, a che serve che io vi dia la parola del presentatore del programma. Non potete fare più di quello che avete fatto in questo momento”. Niente da fare, non si convinceva, c’era un muro che ci divideva. Le ho rispiegato che l’obiettivo era stato raggiunto perché, come lei stessa mi aveva detto, dopo 7 volte aveva capito di più. A questo punto lei: “Io ti ho detto così solo per farti piacere”. Ha negato, insomma, quello che mi aveva detto alla lezione precedente! O mentiva o era in uno stato confusionale tale da non sapere più dove sbattere la testa, da non avere più certezze: con quell’ascolto le avevo distrutto la stabilità interiore costruita in anni e anni di istruzione scolastica. Con l’andare avanti della discussione (ormai non sapevo più che fare: ognuno era convinto delle sue cose) mi ha detto anche che lei ascoltava la radio da Internet per esercitarsi. Io: “Capisci?” Lei: “Dipende dall’argomento”. Avevo trovato uno spiraglio! Io: “Anche tra madrelingua e così. Se io sono con due amici appassionati di musica hard metal, di cui io non ci capisco niente, e loro si mettono a parlare di questo argomento, io probabilmente capirò il 20/30%, mentre loro tra di loro un 90%: il 100% è difficile da raggiungere anche per i madrelingua”. A questo punto ha sorriso, ha smesso di piangere e ha detto: “Ora ho capito! Che sollievo! Potevi dirmelo prima!”. Questa conversazione è durata circa mezz’ora. Verso la fine si sono avvicinati alcuni studenti ancora lì intorno. Un paio di loro le hanno manifestato preoccupazione, solidarietà e accordo nei suoi confronti (ciò significa che sono in disaccordo con me), ma lei: “Non vi preoccupate, io piango facilmente. Comunque ora ho capito, non la penso più così”. Sono contento (e lo erano anche i compagni), ma c’è ancora chi non ha ben chiaro il perché dell’ascolto e da questa esperienza ho capito che posso parlare quanto voglio ma se non tocco un argomento che fa parte dell’esperienza di quel determinato studente, potrà capire le parole ma mai il mio pensiero. Questa esperienza, insomma, non ha fatto altro che confermare quello in cui credevo. Per gli altri studenti lì presenti, ero troppo stanco per poter ripetere il tutto e cercare di convincere anche loro (una in particolare, la signora anziana di cui già ho parlato, mostrava disaccordo scuotendo la testa mentre parlavo). Ho fatto una sintesi di quello che già avevo detto loro la settimana prima e ho detto che, se gli risulta difficile credermi, devono solo provare sulla loro pelle, ma devono farlo almeno una decina di volte per ogni attività nuova (conoscendo i miei polli, ho volutamente esagerato) e che non possono trarre le conclusioni dopo una sola volta. Era normale che si sentissero scioccati (questa è la parola che ho usato) perché era un modo molto diverso da quello al quale erano stati abituati a scuola, ma è quello più efficace e quindi ne vale la pena.

C.H. Questa storia bellissima ed emozionante illustra secondo me un fatto importante: imparare una lingua è un’esperienza personale potenzialmente fra le più traumatiche della vita, un’esperienza che mette costantemente a rischio la propria dignità. E questo fatto è particolarmente vero durante l’ascolto. Quando cerchiamo di “convincere” i nostri studenti con “ragionamenti”, generalmente abbiamo dimenticato questo fatto.

F.D. Vuoi dire che l’insegnante dovrebbe convincere i propri studenti non con le parole, ma con i fatti facendogli provare in prima persona la differenza tra i diversi metodi? Anch’io, dopo questa esperienza, sono dell’opinione che tutti questi ragionamenti non servano a molto. Penso, però, che non sia sempre possibile fargli vivere l’esperienza: alcune cose si possono capire solo dopo anni. Per esempio, come fai a far capire in breve tempo agli studenti i pregi di un metodo induttivo rispetto a quello deduttivo? Come fai a fargli capire che non dargli la soluzione alla fine delle attività ha una sua importanza? Come fai a fargli capire che ascolti e letture così difficili gli fanno bene? Come fai a fargli capire che durante un’attività “autentica” è importante inventare quello che non hanno compreso? Eppure in questi e altri casi bisogna dirgli qualcosa perché ti chiedono spiegazioni.

Mi è capitato anche che una mia allieva durante il Puzzle linguistico, sebbene le avessi chiesto l’ultimo errore, mi aveva dato probabilmente il primo. Quando ho insistito che volevo l’ultimo mi ha chiesto: “Perché?” In questo caso non ho potuto fare altro che rispondere scherzando che mi piaceva di più, era una questione di gusto.

C.H. Io studio il tango. Ho avuto letteralmente decine e decine di maestri. Ognuno ha il suo metodo, le sue convinzioni. In tutti questi anni ho assistito forse 2-3 volte a qualche protesta da parte di qualche studente. È un fatto molto raro. Eppure non tutti insegnavano allo stesso modo. Sai che cosa avevano in comune quelli che sono stati criticati? Non erano del tutto convinti di ciò che facevano! Insomma, andare a studiare tango e trovarti davanti a un insegnante che spreca tempo a spiegare perché devi fare x o y ti dà l’idea che sta cercando di ottenere la tua approvazione. Ma se sa realmente insegnare perché non comincia la lezione?

Nel tuo caso c’è stato un lieto fine ma la vera causa, secondo me, è stato l’interesse, l’affetto, che la studentessa ha sentito nei suoi confronti da parte tua.

F.D. In che modo ho manifestato affetto e perché sarebbe stato un danno? Non credo di essermene reso conto.

C.H. Non è un danno! Affatto! Lo studente ha paura; è naturale. È bello che tu sia sensibile verso la difficoltà psicologica in cui vive lo studente di lingua. Il mio commento non era una critica; era invece un tentativo di spiegare perché il tuo comportamento ha funzionato. Cioè, non ha funzionato a causa delle tue spiegazioni razionali. Ha funzionato perché, per fortuna, vuoi bene a tuoi studenti. Tutto lì.

La studentessa che è stata assente la lezione precedente
F.D. Il giorno di una Lettura analitica, siccome c’era un’allieva assente la volta precedente ho chiesto a un’altra allieva, più sveglia di altre, di riassumerle brevemente il contenuto dell’articolo (ovviamente si sarebbe trattato della sua interpretazione personale). Voglio precisare che l’allieva a cui ho fatto questa richiesta è la stessa che dopo l’Ascolto autentico voleva conoscerne il contenuto. Lei, afflitta, mi ha detto che non aveva capito niente (eppure durante la Lettura autentica scambiava informazioni con i compagni nonostante allora non avessi chiesto di inventare, ma credo che lo farò da ora in poi come ho fatto per l’Ascolto). Ho chiesto a un’altra, sveglia, che lo scorso luglio ha seguito per tre settimane un corso alla Dilit. Anche lei diceva di non ricordare bene e di non aver capito quasi niente (un passo avanti). Ha riletto velocemente il testo e ha cominciato a parlare (ha concluso in fretta, ma posso essere soddisfatto). Però si voltava in continuazione verso di me come se volesse un’approvazione, e io, abbassando la testa come se non stessi seguendo, con la mano le indicavo l’allieva assente. Credo che le due abbiano vissuto questo momento come un’interrogazione essendosi svolto in plenum. Avevo pensato anche all’eventualità di svolgerlo in privato, ma in questo caso che cosa avrebbero fatto tutti gli altri studenti nel frattempo? La prossima volta continuerò con il plenum ma chiarirò che non si tratta di un’interrogazione e, inoltre, inviterò anche gli altri a fare aggiunte (saranno sempre i soliti due, tre) e spiegherò che vanno bene le informazioni inventate.

C.H. Io non farei così. Trattamento uguale per tutti: creazione di coppie faccia a faccia, distanziate fra di loro. Consegna: “raccontatevi ciò che vi ricordate del brano”

F.D. Quello che ricordano, compreso quello inventato da loro, no?

C.H. Sì, ma sono sinonimi!

Lettura analitica
F.D. Quanto alla Lettura analitica che ho fatto io con la classe di cui sopra, è andata bene ma forse 25 verbi al passato da individuare erano troppi: ci è voluto tantissimo tempo. Gli ho chiesto di indicare anche il soggetto e l’infinito dei verbi. Siccome giravo tra i banchi per incitarli (anche perché il tempo stringeva) ho avuto modo di ascoltare un confronto tra due studentesse. La prima aveva scritto bene l’infinito di “si muoveva”, ma si è fatta convincere dall’altra e l’ha cambiato in “muovevarsi” o qualcosa del genere. Neanche durante la fase delle domande me ne hanno fatta una su questo perché probabilmente erano ormai entrambe convinte della loro risposta. Come questa, probabilmente sono rimaste sul loro foglio altre cose inesatte. Siccome lo scopo principale non era quello di trovare l’infinito, ma di individuare la tipologia dei tempi passati, io ho lasciato correre. Quanto alla riflessione finale sull’uso dei tre tempi passati presenti nell’articolo (li ho fatti lavorare di nuovo in coppia, ma senza cambi perché non c’era tempo), si sono avvicinati molto alla definizione corretta dell’uso dell’imperfetto; buone anche le considerazioni sul passato prossimo (l’unico dei tre tempi che già conoscevano). Alla fine ho integrato le loro riflessioni su questi due tempi con mie spiegazioni (mi ricordo che al corso di formazione ci avevate consigliato di fare così). Non mi hanno saputo dare spiegazioni abbastanza concrete sull’uso del trapassato prossimo ma è colpa mia: nel testo non c’era un riferimento esplicito a un altro tempo passato “meno passato”, ma era sottinteso: ho sbagliato testo. Avrei potuto, dopo aver fatto sottolineare l’unico verbo al trapassato prossimo presente nel testo, escluderlo dalla discussione finale sull’uso dei tempi. Non c’è stata nessuna discussione sulla forma dei verbi. In “Volare” solo in alcuni casi ho visto tabelle con la coniugazione da far completare, anche se alla fine del libro ci sono tutte. Meglio, sempre, farli riflettere sulla coniugazione facendogli completare tabelle o non è necessario?

C.H. Per me l’obiettivo di una Lettura analitica è semplicemente che abbiano più chiara di prima la questione sotto esame. Obiettivi assoluti come “sapere tutto riguardo a x”, oltre ad essere velleitari, sono inappropriati in quanto la comprensione grammaticale deve essere in sintonia con la graduale crescita della competenza comunicativa degli studenti. Tale competenza ha bisogno di utilizzare tantissime regole grammaticali. Capire un po’ di tutte le regole è molto più importante che di conoscere tutto di una sola. Ogni Lettura analitica costituisce un “assaggio” di qualche regola per poi aver tempo di assaggiarne un’altra e poi un’altra… Quindi, sì 25 verbi sono troppi. Sì va bene che per ora la studentessa si è convinta della correttezza di “muovevarsi” (anche se si poteva prevedere una fase in cui loro controllassero sui loro dizionari).

F.D. Alla fine, durante il momento dedicato alle domande, ne sono uscite un paio relative all’uso dell’ausiliare con il passato prossimo. Sono stato io a spingere gli studenti a riflettere sull’uso degli ausiliari quando mi hanno chiesto quale fosse corretto. Visto che l’argomento da privilegiare secondo me era l’imperfetto, forse avrei fatto meglio a rispondere direttamente? Molte sono state domande sul soggetto, in quanto c’erano tanti casi di soggetto posposto. In un caso il soggetto, preposto, era addirittura due, tre righe prima del verbo. Credo che, quindi, quando scelgo una Lettura autentica, devo farlo accuratamente in vista delle successive Lettura analitica e Cloze. L’insegnante deve essere un artigiano di altissima precisione. Avrei dovuto presentare una lettura in cui i soggetti erano facilmente individuabili dagli studenti. Sull’uso dell’imperfetto non è stata posta nessuna domanda e non so se questo sia un fallimento (erano più che altro concentrati sui soggetti) o un successo (forse significa che l’uso dell’imperfetto gli era già chiaro). Con queste sperimentazioni mi sono reso conto della difficoltà di scegliere un testo appropriato.

C.H. Non sono d’accordo. La scelta di un testo per la Lettura autentica va fatta per il grado di comprensibilità del testo e eventualmente per l’interesse dell’argomento per la classe.

Le domande “magiche”
F.D. Ai miei studenti tra il livello A1 e A2 e a quelli di livello più basso (raramente con quelli di livello più alto) permetto di chiedermi “Come si dice in giapponese…?” o “Come si dice in italiano “[parola giapponese]?”. Certo, è importante che imparino a spiegare i concetti usando altre parole, quando non conoscono il termine esatto, ma forse per loro è presto perché tra l’altro temono ancora di fare domande, di provare ecc. Alla Dilit come vi regolate? Fino a quando fornite parole tradotte o vi fate dire parole in inglese o altre lingue? A proposito, durante i confronti delle varie attività e le produzioni orali percepisco comunque innaturale la richiesta da parte degli studenti “Come si dice in italiano “[parola giapponese]”? in quanto non serve per risolvere un vero problema di comunicazione: l’interlocutore, anche lui giapponese, avrà capito quello che intendeva il compagno prima di ascoltare la mia risposta!

C.H. I miei studenti sono incoraggiati a fare quanto più possibile queste domande. Ogni volta che uno studente prende un’iniziativa per risolvere un suo problema o per risolvere una sua curiosità siamo un passo più avanti.

F.D. Cioè a studenti di ogni livello permetti di farti le domande “Come si dice … in italiano?” e “Come si dice … in inglese?” invece di farti dare una definizione in inglese della parola? Io, dopo un livello A1 o A2, sarei più per una domanda tipo “Come si chiama quella cosa fatta di tante pagine che si legge?” che per una domanda tipo “Come si dice in italiano “hon”? (che significa “libro” in giapponese).

C.H. Anch’io. A proposito, la domanda “Come si dice in giapponese…?” è strana! Dobbiamo preparare gli studenti per parlare con italiani. La domanda normale è “Che significa…?” L’altro risponderà come vuole (con una traduzione in giapponese, con una spiegazione in italiano, con un sinonimo, con un gesto, con un disegno, con una traduzione in inglese, in russo o altro). Ma la padronanza spontanea della domanda richiede molta pratica e quindi va pretesa subito da principianti dal primo giorno del primo corso. Poi, la forma naturale dell’altra domanda non contiene “in italiano”. Se due persone stanno parlando in italiano la domanda naturale è “Come si dice…?”

Il traguardo (forse utopico) è una classe che domina l’insegnante invece del contrario. È in questo senso che va, inoltre, attenuata, secondo me, una tua tendenza (raccontata più volte in queste email) a dire agli studenti come devono pensare. Ogni loro obiezione va presa come una lezione per noi, non va “cancellata” con discorsi che vogliono cambiare il pensiero dello studente. Ciò che lui pensa vale esattamente ciò che pensiamo noi.

F.D. Quando obiettano, che faccio? Resto zitto? In genere non si limitano a obiettare, ma vogliono anche delle spiegazioni!

C.H. Prova ad ascoltarli. Semplicemente. Senza pensare a come difenderti. Seduto, senza fretta. Senza dare segni che devi andare via o che devi continuare con la lezione. Imparare una lingua è dura. Hanno fiducia in te; vogliono che tu sappia la merda in cui si trovano. E basta. Se, alla fine di una bella sessione del genere, pretendono delle risposte digli che ci devi pensare. E se insistono la volta successiva, fa capire loro che ti ricordi ogni cosa che ciascuno ha detto, ripetendola e nominando chi l’ha detta. Devono capire che tu li capisci e li rispetti. Soprattutto, non cercare di convincerli che hai ragione tu! Ricordati: non siete avversari!

Riflessione grammaticale
F.D. A proposito di riflessione grammaticale, da quello che vedo per voi della Dilit viene prima l’analisi, seguita dalla riflessione grammaticale e seguita a sua volta dalla pratica (riassumo in modo semplicistico, visto che il discorso è più complesso), mentre altre scuole di pensiero suggeriscono, in genere più teoricamente che praticamente, di fare pratica prima di riflettere e subito dopo l’analisi.

C.H. Non capisco! Né come puoi vedere una tale sequenza nel nostro lavoro né a chi fai riferimento quando dici “altre scuole di pensiero”! Nell’epoca del dominio dell'”approccio strutturale” (i vari metodi audio-orali, audio-visivi, situazionali, ecc – di stampo comportamentista – di cui l’unico rimasto veramente in vigore è Il Callan Method) si negava la necessità della mente, e quindi la “pratica” (ripetizioni senza sosta) serviva a fissare abitudini. Quindi niente analisi e niente riflessione. DITALS e Balboni, invece, propongono analisi, sintesi e riflessione come 3 fasi distinte, in quest’ordine. Per quanto mi riguarda, sostenere che si possa scindere l’analisi dalla riflessione è sostenere l’impossibile. Se per analisi tu intendi, per esempio, il momento della Lettura analitica in cui l’insegnante dà la consegna “sottolineate tutti gli esempi di x”, l’insegnante sa che in questo momento ha dato inizio alla riflessione grammaticale. Altrimenti come faccio io a decidere che una tale sequenza di grafemi costituisce un verbo, per esempio, e altre sequenze no?

Noi alla Dilit preferiamo parlare di “fare grammatica”. Intendiamo con questa espressione l’uso della mente per osservare, notare, distinguere, classificare, raggruppare, ipotizzare, analizzare, combinare, separare, ecc., ecc., tutto insieme.

Per quanto riguarda la “pratica”, per noi è la base – costante – di tutte le lezioni, specialmente nelle Produzione libere orali, le Produzione libere scritte, gli Ascolti autentici e le Letture autentiche, ma non soltanto: anche durante tutte le altre attività gli studenti sono tenuti a discutere con i compagni, in italiano, ad esprimere le loro ipotesi, a cercare di farsi capire, a cercare di far valere una certa identità personale, a negoziare significati.

F.D. Comunque sì, intendevo proprio quello che hai scritto. Mi sono espresso male.