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Quando gli studenti non sono come ce l’aspettavamo…

In questo articolo voglio fare un piccolo resoconto di una mia esperienza da insegnante di italiano L2 e una riflessione di quanto difficile sia fare questo lavoro, soprattutto quando si vuole raggiungere il proprio obiettivo nel rispetto dei principi didattici in cui si crede.

Ripensando a quei momenti mi torna in mente il senso d’inadeguatezza che ho sentito durante la conduzione del corso e tra le righe mi arriva l’amarezza delle tante sconfitte in mezzo a poche vittorie.

Tuttavia, a distanza di un anno, mi sento in dovere di dire che se mi si presentasse un’opportunità simile la coglierei al volo, perché l’intensità e la qualità dei pochi progressi che ho visto mi ha ripagato di qualunque sforzo fatto e mi ha dato nuova energia per continuare a insegnare.

Da quando ho iniziato a lavorare come insegnante di italiano LS e L2, ho avuto classi composte per il 90% da adulti, con l’eccezione di qualche diciassettenne che, di tanto in tanto, entrava a far parte della classe senza provocare grossi cambiamenti al mio modo di lavorare.

L’anno scorso però ho sperimentato la grande differenza tra questi studenti adulti (in classi monolingua e plurilingua), altamente motivati e relativamente fiduciosi nel proprio progresso cognitivo e una piccola classe, affidatami nel luglio 2005, formata da tre studenti adolescenti, la cui variazione di età portava con sé delle diversità talmente evidenti da obbligarmi a considerare ognuno di essi come una tipologia di discente differente: l’adolescente tredicenne non motivato il cui interesse principale è il divertimento e il calcio, l’adolescente quattordicenne fratello maggiore responsabilizzato dai genitori e estremamente timido, l’adolescente sedicenne moderna e sicura di sé che a confronto con i primi due sembra anni luce avanti eppure continua a rimanere un’adolescente. E a queste considerazioni non posso non aggiungere le differenze culturali che allontanano ancor più i due egiziani, entrambi di sesso maschile (questione da non sottovalutare se si vogliono realmente comprendere le reazioni dei due ragazzi di fronte alla evidente “bravura” della ragazza) dalla ragazzina lèttone.

Mettiamo tutto l’insieme variegato appena descritto non all’interno di un contesto scolastico (in cui si presenterebbe il problema dello sviluppo di competenze comunicative di base e di competenze specifiche riguardanti lo studio di microlingue in italiano) e neanche in vista di un inserimento imminente nel contesto scolastico, poiché alla fine del corso, svoltosi durante due mesi estivi, i ragazzi egiziani, figli di immigrati scarsamente scolarizzati che hanno sviluppato una competenza quasi esclusivamente orale della lingua italiana, torneranno in Egitto per frequentare la scuola e solo l’anno successivo i genitori proveranno a far loro completare gli studi in Italia. La ragazzina lèttone, invece, grazie alle eccellenti condizioni economiche della famiglia, appena arrivata in Italia, e per non perdere anni di studio già svolti nel proprio paese frequenterà una scuola privata costosa ma rassicurante, alla fine della quale farà un esame che la catapulterà improvvisamente all’ultimo anno delle scuole superiori. Nel frattempo non sarà necessariamente inserita in una classe, ma forse in un piccolissimo gruppo di studenti e, comunque, le sarà garantita la presenza costante di un’insegnante d’inglese che le spiegherà tutto quello di cui ha bisogno (inclusa la lingua italiana).

Mi sembra evidente che le motivazioni all’apprendimento di questi studenti, quindi, fossero quanto mai differenti, sia qualitativamente che quantitativamente e che creare un gruppo omogeneo e collaborativo fosse una sfida all’ultimo sangue.

Aggiungiamo anche il rilevamento di un dislivello di competenze: i due fratelli avevano una discreta capacità di ricezione orale e di produzione (il più piccolo meno), un differente grado di alfabetizzazione nella lingua madre, delle differenti capacità di riflessione metalinguistica nella lingua madre e, di conseguenza, nella lingua obiettivo, e bassissime capacità di produzione scritta (le sequenza delle parole apparivano dettate solo dal suono e senza consapevolezza del significato delle singole parole) le quali, però, erano in un certo senso consolidate perché entrambi possedevano quella competenza già da qualche anno. La ragazza invece aveva grandi difficoltà nella comprensione dell’input orale e scritto, che quindi doveva essere stimolata e rafforzata, ma aveva anche una maggiore capacità di riflessione. Lo sviluppo di tale capacità, insieme a quello contemporaneo di tutte le abilità (strategia che ho cercato di mettere a punto in classe), lasciava intravedere la possibilità di un rapido recupero e sorpasso nei confronti dei due egiziani.

Voglio aggiungere un ultimo particolare: la condizione economica.

Non credo che sia da sottovalutare perché mentre la ragazza veniva a lezione con tutto l’occorrente per la lezione, incluso un dizionarietto, i due ragazzi questo prezioso dizionarietto non l’avevano. O meglio, avevano un vecchissimo libro di grammatica italiana scritto interamente in arabo, alla fine del quale c’era un mini-dizionario di base molto limitato. Dopo averli più volte invitati a procurarsene uno moderno e tascabile (soprattutto perché il più piccolo non conosceva bene neanche l’inglese, lingua che in casi di incomprensione assoluta potevo usare per dare piccoli incoraggiamenti agli altri due studenti) mi hanno risposto che nelle librerie non c’era un dizionario italiano-arabo e hanno quindi continuato a lavorare con quello che avevano.

Sono sicura che la “bugia” sia stato un modo per dirmi che non potevano comprare niente e che tutto quello che potevano permettersi erano quelle poche lezioni che avrebbero fatto.

In quel momento ebbi l’impressione che insistendo ulteriormente avrei provocato una reazione emotiva di vergogna e chiusura e accettai la scusa, ma adesso, a distanza di un anno, mi dico che forse avrei fatto bene a regalargli io uno strumento così importante per il loro progresso.

Nel caso dei due ragazzi egiziani, infatti, la competenza esclusivamente orale che avevano sviluppato, non era stata accompagnata da una consapevolezza ortografica e morfosintattica, quindi i due fratelli si ritrovavano ad essere inconsapevoli delle parole che usavano, seppure ne conoscessero l’ambito d’uso (senza ancora distinguere il grado di formalità) e questo li portava non soltanto a non sapere distinguere le stesse parole nei testi scritti proposti, ma anche a scriverle in modo del tutto personale nelle  produzioni scritte.

Mai come in queste situazioni è utile un’attività come l’Editing (la revisione tra pari dei testi scritti dagli studenti stessi nel corso di lezioni precedenti) durante il quale ciascuno di loro mette il proprio testo a disposizione di un altro studente (in questo caso lavoravano in tre) e insieme cercano di perfezionare il testo controllando le parole, la sintassi, lo stile e quindi servendosi di tutti i mezzi a loro disposizione: dizionari, grammatiche, esercizi precedenti, qualunque cosa da essi ritenuta utile.

In questo caso l’Editing diventava molto più faticoso, visto che la ragazza non era in grado di contestare che una minima parte (quella relativa al livello morfosintattico e lessicale da lei stessa raggiunto) di quanto scritto dagli altri due. I ragazzi, inoltre, avevano più volte sentito quanto non sapevano trascrivere, ne conoscevano il contesto d’uso e la funzione, ed era quindi molto difficile che mettessero in dubbio la propria convinzione di fronte agli interrogativi della ragazza; riuscivano, al contrario, a spiegare il significato di quello che scrivevano e lei, non sapendo quasi mai da che parte cominciare per verificare quanto le era stato detto, andava avanti senza neanche interpellarmi.

Proprio sul mio ruolo ho deciso di agire per dare più efficacia all’Editing: ho chiesto ai ragazzi di mettere in dubbio tutte le parole e ho dato, tanto per cominciare, un dizionario monolingua che dovevano usare esclusivamente per controllare l’esistenza delle parole e la correttezza ortografica (questa era la consegna, visto che non erano ancora in grado di consultarlo per verificarne il significato). Se non le trovavano, potevano chiedere a me la forma base. Se poi la parola non c’era dovevano cercare di spiegare il significato alla ragazza e lei avrebbe cercato sul suo dizionario. Infine, se neanche questo dava risultati intervenivo io e facevo da dizionario.

In questo modo non posso dire che stessero facendo un Editing, ma una batteria di attività messe insieme, sicuramente utili, ma che talvolta rendevano il procedere del lavoro lento, faticoso e non efficace quanto avrei voluto nello sviluppo di quella indipendenza di indagine e capacità di riflessione che generalmente si potenzia attraverso questa attività.

Non è stato più facile organizzare attività che mirassero allo sviluppo di altre abilità: per tutta la durata del corso sono stata spinta per disperazione e per passione a sperimentare una serie di letture, analisi, giochi, ascolti che potessero coinvolgere tutta la “classe”.

Sono sicura che molti come me conoscono la frustrazione di vedere nel proprio lavoro di creazione di materiale didattico (dettato dalle caratteristiche del tutto uniche delle proprie classi, che non possono essere assecondate da nessun manuale esistente) un mediocre successo, quando non un fallimento, e hanno una gran voglia di distruggere allegramente tutti i testi sulla didattica e sulla linguistica che troppe volte, purtroppo, poco dicono e sanno di quanto realmente avviene in classe.

Tuttavia non mi sono data per vinta e alla fine posso dire di aver anch’io avuto qualche breve momento di gloria…a spese di un pizzico di dignità.

Infatti, sono sempre stata convinta che la lingua che insegniamo debba anche veicolare una certa cultura e per questo ho sempre cercato nei libri di testo e nei materiali autentici, e per tutti i livelli, qualcosa che portasse con sé un pizzico di italianità senza stereotipi e luoghi comuni.

Niente a che vedere con la Lettura analitica sulla biografia di Maradona (per il cui reperimento ho dovuto leggere moltissimi articoli sul calciatore sui più svariati argomenti), tentativo di interessare all’argomento il più giovane, che abitualmente guardava passivamente altri tipi di testo (e quando dico passivamente non intendo descrivere un blocco motivazionale dovuto alla bassa competenza o all’elevato filtro affettivo, ma un’allegra apatia da adolescente che aspetta pazientemente la fine della lezione guardando i muri e parlando in arabo con il fratello). La gioia di apprendere qualcosa di più sull’amato campione (che gli avevo sentito nominare durante una lezione) è stato l’unico modo per farlo leggere volendo trovare un significato in quello che leggeva (la Lettura era proposta come un insieme disordinato di paragrafi molto semplice da ricostruire), e questo lo rendeva attivo quando si univa agli altri due studenti per riferire le informazioni che aveva colto. E anche in quel caso, visto che nonostante l’argomento la ragazza si mostrava sempre più “brava” e ricordava il maggior numero di informazioni (con facce di insofferenza da parte di entrambi i fratelli), ho messo da parte la mia abituale richiesta di avere una visione globale di tutto il brano proposto e ho chiesto ai tre studenti di prendere le notizie principali ognuno da una parte assegnata diversa da quella degli altri due. In questo modo anche lei è stata accolta e accettata per il suo contributo senza sbuffi e sospiri.

Più problematica la Lettura differenziata sul Signore degli Anelli, per cui i ragazzi più grandi avevano la trama del film e il più piccolo la storia di Smigol. Anche quella volta ho strappato letteralmente le regole: mentre i primi due si confrontavano su quanto ricordavano, il più piccolo diceva a me quello che si ricordava. La figura autoritaria, che è sempre presente nella sua cultura come nella sua famiglia, non lo intimoriva e ha lavorato molto meglio che in altre occasioni sotto il mio sguardo e il mio orecchio ascoltante (perché a questo si è limitata la mia funzione). Pensavo che la finale messa in comune delle informazioni sarebbe stata un successo sennonché il maggiore dei fratelli ad un certo momento ha detto “È la storia di Superman?”. Mai dare per scontato ciò che i ragazzi conoscono: al 50% (l’altro fratello conosceva la trilogia) si fallisce.

Della successiva analisi grammaticale (non creata da me) proposta in forma di gioco, vado fiera perché è riuscita senza scetticismo della ragazza sulle idee degli altri e senza grossi traumi.

Si trattava di trovare gli aggettivi possessivi, ma mentre i due più grandi ne avevano meno e dovevano collaborare per cercare di ipotizzare le forme mancanti, il più piccolo aveva le forme che loro non avevano (tranne una) e doveva semplicemente dividere gli aggettivi qualificativi da quelli possessivi (già sottolineati nel suo testo).

Ho tirato un grosso sospiro di sollievo quando il terzetto ha messo insieme le informazioni e ho visto il più piccolo piacevolmente stupito di avere tra le mani un lavoro differente, ma che gli dava un vantaggio, e quindi motivato a parlare (le atre volta lasciava che fosse sempre il fratello a dire tutto) e la ragazza, che nelle altre occasioni, avendo ritmi più veloci, a questo punto mi guardava come se la stessi sottoponendo ad una noiosissima tortura, interessata e attenta a trascrivere i dati mancanti.

Eppure non crediate che questa piccola ragazzina bionda fosse antipatica: si è affezionata ai due fratelli e ha voluto mail e indirizzo dell’Egitto, e la sua stima per entrambi è cresciuta enormemente nelle attività di ascolto in cui i due fratelli diventavano razzi di comprensione (salvo poi non avere assolutamente idea di come si scrivesse quello che dicevano). L’ascolto fatto sei volte con tre persone è duro: soprattutto se due di loro capiscono oltre il 70% e la terza circa il 30%.

L’unico campo in cui potevo metterli alla pari era il lessico: meno lessico comune faceva diventare l’ascolto problematico per tutti e tre e la sfida a capire il problema del signore che ha la caldaia che non funziona (da “Senta, Scusi”[1]) li ha tenuti inchiodati intorno al registratore fino alla fine. (Anzi: un ascolto extra mi è stato volontariamente richiesto da uno dei ragazzi che sosteneva di aver sentito qualcosa su cui gli altri due non erano d’accordo).

E anche quello sul tizio che ha la batteria scarica ha attirato gli entusiasmi dei tre e l’orgoglio maschile (questo è un argomento da uomini) ha perfino spinto i ragazzi a usare suoni, gesti e disegni per spiegare a lei di cosa si stesse parlando.

Meno felici altre attività, giochi ad esempio, che speravo attirassero tutti e tre e infatti così è stato, ma il più giovane aveva solo un forte spirito di competizione e nessun rispetto per le regole del gioco.

Per finire, ancora una volta devo ammettere che c’è stata un’attività che è scivolata dolcemente tra i miei studenti, li ha affascinati, coinvolti e stimolati, gli ha insegnato cose che non dimenticheranno facilmente e me li ha fatti trovare ogni volta un mini-passettino più avanti di quanto non fossero.

Mi riferisco alla Ricostruzione di conversazione. Mi stupisco sempre di riscontrane l’efficacia a tutti i livelli, a tutte le età e con qualunque tipologia di studente (abituato o meno a metodi comunicativi, che lo possono avere soddisfatto o deluso in misura variabile). Ecco che i miei tre supereroi sentono le magiche parole “adesso non scrivete” e si preparano alla divertente insegnante che fa quelle strane scenette e poi, senza accorgersene, lottano con tutte le loro forze per strappare dalle labbra di una scena muta le parole di un italiano e comporle in maniera precisa e verosimile. Ed ecco che il minore corregge il fratello sulla pronuncia e quando si accorge che può farlo, cerca di essere il più bravo di tutti, superando enormi problemi di distinzione tra la “d” e la “t”, la “e” e la “a”. Non solo: vuole anche ricordare tutti gli atti linguistici e lo fa così bene che quando nei giorni successivi chiedo “Vi ricordate…” lui si ricorda e questo l’aiuta a dedurre altre regole da altri contesti e a ragionare sulla lingua in maniera più precisa.

Evidentemente nella Ricostruzione di conversazione c’è qualcosa di più rispetto alla sua normale giustificazione razionale. Per lo studente ci deve essere uno stimolo più profondo (o forse solo più umano): l’uomo (lo studente) ama scoprire l’uomo, osservarlo e, soprattutto, ama indovinare cosa dirà in una determinata situazione e ama scoprire che probabilmente lui avrebbe detto qualcosa di molto simile. Questo gli è costantemente concesso durante l’attività della Ricostruzione di conversazione.

Conclusione: il lavoro che ha preceduto queste attività è stato lungo e faticoso e per mantenere l’attenzione di tutti ho dovuto inserire numerosissime variazioni rimotivanti. Alla fine, non posso decisamente dire di aver trovato l’attività giusta per loro (con l’eccezione della Ricostruzione di conversazione, che tuttavia non può essere l’unica attività svolta in classe senza perdere gran parte della sua efficacia), ma solo di aver riarrangiato le modalità di somministrazione di altre attività senza che i risultati mi lasciassero particolarmente ottimista e tuttavia neanche tanto pessimista quanto all’inizio dell’avventura.

Sono stata fortunata, perché avevo il tempo per fare tutto quello che ho fatto oltre che i mezzi.

Questo è quello che succede nella pratica quotidiana un po’ a tutti noi insegnanti in campo, che prima di entrare in classe sappiamo che ci sono studenti diversi per intelligenze, per motivazioni e per obiettivi, per preconoscenze e per esigenze (e l’elenco potrebbe continuare). abbiamo in testa (e su un foglio) un piano della lezione, un percorso da proporre, degli obiettivi da raggiungere con delle modalità determinate. Poi apriamo la porta, entriamo nel mondo reale di questi studenti ed ecco che in due minuti ci rendiamo conto che è tutto da ri-fare, ri-progettare, ri-pensare insieme a loro.

Questa è la parte faticosa del nostro lavoro, quella che ci fa desiderare che esista l’attività didattica perfetta e lo studente perfetto, almeno qualche volta. Ma questa è anche la parte in cui ci rendiamo conto che fare l’insegnante è un lavoro speciale, un processo di adattamento continuo alle situazioni contingenti, un’infinita ricerca di soluzioni migliori di qualsiasi libro fatto a tavolino. Il che dà spesso il mal di testa e qualche volta l’insonnia, è vero. ma quando i nostri studenti non-perfetti cominciano a imparare, ecco che ci sembra che possano esistere anche dei miracoli minori, più umani, da renderci orgogliosi di aver scelto questo lavoro.

[1] di Stefano Urbani, Roma: Bonacci editore, 1988