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Perché portare un testo scritto in classe?

Una critica all’articolo “La classe monolingue”

L’interessantissimo articolo del collega Roberto Aiello pubblicato in questo numero del Bollettino Dilit mi ha stimolato delle riflessioni e mi ha spinto a scrivere una risposta critica. A titolo esemplificativo prenderò in esame le sue proposte per quanto riguarda il leggere.

Perché portare un testo scritto in italiano in classe? Per rispondere a questo devo rispondere prima alla domanda “Quali sono le condizioni necessarie per l’apprendimento della lingua italiana?” Facciamo un po’ di storia. Domanda: esiste o è esistito un insegnamento linguistico senza portare testi scritti in classe? La risposta è sì. Questa prassi cominciò all’inizio del ventesimo secolo e acquistò sempre più popolarità fino alla sua massima diffusione all’inizio degli anni settanta. In soldoni il ragionamento fu il seguente.

“Bisogna fare una cosa per volta. Così l’apprendimento è più efficace. Il massimo di chiarezza sia per lo studente che per l’insegnante. Oggi si insegna x. Questo x è o una struttura sintattica o un gruppo di parole o una espressione idiomatica. Imparare una lingua significa sommare l’apprendimento di questi elementi. Maggiore è il numero di questi elementi imparati maggiore è la conoscenza della lingua.”

Tipicamente in una lezione si insegnava una struttura sintattica, un gruppo di parole di un campo semantico e un’espressione idiomatica generalmente tematicamente associata al campo semantico delle parole. La parte considerata più importante erano le strutture sintattiche. Infatti molto impegno è stato messo nel trovare l’ordine più efficace per insegnarle. Il buon senso, aiutato dalla psicologia di apprendimento più in voga all’epoca, il comportamentismo, dettava un ordine che andava dalla più semplice alla più complessa. I diversi metodi che applicavano questi principi – tutti di gran successo – si chiamavano Metodo Diretto, Metodo Audio-orale, Metodo Audio-visivo, Metodo Situazionale (anche se quest’ultimo era un pochino più libero con l’applicazione dell’ultimo principio) ed altro. Con David Wilkins ed altri studiosi che cominciavano ad esprimere dubbi e critiche durante gli anni settanta possiamo raggruppare questi metodi sotto il nome di “Approccio Strutturale”.

Prima di considerare le nuove idee, i dubbi e le critiche che hanno messo in crisi l’Approccio Strutturale, diamo a Cesare ciò che è di Cesare. Testi scritti sono apparsi nell’insegnamento prima del tramonto dell’Approccio Strutturale. La “Longman” la casa editrice più prestigiosa nel mondo dell’insegnamento della lingua più studiata nel mondo – l’inglese – pubblicò alla fine degli anni sessanta un libro di testo – poi diventato un best-seller – “Kernel Lessons” contenente testi scritti, uno per lezione (o “unità” come, secondo la moda dell’epoca, si chiamavano le lezioni). Il titolo del libro lascia immaginare che l’autore avesse letto qualcosa scritto dal linguista Chomsky, il quale parlava in un primo momento di “strutture kernel” ossia strutture sintattiche di base dalle quali le altre potevano essere generate con progressive trasformazioni. Le famose critiche di Chomsky al comportamentismo non avevano però influenzato in alcunché la stesura del libro tranne che, forse, nel maggior “rischio” rispetto agli altri libri di tipo “strutturale” nella decisione di includere testi scritti. Questi testi scritti, tutti rigorosamente costruiti a tavolino, applicavano un principio per il quale il glottodidatta Krashen diventerà famoso qualche anno dopo. Peraltro è paradossale che Krashen si riteneva originale nella sua proposta, fatta anni più tardi, della necessità di fornire allo studente dell'”input comprensibile” per consentire l’acquisizione linguistica. La definizione più frequente che Krashen dà del termine “input comprensibile” (anche se ad una lettura attenta degli scritti di Krashen non mancano delle contraddizioni, ma sarebbero oggetto di un articolo intero) è: lingua contenente “i+1” dove “i” sarebbe il punto dove è arrivato lo studente e +1 sarebbe la prossima struttura da imparare. Il contesto permette allo studente di intuire (parola mia: Krashen non parla di intuizione) il significato di questa nuova struttura. Questo è esattamente ciò che “Kernel Lessons”, uscito anni prima dell’apparizione di Krashen sulla scena, proponeva. Si trattava di un giallo che si chiamava “The Man Who Escaped”, scritto un episodio per lezione in modo che la struttura che sarebbe stata oggetto della successiva lezione già appariva qua e là immersa in un testo che altrimenti conteneva soltanto strutture già insegnate. È paradossale pure che tutti gli studiosi anche di oggi, che siano a favore o contrari a questa idea, l’attribuiscono a Krashen. È curioso come certe idee vengono scritte nella storia ed altre no, ma anche questo sarebbe oggetto di un altro articolo!

Torniamo a noi. Perché Wilkins, e con lui tutta l’équipe di linguisti impegnati dal Consiglio di Europa durante i primi anni settanta, criticava l’Approccio Strutturale? Bisognava spostare l’attenzione dalla lingua – le sue strutture – all’utente della lingua – lo studente. I programmi non dovevano più basarsi su come è fatta la lingua (programmi “strutturali”), bensì dovevano basarsi sui bisogni comunicativi della persona che doveva usare la lingua (programmi “semantici” diceva Wilkins, in seguito corretto da Widdowson in programmi “pragmatici”). In altri termini bisognava rendere i programmi più efficienti, evitando tempo perso ad imparare strutture di basso “valore di spendibilità” con il vantaggio che lo studente sarebbe diventato più motivato riconoscendo la alta utilità delle cose che andava imparando. Per la massima e più rigorosa espressione di questa nuova accezione della programmazione rimando il lettore al libro di John Munby “Comunicative Syllabus Design” (Cambridge University Press, 1978).

Nuovi libri di testo venivano pubblicati con una ricchezza e una varietà di tipi di frasi mai viste prima. Tutte rigorosamente scritte a tavolino. I testi scritti come quelli che si trovavano in Kernel Lessons, ormai accettati, continuavano ad apparire.

Ma qualche cosa mancava. In realtà tutta l’attenzione era stata posta su che cosa imparare. Il Consiglio di Europa e i suoi linguisti non si ponevano il problema di come si impara una lingua. Lasciavano credere che la teoria comportamentista, che andava ancora per la maggiore nonostante le critiche feroci da parte di Chomsky, fosse sufficiente per spiegare l’apprendimento linguistico e quindi il modo di insegnare poteva rimanere più o meno uguale a prima. Cioè, in soldoni, le frasi dovevano essere ripetute tante volte finché non venivano fissate come abitudini automatiche. La palese contraddizione del alto numero, rispetto a prima, dei tipi di frasi presentate all’interno di una lezione – e quindi la necessità di farle ripetere tutte a sufficienza nello stesso tempo in cui si insegnava un numero molto inferiore prima – sembrò sfuggire all’attenzione dei linguisti che proponevano con forza i nuovi programmi.

Per fortuna c’erano altri studiosi che si interrogavano sulla fondatezza della tesi comportamentista. Visto che, per i comportamentisti, l’apprendimento di una lingua è costituito dalla formazione di abitudini e la conseguente necessità di sradicare abitudini sbagliate, cioè quelle che venivano dalla lingua madre, gli errori prodotti da un determinato studente dovrebbero corrispondere a forme che esistono nella sua lingua di partenza. Questi nuovi studiosi hanno rivelato, invece, che non è così. Anzi dimostravano che adulti che imparano una seconda lingua fanno molti errori simili a quelli commessi dai bambini che imparano la loro prima lingua. Non soltanto, hanno dimostrato che molti degli errori commessi sono ricorrenti in studenti provenienti da lingue madre molto diverse l’una dall’altra.

Insomma per questi nuovi studiosi, venuti alla luce all’inizio degli anni settanta, la teoria comportamentista dell’apprendimento linguistico non spiegava i dati empirici. Bisognava caratterizzare l’apprendimento con una teoria diversa: la teoria dell’interlingua. Tale teoria dice che lo studente di lingua utilizza un sistema, una grammatica di passaggio. Un sistema che si “complessifica”, tutto, man mano che fa progressi. E questo processo è di carattere “naturale”. L’essere umano, come diceva Chomsky, è dotato di un meccanismo di acquisizione linguistica, che lavora a un livello subcosciente, dietro le quinte se si vuole. L’ordine in cui le regole venivano scritte nella mente, prima in modo rozzo e poi sempre più raffinato, sempre più simile a quelle di un madrelingua, sta all’interno dello studente. Questo ordine, di carattere naturale, non può essere cambiato dalla volontà di un insegnante. Lo studente deve percorrerlo regola dopo regola, riscrittura più complessa dopo riscrittura più complessa. La funzione dell’insegnante non è di cercare di cambiare l’ordine bensì di creare le condizioni in cui questo percorso sia il più rapido possibile.

Ci sono due condizioni necessarie per questa complessificazione: l’input di dati linguistici attendibili e la possibilità di mettere alla prova la propria interlingua attuale.

Per quanto riguarda la prima condizione, l’input, non si può sostenere che singole frasi inventate corrispondono alla natura. Allo stato naturale, la lingua si presenta in testi, non in singole frasi. Per testo si intende sia testo scritto che testo orale. In altri termini, è necessario che lo studente abbia a disposizione testi (scritti e orali) naturali. Tornando al quesito posto all’inizio dei questo articolo, è questo il motivo per cui è importante portare in classe testi scritti. È per garantire che i dati attendibili siano a disposizione del meccanismo di acquisizione linguistica presente nella testa di ciascun studente, il quale meccanismo lavora poi sotto il livello di coscienza.

Nella fattispecie l’articolo di Roberto Aiello parla di studenti all’inizio del percorso. È un momento critico: i teorici dell’interlingua ci dicono che il primo compito del meccanismo di acquisizione linguistica è di misurare la distanza che c’è fra la conoscenza linguistica già acquisita (in questo caso soltanto la lingua madre, inglese) e la lingua bersaglio (in questo caso l’italiano). È solo quando questa misurazione viene effettuata che viene stabilito il punto di inizio del percorso di complessificazione. Più grande è la distanza fra le due lingue più basso è il punto di inizio. Per ogni studente la prima interlingua viene creata a questo punto. Se viene rimandato l’incontro con testi naturali viene rimandata la possibilità di iniziare il processo. È per questo che non si può cedere a tentazioni di “rendere la vita in classe più facile” proponendo singole frasi inventate.

Ora, avendo quindi deciso di portare testi scritti naturali in classe va ovviamente affrontata l’eventuale ansia dello studente. In quest’ordine però, non il contrario! L’obiettivo deve essere far sì che lo studente perda eventuali paure che possono sorgere in lui quando si trova davanti a un testo scritto sconosciuto. È solo così che smetterà di respingere occasioni di lettura che si presenteranno in futuro. È solo così che potrà continuare a far complessificare la sua interlingua.

Questa complessificazione ha luogo ogni volta che lo studente tenta di ridurre il grado di incomprensibilità di un testo. Cioè, ogni volta che cerca di capire qualcosa.

Nella fattispecie Aiello ci dice in sostanza che questi studenti americani non vogliono collaborare. Devo aggiungere che ho sentito cose analoghe da insegnanti che insegnano a casalinghe tedesche, a ragazze alla pari svizzere, a ragazzi coreani mandati in Italia da padri facoltosi, a adolescenti della scuola dell’obbligo, a adulti inglesi che studiano italiano un’ora la settimana, a ragazzi svedesi, ad arabi che hanno imparato il corano recitandolo ad alta voce, a giovani spagnoli che fanno vacanze-studio, e chi più ne ha più ne metta.

Insomma, qual è il problema? È molto semplice. Lo studente pensa quanto segue: “Leggere un testo scritto significa capirlo. Per capire questo testo ci metterò un sacco di tempo e alla fine di questo tempo sarò completamente esausto. E probabilmente non mi ricorderò quasi niente delle nuove parole che ho imparato. È un’impresa noiosa e inutile.”

Bisogna ammettere che è un ragionamento degno di pieno rispetto. Lo studente ha perfettamente ragione. O esiste un altro ragionamento ugualmente degno di rispetto o bisognerebbe rimandare molto più avanti nel tempo il contatto con testi naturali. Compromessi, come quello proposto da Roberto Aiello, ideati nella speranza che si riesca a contenere il disagio dello studente a un livello tale che “tolleri” lo stress saranno ben intenzionati ma, a mio avviso, malfondati. Lo stress deriva dal fatto che il ragionamento intelligente espresso nel capoverso precedente viene disatteso. Se il compromesso funziona è semplicemente grazie alla “generosità” dello studente di farsi trattare come se non fosse intelligente.

Uno studente che “tollera” la lezione, uno studente che spende una parte della sua energia nell’essere generoso, non è certo uno studente che dedica la massima energia all’appropriazione del sapere. Che, invece, è quello che ogni insegnante desidera.

Che fare allora? Secondo me bisogna esaminare il ragionamento intelligente citato prima e vedere se ci ne sia un altro che è ugualmente intelligente e che non porti al rimando nel tempo del contatto con testi naturali. Il ragionamento soprastante inizia con l’affermazione che “leggere un testo significa capirlo”. Il resto del ragionamento è la dovuta conseguenza di questa affermazione. Se invece lo studente assume come definizione di “leggere un testo scritto” “cercare di capirne qualsiasi banalissimo aspetto, anche totalmente sbagliato”, le dovute conseguenze sono completamente diverse. Leggere un testo scritto diventa un gioco; non c’è stress.

Come fare per consentire a uno studente di ridefinire la definizione di leggere? Non, certo, annoiandolo con pesanti discorsi di convincimento. Bisogna organizzare esperienze in cui l’intelligenza dello studente percepisce le cose in questo modo.

Il principio fondamentale da far vivere allo studente è la “colmatura”. Che significa? Significa che la mente umana colma senza sforzo lacune in informazioni incomplete. Leggere deve essere vissuto come un gioco, non uno sforzo.

Propongo un modo. Distribuire il testo da leggere. Tenere un foglio A4 davanti agli studenti e fare alcuni buchi nel foglio. Distribuire dei fogli A4 e invitare gli studenti a fare dei buchi come hai fatto tu. Ognuno pone il foglio A4 sul testo scritto e legge le parti visibili del testo (anche con un dizionario se si vuole). Gli studenti vengono poi messi in coppie, uno seduto davanti all’altro, girano il testo faccia giù, e raccontano al compagno (anche in inglese) ciò che credono dica il testo. Poi, i fogli A4 vengono passati ad un altro studente e ripetono la lettura delle parti del testo che si vedono. Di nuovo raccontano al compagno ciò che credono dica il testo. Questo procedimento può essere ripetuto 4 volte (anche con un cambio di compagno) e l’attività viene dichiarata terminata. Se, ogni volta che si vuole portare in classe un testo scritto ci si comporta così, dopo poche lezioni la realtà della colmatura e l’utilità di riaffrontare lo stesso testo più volte saranno parte del bagaglio intellettuale di ogni studente in classe.

Un giorno si potrà dire alla classe “provate a fare la stessa cosa senza il foglio bucato. Cioè, provate a leggere solo alcune parti del testo, questa volta scelte liberamente, favorendo ciò che è facile e la parte finale”. E dargli un tempo molto limitato, per esempio 2 minuti. Anche qui si ripete 4 volte intervallate con consultazioni in coppie.

Prima di arrivare a questa fase si possono fare delle “letture” in cui devono leggere la prima riga di ogni capoverso, o si può far numerare le righe, buttare un dado e il numero che esce e i suoi multipli determinano le righe che devono leggere, ecc..

Provate… e scriveteci. Pubblicheremo i vostri commenti.