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Lo stato dell’insegnamento delle lingue straniere: un parere

A differenza di quel che accade in altre professioni, nella nostra si legge pochissimo. Esiste un abisso tra ciò che scrivono i teorici e ciò che fanno i “praticanti” (cioè gli insegnanti). Chi va in casa di un medico troverà testi scientifici relativi alla sua disciplina (e non solo quelli sui quali ha studiato all’università). Un architetto non costruisce case, quest’anno, con gli stessi criteri con cui le costruiva cinque anni fa: nel frattempo avrà letto riviste specializzate e si sarà aggiornato sugli ultimi sviluppi delle ricerche in materia di movimenti d’aria, di consistenza dei materiali, ecc. Per quanto riguarda il nostro campo, invece, sono rarissimi gli insegnanti che leggono quel che scrivono i teorici.

In queste pagine vorrei presentare un breve panorama, dal mio punto di vista, del periodo più recente della storia della glottodidattica nel settore delle lingue straniere.

Dopo la seconda guerra mondiale si diffuse rapidamente in tutto il mondo un particolare approccio nell’insegnamento delle lingue straniere, che possiamo definire “approccio strutturale”, il quale riportò presso gli insegnanti un successo straordinario, da far invidia al più ambizioso degli imperatori. In quegli anni bastava sapere che uno studente seguiva la lezione numero dieci a Tokyo o a La Paz e si poteva desumerne con una certa esattezza quale struttura sintattica stava imparando e in che modo quest’ultima veniva presentata. Il vantaggio di questo approccio consisteva nella sua sicurezza, nella sua semplicità. Gli obiettivi erano chiarissimi: si trattava di presentare le singole strutture sintattiche della lingua, una alla volta, “in” frasi (cioè mediante l’esibizione di frasi che le contenessero), iniziando dalle strutture più semplici e progredendo via via verso quelle più complesse. I presupposti psicologici erano di natura comportamentista: assumevano, cioè, come postulato fondamentale che imparare una lingua significa acquisire abitudini corrette. Da ciò scaturiva la convinzione che, evitando abitudini sbagliate e ripetendo più e più volte comportamenti corretti fino a consolidarli in abitudini, si poteva apprendere una lingua molto rapidamente.

Nel 1957 fece la sua comparsa il famoso libro di Skinner Verbal Behavior, il quale veniva a conferire un avallo accademico ai criteri con cui già operavano gli insegnanti di lingua. Due anni più tardi, tuttavia, in una sua recensione critica a quest’opera, Chomsky riuscì a smontare il modello comportamentista dimostrando che esso non poteva in alcun modo rendere conto della dinamica dell’apprendimento delle lingue: un modello, come quello comportamentista, che ignorava i processi cognitivi, veniva così a trovarsi destituito di ogni fondamento. I discorsi di Chomsky ebbero però scarso effetto sui “praticanti”: gli insegnanti continuavano come se nulla fosse accaduto.

In seguito, inoltre, Chomsky ha introdotto la distinzione fra esecuzione linguistica e competenza linguistica, affermando che solo quest’ultima costituisce l’oggetto proprio della teoria linguistica. “La teoria linguistica riguarda primariamente il parlante-ascoltatore ideale, in una comunità linguistica completamente omogenea, il quale conosce perfettamente la lingua della comunità e non viene influenzato da condizioni grammaticalmente irrilevanti quali limitazioni di memoria, distrazioni, spostamenti di attenzione e di interesse ed errori (casuali o caratteristici) nell’applicazione della sua conoscenza della lingua nel corso dell’esecuzione effettiva.”

Nel 1966 Hymes ha mostrato i limiti di una tale concezione. “Quando la nozione di esecuzione viene presentata come ‘l’uso reale della lingua in situazioni concrete’, viene anche affermato che solo nella citata idealizzazione l’esecuzione può riflettere la competenza e che ciò nella realtà non può verificarsi. ‘Una registrazione del discorso naturale mostrerebbe tante false partenze, deviazioni da regole, cambiamenti di progetto a metà percorso, e così via’. Si parla di dati linguistici primari come ‘qualitativamente abbastanza degenerati’, oppure di esecuzione linguistica come ‘adulterazione’ della competenza ideale. Mentre l’esecuzione è una categoria piuttosto residuale per la teoria, è chiaro che la sua connotazione più saliente è quella di una manifestazione imperfetta del sistema sottostante.” Hymes, quindi, formula contro il concetto chomskyano di competenza l’accusa di essere incompleto. Come dicono Brumfit e Johnson: “Per Chomsky la competenza significa semplicemente ‘la conoscenza del sistema linguistico’; in altre parole, la conoscenza grammaticale. Però, se consideriamo la competenza come l’intera conoscenza sottostante, che il parlante-ascoltatore possiede, dell’uso della lingua nonché la sua intera capacità sottostante di far uso della lingua, allora dobbiamo riconoscere che ciò implica molto di più che non la conoscenza della (e la capacità per la) grammaticalità. Esistono, come dice Hymes, ‘regole d’uso senza le quali le regole di grammatica sarebbero inutili’. Anzi, se un parlante dovesse produrre frasi grammaticali senza tener conto delle situazioni in cui vengono utilizzate, sarebbe considerato senz’altro squilibrato. La competenza vista come l’intera conoscenza e capacità linguistica sottostante comprende quindi i concetti di appropriatezza e di accettabilità (nozioni che in Chomsky fanno parte dell’esecuzione), e lo studio della competenza comprenderà inevitabilmente la considerazione di variabili quali atteggiamento, motivazione, e numerosi fattori socioculturali”.

Le idee di Hymes cominciarono ad avere notevole diffusione dal 1971, da quando cioè apparvero nel libro On Communicative Competence. E sta di fatto che pochi anni dopo, nel 1975, nel campo dell’insegnamento inglese il primo libro di testo “funzionale”, Strategies, venne accolto dagli insegnanti con grande entusiasmo. Credo però che le cause di tale successo siano da ricercare, più che in una precisa cognizione dei discorsi di Hymes, in altri fattori. La fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta hanno costituito un periodo di cambiamenti sociali tanto profondi da mettere in dubbio il modello comportamentista dell’uomo. Il comportamentismo, che pretendeva di spiegare tutto in termini di condizionamento, di rafforzamento di buone abitudini, non poteva spiegare il movimento femminista, il movimento omosessuale, il “Black Power”, il movimento della descolarizzazione, la “morte della famiglia” e tante altre forme di disobbedienza civile. Evidentemente la gente ragionava, usciva dagli schemi tradizionali. Di conseguenza era impossibile continuare a negare l’importanza dei processi cognitivi, come facevano i comportamentisti. Gli insegnanti vissuti in questo periodo storico non potevano non modificare, più o meno coscientemente, i loro presupposti su come gli esseri umani imparano. In altre parole, l’attrattiva di Strategies consisteva non tanto nella sua programmazione “funzionale”, quanto nel suo ottimismo: finalmente era uscito un libro che non “dosava” con grande cautela gli elementi da apprendere, un libro che non aveva paura degli eventuali errori degli studenti, un libro che traboccava di esperienze linguistiche, nella certezza che gli studenti erano in grado di classificare e assimilare un altissimo numero di regole. Inoltre, per la prima volta in un libro veniva presentata una lingua “realistica”, cioè personaggi verosimili che comunicavano tra loro in modo verosimile.

Negli anni seguenti sul mercato si rovesciò una valanga di testi funzionali, la maggior parte dei quali diventati dei best-seller.

Poi arrivò la critica: i testi funzionali non sarebbero stati altro che “phrase-book” sofisticati; gli studenti avrebbero imparato, sì, frasi utili, ma non le “basi” della lingua. Questa critica produsse due reazioni opposte. La prima è quella che chiamerei della “Grande Paura”. Si prese a dire, e a ripetere, che si era sbagliato e che gli studenti hanno bisogno delle “strutture”: non si doveva quindi abbracciare così ciecamente il nuovo dogma, bisognava tornare indietro. Keith Johnson scrisse sul Modern English Teacher che, certo, le critiche rivolte ai corsi strutturali erano giuste, ma che alle carenze lamentate si poteva ovviare mediante corsi strutturali migliorati: non c’era bisogno di perdere la testa e gettarsi a capofitto su qualsiasi trovata che avesse il solo merito della novità. Gli pseudo-intellettuali della “teoria del pendolo”, quelli che spiegano tutta la teoria dell’umanità in termini di oscillazioni da un estremo all’altro, fecero festa: ve l’avevamo detto, è sbagliato accettare dogmi, nuovi e vecchi che siano. Nacque il dogma “anti-dogma”, la filosofia del buon senso, il pragmatismo acritico (“se funziona, è giusto” – ma che significa “funziona”?), I”‘ibridismo”, I’eclettismo (“prendiamo il meglio di tutti gli approcci”). Insomma, la chiarezza di obiettivi teorici divenne sinonimo di “dogma”, e perciò da condannare.

Alla critica contro i corsi funzionali si è andata sviluppando, però, anche una reazione di tipo diverso. Una reazione con le idee un po’ più chiare, la quale sosteneva che il vero compito dell’insegnante di lingua era di affrontare il problema costituito dalla incompetenza comunicativa e che le affermazioni di Hymes erano di importanza decisiva. Gli esponenti di questo secondo tipo di reazione non consideravano affatto l’approccio funzionale “come l’estremo opposto dell’approccio strutturale”, ma come il primo tentativo di affrontare il problema dell’incompetenza comunicativa. Bisognava andare molto più avanti. Perché i corsi funzionali non avevano risolto il problema? In parte perché moltissimi insegnanti non avevano cambiato in alcun modo i loro metodi d’insegnamento: le tecniche erano rimaste le stesse. Anzi, si diceva comunemente che l’approccio funzionale riguardava solo la programmazione dei corsi: la metodologia non c’entrava. In secondo luogo, l’unità d’insegnamento era rimasta uguale: cioè, la frase. Le frasi venivano etichettate in termini semantici anziché in termini formali e venivano presentate in un ordine diverso, ma si insegnavano sempre e soltanto frasi.

La comunicazione richiede, invece, la capacità di mettere delle frasi insieme, di produrre e capire il discorso esteso. Bisognava quindi trattare come unità d’insegnamento brani di discorso esteso, e non più frasi. Ha preso così il via una serie di studi, che continuano tuttora, aventi per oggetto l’analisi del discorso esteso. E si scoprono di continuo nuove regole e nuovi sistemi di regole. Prendiamo, per esempio, le “regole sequenziali”. In una conversazione telefonica gentile in lingua inglese, le prime tre mosse sono generalmente le seguenti:

1. La persona chiamata risponde al telefono;
2. la persona chiamante risponde alla risposta;
3. la persona chiamante chiede della persona con cui vuole parlare.

Invece in italiano si introduce una mossa supplementare tra la seconda e la terza, cioè: la persona chiamante si presenta.

Secondo Guy Aston: “Le regole sequenziali rispondono alla domanda ‘Che cosa devo fare a questo punto?’. Mettono in relazione, in altri termini, non atti con enunciati, ma un atto con l’atto seguente. Se per esempio, una persona mi fa una domanda, nella situazione in cui io vengo a trovarmi è appropriato o dare la risposta relativa, o promettere di dare tale risposta, o spiegare perché non si può dare tale risposta. Quindi replicando a ‘Dov’è la stazione, per favore?’, posso dire ‘Dietro l’angolo’, ‘Attenda un attimo’ oppure ‘Non lo so’. Normalmente non è appropriato rispondere ‘Piacere’. La prima cosa da notare circa le regole sequenziali è che in realtà esse non riguardano affatto il sistema linguistico: riguardano la cultura. In molti casi si può pensare che siano internazionali. Certo, tra Italia e Inghilterra, per quanto riguarda il rispondere a domande, la prassi è piuttosto simile, ma esistono casi di comunità (Indiani pellerossa) in cui è perfettamente appropriato rispondere a una domanda dopo venti minuti anziché subito. Ma ci sono anche casi in cui le regole sequenziali sembrerebbero diverse tra Inghilterra e Italia. Per esempio, in Inghilterra chi entra in un piccolo negozio normalmente aspetta che il commerciante gli chieda cosa vuole. In Italia pare che sia il cliente a dover prendere l’iniziativa. La regola sequenziale che dice cosa fare dopo essere entrati nel negozio risulta diversa, con la conseguenza che un inglese in Italia rischia di essere considerato riservato e non incisivo, mentre un italiano in Inghilterra rischia di venir considerato scortese o invadente. (Questo, fra l’altro, costituisce un esempio di una verità abbastanza generale.) L’appropriatezza interessa lo studente di una lingua straniera non perché egli rischia di non essere capito, ma piuttosto perché rischia di essere capito male e considerato scortese o antipatico. È poco probabile che un errore grammaticale dia luogo a queste annotazioni negative, perché la maggior parte della gente accetta che gli stranieri facciano errori di grammatica, ma non accetta che siano scortesi.”

Le regole sequenziali sono solo uno dei sistemi di regole della comunicazione scoperti negli ultimi anni. Se l’unità d’insegnamento rimane la singola frase, non solo lo studente, in classe, non incontrerà mai queste regole della comunicazione, ma per di più esse verranno spesso infrante. Se invece l’unità d’insegnamento consiste in un brano di discorso esteso, questo vale a garantire da un lato che lo studente entrerà in contatto con tali regole, dall’altro che esse non saranno violate. A questo punto vorrei, però, prevenire una possibile obiezione, puntualizzando che l’esigenza di prendere in esame, nel lavoro di classe, le regole del discorso esteso non implica necessariamente che l’insegnante debba averne una conoscenza esaustiva. Implica soltanto due cose: che non si possono presentare brani di discorso esteso contenenti errori e che l’insegnante deve essere cosciente dell’esistenza dei vari sistemi di regole che operano nel discorso esteso. Va notato, del resto, che anche nell’ambito dei precedenti approcci non si era mai avanzata la pretesa che l’insegnante avesse una conoscenza perfetta di tutte le regole grammaticali della lingua. Anche lì, si richiedeva solo che egli non presentasse frasi contenenti errori grammaticali e che fosse cosciente dell’esistenza di regole grammaticali.

Per concludere, va precisato che, anche se i quattro approcci (lo strutturale, il funzionale, l’eclettico e il comunicativo) sono stati qui presentati seguendo un percorso storico, in realtà nella fase attuale essi permangono tutti. Basta ascoltare un insegnante che parla del suo lavoro e fare attenzione al modo in cui descrive i progressi dei suoi studenti, per capire quale approccio segue.