Cerca

post

La classe monolingue: un’idea di esperienza

Noi non smetteremo di fare esplorazioni
E la fine di tutto questo esplorare
Sarà arrivare dove eravamo partiti
E conoscere il posto per la prima volta.
T.S. Eliot
Quattro Quartetti

I significati sono cristallizzati, dormono.
Devo risvegliarli. Per risvegliarli devo dire
di no a tutto ciò che dorme, che è oscuro, nascosto.
Devo risvegliare me stesso, diventare sveglio come
finora non lo sono mai stato.
Enzo Paci
Diario fenomenologico

Dunque, saremmo stati qui…
Benjamin

Polemica in forma di farsa

luoghi comuni sono rassicuranti. Eliminano complicazioni, riducono complessità non sempre gestibili. Ogni topos ci consente di non rimettere tutto costantemente in discussione, e di semplificare le nostre operazioni categoriali. È questione di igiene mentale, non si può ogni volta ridiscutere tutto, e procedere a ritroso. Non è pensabile. Ma è bene considerare anche il rovescio della medaglia.

Infatti, col tempo, il contenuto di verità di cui il luogo comune era portatore si usura. Traligna in una traccia labile ed opaca. Si assottiglia in uno stereotipo spesso vuoto e superficiale. Così ci si impigrisce, attenendoci a quel che ci suggerisce e smarrendo ogni facoltà critica. Si dà per scontato, insomma, diventando noi stessi superficiali nei giudizi e sommari nelle valutazioni dei fenomeni. È un rischio costante, bisogna farci i conti, stare in allerta, soprattutto noi insegnanti..

Perché questa avvertenza dalla solennità equestre?

Nel nostro mondo – minuscolo e concentrazionario – di insegnanti L2 mi sono sovente imbattuto in un irritante luogo comune che mi chiama in causa direttamente, e che recita più o meno così: la Dilit, quella cosa abbastanza ingombrante e strana ove si insegna l’italiano, accoglie solo o prevalentemente studenti “particolari”. Questa genìa di studentaglia eletta sarebbe in natura già predisposta ad un approccio metodologico di tipo comunicativo avanzato e “bizzarro”. Anzi, pretende solo quello; è qui da noi nell’edenica dilit proprio per questo. Infatti, ripudia in toto la dipendenza dall’insegnante; porta collarini d’aglio per scacciare gli spiriti maligni della “grammatica”; chiede di parlare e parlare e ancora parlare solo in italiano; vuole lavorare fra pari perché l’idea di ricerca e scoperta è introiettata da sempre; con sguardo estatico ci implora di giocare con i testi giornalistici e letterari; impetra ascolti solo e autenticamente italioti pescati dalla radio, dalla televisione et similia, etc. Noi insegnanti made in Dilit dovremmo solo accogliere tali anime gemelle, e svolgere questa sorta di sinecura in un sistema di pacificate intese.

Certo così la vita è nà bellezza. Ci si sciala con ombrelloni e sdraio. Ci si gratta creativamente panze e pelurie. Tutto liscio come l’olio abbronzante datoci in dotazione non appena avventizi. Niente mazzo, niente fatica, una sorta di attività da diporto per notabili di campagna.

Sciocchezze. Tutto falso. Si tratta di pure stereotipate irritanti frottole, i.e. di una falsa rappresentazione della realtà basata sul vecchio topos che la Dilit sceglierebbe i propri studenti, apparecchiando una giocosa crociera per gli happy few. Saremmo in presenza di una sorta di miracolo paleocristiano in grado di moltiplicare i pesci d’allevamento. Non è affatto così. Se è certo che un insegnante non sceglie i propri studenti, neanche una scuola, se vuole crescere, può limitarsi a cercarli tra i propri “simili”. E probabilmente la sfida teorico-metodologica, oltre che naturaliter “economica”, sta pure nel realizzare i propri programmi didattici, le proprie convinzioni pedagogiche – assicurando sempre elevati standard di qualità – lì dove le resistenze sono maggiori. È persino naturale, mi pare.

La mia versione parodistica circa la credenza diffusa sugli studenti Dilit non è poi così distante dal luogo comune.

In realtà, la dimensione effettuale è ben diversa, ed assai semplice da descrivere: qui sbarcano oramai persone di provenienza, estrazione e convinzioni assai diverse, che spendono soldini tintinnanti e pretendono, guarda un po’, di apprendere una lingua secondo le convenzioni tipiche, e a volte persino in base alle credenze di stampo più tradizionale. Almeno all’inizio, le aspettative dello studente sono approssimativamente queste: c’è un insegnante che insegna, ed uno studente che attraverso lui impara. Stop. Al tipico studente poco importa di innovazione e tradizione; non è insegnante, né esperto di glottodidattica. Deve, vuole imparare questa bella lingua, ma difficile. A volte in 4 settimane, a volte in un tempo più lungo. Sia che si tratti di adulti barbogi che vengono a scaldare qui le ossa, abbeverando la cucuzza alla sontuosa cultura indigena; sia che si parli di giovani e giovanissimi che arrembano le discoteche di Roma per scopacchiare sparso e abbondante, e ruttare l’amatriciana.

Cari miei la vostra realtà è anche la nostra. Tutto qui.

Quant’è bella l’America

Se questo è il quadro sintetico dell’”utenza” non dissimile da altre scuole, alla Dilit accade pure di doversi confrontare con situazioni peculiari che presentano, almeno in premessa, ulteriori difficoltà rispetto allo standard. A tale proposito, vorrei esporre una mia diretta esperienza nella conduzione di corsi, questa volta sì, “particolari”. Specificamente si tratta della classe monolingue. Meglio ancora, della classe di soli studenti americani. Universitari, o persino liceali, che vengono qui da noi per ottenere dei crediti di studio.

Gli americani, che gente! Per fortuna che faccio il lavoro che faccio, altrimenti ci sarebbe da intimidirsi. L’abitudine, mai troppo complicata e difficile, al confronto con culture spesso sideralmente diverse dalla propria mi soccorre. E certo! Piantarsi davanti a 15 virgulti della futura classe dirigente USA non è robetta. Sono americani! Ovvero i più formidabili produttori ed esportatori di ideologia e di valori simbolici, di modelli di comportamento e di immagini sociali. “Gli USA incarnano l’idea stessa di un modo di vivere e di essere.”[1]

La mia bella gioventù yankeee ha, quindi, anche precise idee ed omogenee su come una lingua si apprenda:

  1. a) la grammatica è lo strumento essenziale per apprendere
  2. b) sono necessari molti esercizi, preferibilmente di tipo strutturale
  3. c) l’input di qualsiasi tipo (testo scritto o orale) deve essere introdotto preventivamente da una lista di parole che prefiguri il contesto
  4. d) l’insegnante deve effettuare sempre una completa correzione dell’output (sia scritto che orale)
  5. e) l’insegnante deve necessariamente assumere una posizione direttiva e centrale

Questo dunque l’orizzonte – quantomeno insidioso dal mio punto di vista – in cui è tenuto ad operare un insegnante che abbia commercio con questa tipologia di corso. Da qui si deve necessariamente partire. Come insegnante non posso, perciò, esimermi dal considerare il tipo di esperienza che hanno queste persone dell’apprendimento.

Ed esperienza è proprio parola chiave.

Fenomenologia di un per/corso  (“Ma con chi ho a che fare?”)

Tradizione e credenze

Pensiamo allora al nostro studente tipo americano, incarniamolo in John. John non è un marziano catapultato qui, alla Dilit. Ha una biografia piuttosto articolata, come lo è, più o meno, quella di tutti. Nella sua sfera individuale complessa confluiscono innumerevoli elementi, dei quali non si può ragionevolmente tenere la contabilità. Tuttavia, è possibile supporre con un alto grado di sicurezza che, come tutti, accanto ad esperienze singolari lui possegga e maneggi cospicue quote di un sapere condiviso. Di cosa si tratta? Nient’altro che di un insieme eterogeneo, una conoscenza condivisa e presupposta che circola all’interno di una comunità, caratterizzandola. Questo semplicemente rappresenta una delle condizioni essenziali affinché i membri di una comunità possano interagire, ritrovarsi, comprendersi reciprocamente. È il senso comune, ovvero un tipo di conoscenza che sospende il dubbio intorno alle definizioni di realtà che si sprigionano da un gruppo sociale. È la capacità di non dubitare: insomma il patrimonio di tutti all’interno di una comunità data. È il mondo dato per scontato.

Per il tema che qui direttamente interessa, John nella sua vita ha potuto verificare come una lingua si apprenda. A scuola, all’università magari, insomma da una tradizione d’insegnamento. Ha sviluppato, quindi, una serie di credenze, di interpretazioni della realtà che gli appaiono condivise, e perciò stesso, condivisibili. Nel suo mondo “dato per scontato” – e ribadisco che tutti in una qualche misura deteniamo ed usiamo un sapere presupposto – l’apprendimento di una lingua si organizza intorno alla figura forte di un insegnante molto centrale. Questi dovrà somministrare prevalentemente esercizi di tipo strutturale, o al meglio funzional-pragmatici, che saranno poi debitamente corretti. Poi ci saranno drills per la memorizzazione, quindi le mitologiche liste di parole propedeutiche a qualsiasi lettura. La verifica fra pari del lavoro analitico è avvertita come uno spreco di tempo ed energia. L’ascolto addirittura un lusso quasi risibile, e certo velleitario. L’opportunità di drammatizzazioni e scambi liberi fra pari è relegata fra le cose impossibili, o almeno puramente decorative.

John ha insomma tipizzato la sua particolare realtà connessa all’insegnamento in base ai paradigmi di cui dispone. Il suo “senso comune” gli dice che è così che si impara, ed è così che lui si predispone di fronte ad un corso di studio di lingua. Non fa che attenersi ad un tipo di conoscenza che dà per scontati i propri contenuti. Si tratta, come dicevamo, della sospensione del dubbio, il dubbio cioè che le cose possano essere catalogate diversamente: e quindi che la stessa porzione di realtà chiamata insegnamento possa esprimersi e consistere secondo modalità altre.

Se così opera il senso comune di John (tenere alla larga il dubbio che le cose possano andare diversamente), che cosa può fare l’insegnante? Più precisamente, che dovrebbe immaginare e fare un insegnante il cui sistema di credenze intorno alla didattica sia radicalmente diverso da quello di John? Non è interrogativo di poco momento.

La pratica didattica ci propone di continuo le sequenze di fatica e di difficoltà nate dall’implicito – e talvolta esplicito – conflitto con studenti che non si affidano; che esprimono riserve e sfiducia verso le nostre proposte didattiche; che, infine, disapprovano il nostro operato. Una relazione con tali connotati rende il nostro lavoro, lo sappiamo bene, poco proficuo e in ogni caso frustrante. E naturalmente il disagio è reciproco, appartenendo anche allo studente.

Rebus sic stantibus, accade che le due identità in gioco stentino a riconoscersi. Se condividiamo l’idea che “non vi è nulla di autosufficiente, prima dell’uso, che determini l’identità”[2], e che dunque l’identità di un individuo comporti la sua identificabilità mediante pratiche intersoggettive identificanti, allora nella nostra situazione urge un primo enorme impegno. Semplice, ma davvero gravoso. Bisogna impedirsi di rivolgere efferate silenziose parole verso lo studente riottoso. Bisogna impedirsi, cioè, di operare una semplificazione della realtà attraverso un appiattimento valutativo, un’operazione di degradamento della dignità dello studente. Ogni volta che attiviamo questo meccanismo tanto naturale quanto riduzionista, scateniamo anche senza saperlo o volerlo una dinamica di disidentificazione dello studente stesso. Questo va tenuto nel debito conto. Infatti, non si può far finta di ignorare l’assioma che suggerisce che quello di cui parliamo si rivela nel modo in cui ne parliamo.

Ci sta dando dei grattacapi, è vero. Ma se io intendo dare soluzione ad un problema, in questo caso didattico, devo adottare strategie che tengano conto dell’alterità che ho dinanzi. Cancellarla non mi può offrire nessuna opportunità. Altrimenti, non avrò soluzioni semplicemente perché non avrò innanzi alcun problema reale.

Certo il nostro problema avrebbe forse latitudine più ristretta se immaginassimo John all’interno di una classe composta da studenti di provenienza e cultura diversa. In quel caso il buon americano dovrebbe tenere conto probabilmente delle differenti credenze e dei diversi atteggiamenti che promanano da quella piccola cosmopolita comunità che si chiama classe. Immerso in un contesto complesso ed articolato dovrebbe rivolgere la propria attenzione anche a degli scopi adattativi, che gli imporrebbero mediazioni rispetto alle proprie credenze originarie. Dovrebbe, per il semplice fatto che è tenuto ad interagire con altre e diverse esperienze e visioni, rendere problematico il proprio senso comune rispetto all’insegnamento. Sarebbe obbligato, quindi, a relativizzare i propri assunti sull’insegnamento ed a considerare che i propri presupposti non sono universali. Già solo questo potrebbe aprire dei varchi nel sistema di attese di John, offrendo spazio e tempo all’insegnante per dare credibilità alla propria offerta didattica.

Ma la condizione di cui qui parliamo è diversa. Mi trovo, infatti, a interagire con una classe monolingue in cui tendenzialmente – con le dovute peculiarità di cui ogni individuo è latore – gli studenti condividono un diffuso sentire in merito all’insegnamento. Sono pronto a farmi sorprendere, ma non devo farmi illusioni: dovrò essere io a creare delle condizioni per sollecitare una diversa esperienza della lingua e del suo apprendimento. È dunque arrivato il momento di attrezzarsi per pensare risposte plausibili.

Parto da un assunto: ho, come si suole dire, le mie convinzioni basate su di un sistema di saperi ( una, molte teorie? ) al quale ho affidato la mia prassi didattica. Solitamente, il mio lavoro in classe trova sostanza e conforto nelle mie credenze in fatto di teorie didattiche. Ciò che faccio funziona, i miei studenti progrediscono, sono “efficienti” nell’apprendimento. Questo di solito.

Esperienza: crisi e uso del buon senso

Non mi resta dunque che applicarmi affinché il mio progetto didattico non subisca deviazioni nella situazione nuova che ho dinanzi.

Bene, anzi no, male. Qualcosa non va, non funziona. Gli studenti non rispondono, resistono, recalcitrano. Non c’è più equilibrio. È una “catastrofe”, verrebbe da dire. Meglio fermarsi a pensare, e tenere nel giusto conto la propria paura di commettere un marchiano errore di valutazione.

In questo caso, verrebbe da ricordare, si può parlare di esperienza “in due sensi: da un lato delle esperienze che si inseriscono ordinatamente nelle nostre aspettative, dall’altro della esperienza che uno fa. Quest’ultima, che è l’esperienza autentica, è sempre un’esperienza negativa. Quando diciamo di aver fatto una certa esperienza, intendiamo che finora non avevamo visto le cose correttamente, e che ora sappiamo meglio come esse stanno. La negatività dell’esperienza ha quindi un senso peculiarmente produttivo.”[3] Gadamer qui, in fondo, introduce l’idea di una sorta di crisi produttiva, che in astratto appare condivisibile e feconda. Potrebbe essere un riferimento, e infondere coraggio alle nostre convinzioni. Tuttavia, non si può dimenticare che la mia / nostra è una dimensione ristretta nel tempo, in cui il rapporto didattico per essere proficuo deve essere dialettico ma non conflittuale. Pena il fallimento, la caduta del rapporto fiduciario: la rescissione del contratto con gli studenti.

La teoria è certo indispensabile, inutile nasconderlo. Se non si vuole avvilire il proprio lavoro entro la cornice di una mera routine, ciascuno di noi deve inserire le procedure che adotta all’interno di un sapere esperto. Questo permetterà di assegnare plausibilità al lavoro didattico, e di attribuire senso critico a quanto si va facendo ogni giorno in classe. Tuttavia, la mia fedeltà alla teoria non deve – o non dovrebbe – mai tradire la realtà. Se questa fluisce e si “corrompe” in modi che pongono in crisi i miei personali orizzonti d’attesa non posso fingere d’ignorarlo.

Per trasformare, modificare nella direzione che ritengo opportuna devo intervenire. Non posso, cioè, astenermi dall’intervenire sulla realtà, anche se questa non corrisponde più, in parte o in toto, all’idea che ne avevo.

Non posso diventare un metafisico, non almeno se sto dentro una classe ed ho obiettivi pragmatici. Si rischia, si rischia grosso: c’è il pericolo sempre incombente di “rinchiudersi in una definizione, de-finirsi, equivale infatti a congelare una parte del proprio passato, proibendo a noi stessi qualunque futuro che non vi sia già racchiuso. Ci si trova a difendere una proprietà, una professione, il coniuge, le proprie idee fisse; tutto fornisce l’occasione per esprimere ciò che ci è fedele e non stupisce più. […]; si mette persino una teoria al posto della propria vita, e allora non si è più nemmeno persone, ma teoremi ambulanti…”[4]

Se quanto è accaduto in classe lo valuto come una messa in crisi delle mie convinzioni, ed una difficoltà circa la stessa possibilità didattica, posso davvero adoperare il termine “catastrofe”, rammentando però il carattere ancipite della parola. Infatti, catastrofe non significa solo rovina, fine, ma pure “rivolgimento, nel senso di cambiamento di direzione, svolta. La catastrofe così intesa non significa passaggio al niente, bensì è sinonimo di trasformazione.”[5] In sostanza, il sistema classe fatto di insegnante e delle sue esperienze, e degli studenti e rispettive esperienze richiede una mutazione di forma, un riadattamento.

Si tratta di agire questo cambiamento, e non esserne agiti. Questo è il punto.

Arrivati a tale segno, urge a scopo di profilassi un’avvertenza che dissipi eventuali malintesi. Non si tratta qui di abbandonare le proprie idee su quale sia il processo didattico più proficuo, né di presentarsi in classe senza progetti o previsioni. È opportuno solo rendere vigile e patente la necessaria integrazione tra teoria e prassi che spesso viaggia in modi sottocutanei ed automatici. La teoria mi consente di sapere, ma la pratica mi aiuta a sentire, ad avvertire gli scarti, lo spazio della differenza, ed entrare in contatto con la famigerata alterità.

Devo lavorare per la trasformazione, per avviare un processo di consapevolezza nei miei studenti. Devo dunque agire per creare delle nuove condizioni, ma condizioni, si badi, che a questo punto mettano in crisi le credenze dei miei studenti. Si tratta di incidere, cioè, sul loro senso comune e di ripristinare la vigenza del dubbio: ovvero, il dubbio che forse esistono altre possibili modalità d’insegnamento, e di apprendimento. Quello è il varco, c’è poco da fare. Le mie risorse, tutto il mio arsenale teorico-pratico avrà come obiettivo di costruire progressivamente un’esperienza, meglio, di predisporre le condizioni per incidere sull’esperienza pregressa per trasformarla, per offrire l’opportunità di farne una diversa.

Sperimentando le mie attività in classe, è chiaro che i miei studenti americani hanno previsto che impareranno poco o nulla, che le cose andranno a finire così, e che la realtà del loro apprendimento sarà più o meno fallimentare. Si sentono inadeguati, incapaci rispetto a quello che io propongo loro.

Il mio primo compito sarà quello di ripristinare la fiducia in loro stessi, fargli sentire che ce la possono fare, che quello che io propongo è alla loro portata. Quindi all’inizio lavorerò per sottrazionesemplificando le attività proposte e le connesse modalità di esecuzione. Pur tuttavia, sentiranno comunque di cominciare ad apprendere in un orizzonte diverso dal solito, in cui sono tenuti ad attivare procedure e facoltà spente nei loro precedenti contesti di apprendimento. La semplificazione mi serve solo ad avviare il processo, ad istituire fiducia e reciproca accettazione delle rispettive identità.

La meta sarà complessificare progressivamente le attività e le modalità proposte. Intanto cominceranno ad esperire secondo modi e principi altri rispetto al passato.

Insomma, se dovessi insegnare Leopardi, o Calvino, o altro in una classe di giovani italiani probabilmente cercherei di entrare progressivamente in contatto con questa tribù multimediale partendo dai fumetti horror o dall’analisi di una telenovela o di un serial americano. Come insegnante non mi posso concedere il lusso di considerarmi una sorta di operatore-osservatore esterno, ma devo assumere me stesso come parte del sistema sul/nel quale agisco. È solo così che potrò, nella situazione data, predisporre le condizioni per una diversa esperienza: “l’esperienza è chiamata in causa ogni volta che pensare come il solito non basti, o si interrompa. In questi casi, siamo spinti a cercare un contatto con noi stessi che non è quello garantito dal senso comune[6]

Le attività

Quanto sopra descritto naturalmente non pretende di assumere i toni paludati della proposta teorica. Piuttosto, mi pare che abbia i semplici connotati della descrizione di un processo argomentativo, di un puro ragionamento che mi ha permesso di emergere dallo stallo, ed agire più o meno conseguentemente. So bene che lo statuto epistemologico di una proposta del genere è assai debole. E d’altro canto, se non ricordo male certe distratte e lacunose letture popperiane, si può parlare di scienza solo quando si è dinanzi ad una teoria che sia falsificabile, cioè quando intervenga una nuova e diversa teoria che renda falsa la precedente, smentendola e rendendola obsoleta.

Noi che ci occupiamo di didattica, è bene dircelo, viaggiamo nelle acque agitate e torbide dell’argomentazione, non certo sulla levigata e perimetrata terra della dimostrazione. La mia non è dunque una proposta falsificabile, ha la natura delicata dello strumento d’ausilio che può combinarsi diacronicamente o sincronicamente con altre e differenti strategie. Qualcosa che può apparire plausibile, ecco, e magari da sperimentare.

In certe condizioni potrà funzionare, in certe altre risulterà meno efficace.

Questo è tutto / per ora / in questo momento, / è come se fossimo già / e invece siamo appena“, diceva un poeta.

Leggere

L’attività di Lettura, apparentemente così semplice e naturale all’interno di un corso di lingua, si è rivelata con il gruppo di americani di livello elementare più complessa e impegnativa di quanto ci si aspettasse. Sappiamo tutti come essa sia una modalità essenziale, e in qualche modo irrinunciabile, di somministrazione dell’input.

Nei miei corsi di livello Elementare usualmente faccio leggere un testo autentico più volte. Informo la classe di usare l’immaginazione per colmare gli inevitabili vuoti, e annuncio che non deve essere usato il dizionario durante la lettura.

Il dizionario, cioè la fase lessicale di solito è posticipata alla fine della terza lettura più relativo scambio, chiedendo ai miei studenti di non cercare tutte le parole (che non riuscirebbero mai comunque a memorizzare), ma solo quelle che potrebbero essere utili secondo loro per capire meglio parti di testo. Altra raccomandazione è quella di distribuire le parole ricercate all’interno di tutto il testo. Si può stabilire quindi di concedere agli studenti nella fase finale dell’attività 5 o 10 minuti di dizionario; oppure si può delimitare il campo dicendo di cercare 1 parola ogni 4/5 righe. Quindi ci sarà una nuova lettura. Naturalmente sarà rispettato il meccanismo del confronto fra pari su quanto hanno capito, con relativi cambi di coppie.

Ebbene, lo studente americano è generalmente ossessionato dal problema del lessico. Conoscere parole significa conoscere la lingua. Se non apprendono le parole non potranno imparare la lingua, così pensano. Così fallacemente credono. Questa sorta di sillogismo monco, fa parte della loro tradizione d’insegnamento, e ad essa danno credito. D’altronde, loro ne sono convinti, dicono che è così che hanno imparato le altre lingue. Non fa parte del loro stile cognitivo l’idea di una comprensione globale del testo. Lo studente americano introdotto in una comprensione testuale globale ha la percezione di essere abbandonato a se stesso in un labirinto ostile, agitandosi come un novello gregor samsa dentro un circolo di frustrante inutilità e di incomprensione totale.

Dunque ecco comparire l’eterna questione delle cosiddette “liste di parole”, dagli studenti stessi invocate. Si tratta in buona sostanza di elenchi lessicali pertinenti a situazioni comunicative, ambientali. Ne riparleremo.

Per impedire che l’attività di lettura sia inficiata ab inizio da una sfiducia radicale e potente, si è deciso di adottare alcuni semplici accorgimenti che l’hanno resa più gradita e commestibile.

In primo luogo si è cercato di ridurre al minimo, almeno in una fase iniziale, letture che potessero proporre complessità lessicali e testuali difficilmente aggirabili. Si sono, così, preferite le “Lettere”, cioè testi in cui qualcuno scrive a qualcun altro. Si è deciso di adottare una tale tipologia testuale per i vantaggi che presenta per i nostri scopi:

  • la presenza di un lessico piuttosto stereotipato e d’uso frequente
  • la presenza di una struttura fraseologica e di forme verbali abbastanza semplificate, che di rado accolgono “deviazioni” rispetto agli elementi morfosintattici già trattati o da analizzare.
  • la presenza di un “plot” evidente e riconoscibile, che ha dimensione sequenziale, e per di più basato su di una sorta di immediato meccanismo di causa / effetto. Tutto ciò consente una più agevole comprensione di tipo inferenziale.

Acquisendo progressivamente una maggiore fiducia nei propri mezzi, si sono poi proposte agli studenti letture che presentavano maggiori complessità, in cui cioè i requisiti sopracitati non fossero caratterizzati in modo peculiare.

Per quanto concerne poi le concrete modalità di lettura, anche qui ci si è adoperati per semplificare l’approccio all’attività. È stato chiesto agli studenti di effettuare una prima lettura con l’ausilio del dizionario, concedendo ampi margini di tempo. La parentesi lessicale anticipata ed effettuata durante la lettura è davvero da consigliare le prime volte: disinnesca ansie e senso di impotenza. Quindi si fa effettuare una nuova lettura, e si chiede agli studenti di confrontare le loro ipotesi sul senso generale del testo. Cambio di coppie e confronto. Nuova lettura.

Anche per quanto concerne le modalità, si è arrivati progressivamente a proporre la lettura secondo modi simili a quelli “standard”. Ovvero: si propone di girare il foglio e di raccontare quanto hanno capito, usando la loro immaginazione per colmare gli iati; uso “ragionato” del dizionario dopo le tre letture.

Qui si apre una nuova delicata parentesi: cosa chiedere alla classe in merito all’uso della lingua bersaglio? È semplicemente inutile e controproducente pretendere nella prima settimana di lezioni di usare la lingua italiana. Già nella seconda settimana – quando la reciproca fiducia si sarà auspicabilmente attivata – si può cominciare a chiedere in fase di penultimo o ultimo scambio fra pari di usare un po’ di italiano.

Ascoltare

L’ascolto – come tutti ben sappiamo – è la tipica attività ad alto tasso di frustrazione per lo studente. Si potrebbe usare – e alcuni commendevolmente e con alta dottrina lo hanno fatto – un profluvio di parole in merito a questa attività. Mi limiterò a dire laconicamente, dalla mia prospettiva rasoterra, che la considero indispensabile. È un esercizio. Sì, proprio. Ed è necessario che vada fatto secondo alcune modalità, soprattutto ai primi livelli. Non va introdotto da elementi di contesto forniti dall’insegnante; il dialogo deve essere presentato come “molto difficile”; si deve anticipare che: saranno effettuati più ascolti dello stesso dialogo, circa 6; più si è rilassati, e maggiore sarà la possibilità / disponibilità alla comprensione; aumentando il numero degli ascolti, crescerà anche la comprensione; non è possibile capire tutto, ma dovranno usare la loro immaginazione per colmare le inevitabili lacune; etc. Naturalmente, strutturando sempre l’attività con confronti e scambi di coppia fra pari.

Ciò premesso, appare chiaro che per il sottoscritto l’ascolto, in qualità di fondamentale input, andrà proposto anche agli scettici e renitenti americani. Come?

La strategia scelta è stata quella di effettuare in una prima fase una sorta di Caccia al Tesoro. Si è, cioè, chiesto agli studenti di scrivere le parole che riescono a riconoscere durante l’ascolto. Quindi l’insegnante chiede loro di comunicargliele affinché le possa scrivere alla lavagna, ed opererà insieme alla stessa classe le eventuali modifiche alle parole che ne abbiano bisogno. Tutto ciò attiva una dimensione ludico competitiva più affine al loro stile di pensiero; valorizza ciò che sanno; e dà loro il senso della presenza attiva e compartecipe dell’insegnante. La ripetizione degli ascolti sarà variabile in base al livello di saturazione della classe. Mai comunque meno di 3. Quindi verrà chiesto di scambiare fra loro il senso globale del testo ascoltato.

Quando tra gli studenti si è poi sviluppata una sorta di attitudine all’ascolto, un’abitudine alla sua presenza in classe, si è apportata una modifica alla strategia. In una fase successiva, infatti, sono stati proposti ascolti un po’ più complessi. Si è avuto cura di fornire elementi di contesto generale dell’ascolto, e la classe è stata invitata a “prendere appunti” su quanto ascoltato, in modo da avere tracce da seguire. Gli ascolti attraverso questo stimolo esogeno sono anche arrivati a 6.

Gli scambi fra pari in merito alla comprensione del dialogo, così come per la lettura, avvenivano all’inizio in inglese. Progressivamente, di solito dopo l’ultimo ascolto, oppure in un momento intermedio ( 4 ascolto ), veniva richiesto l’uso anche della lingua italiana.

Liste di parole

Niente è più superfluo ed inutile per l’apprendimento della lingua bersaglio quanto le liste di parole. Questa è una mia cristallina e imperturbabile convinzione.

Per lo studente americano niente è più essenziale ai fini dell’apprendimento di una lingua che le liste di parole. Questa è una sua incrollabile e immutabile certezza.

Vexata quaestio quella delle liste di parole con gli studenti americani.

In cosa consistono innanzitutto? Sono delle liste di parole pertinenti a situazioni comunicative e / o ambientali. In genere gliele si somministra prima o dopo una certa attività: ad esempio una lettura.

Bene, considerata l’anodina caratura didattica di tali liste, ma nel contempo la loro insostituibile presenza secondo la prospettiva degli studenti, come rendere digeribile tale sottospecie di attività? Abbiamo sperimentato alcune possibilità:

si prepara una lista di parole ( 20 o 30 ) che trova un qualche collegamento con una lettura da fare o già fatta; quindi gliela si propina per casa, raccomandando loro di memorizzarle. Li si renderà felici.

Si prepara una Ricostruzione di conversazione ( alcune battute di un dialogo che con l’aiuto dell’insegnante gli studenti dovranno ricostruire ), ed in relazione al contesto in cui si svolge la situazione comunicativa si propone una lista. In questo caso, la si somministra alla fine dell’attività di Ricostruzione con la solita consegna di rileggerle a casa.

Una variante della precedente proposta può essere questa: si offre alla classe l’ambiente in cui si svolge il dialogo ( es. al bar), quindi si chiede agli studenti di dare all’insegnante tutte le parole che conoscono rispetto a quel preciso ambiente; l’insegnante le scrive alla lavagna, e riproduce tutte le proposte che vengono dalla classe; quindi, sarà lui stesso ad integrarle con gli ulteriori termini che riterrà opportuni; alla fine si chiede agli studenti di ricopiare tutto quanto è emerso.

Con nostro disappunto, ci siamo dovuti rassegnare alla intangibilità di questa inutile pratica didattica. Ma la stessa infonde grande tranquillità nello studente americano, il quale alla fine della giornata potrà contabilizzare di quante parole si è avvicinato alla conoscenza della lingua bersaglio. Sic!!!

Parlare

L’autonomia dello studente. Com’è rotondo e suasivo questo concetto. A me produce persino un effetto di effervescenza di pensiero. Preciso meglio. Pensarlo, mi induce piacevolmente a coniugare il mondo della didattica con la mia stessa sfera personale. Divento fecondo, divento facondo. Immerso in questa categoria m’immagino una seducente prospettiva di miglioramento, di evoluzione personale. È questo il mio principio speranza. È uno stimolo costante ad esplorare tutte le mie riserve di crescita in qualità di uomo introdotto in un mondo relazionale. So bene che è banale e noioso, come di solito lo è la verità, ma quale senso cercare se non nel cercare stesso? Fine della poltiglia esistenziale.

E lo studente? Spesso, non sempre, ma spesso, se gliene si dà l’occasione si riappropria di un suo naturale spazio di ricerca. Limitato, imperfetto, appena sbozzolato, ma c’è. Molto spesso, non sempre, ma molto spesso, lo studente americano è assolutamente impreparato a sentirsi autonomo in un percorso di apprendimento. Ha bisogno di una tetta dalla quale ciucciare. Anche qui c’è un tragitto di divezzamento. A volte arriva a compiersi, a volte no. Il nostro compito è quello di creare le condizioni di possibilità.

Ebbene, l’attività di Produzione Libera Orale rappresenta lo specimen stesso dell’autonomia. L’insegnante dà un qualche tipo di input, e gli studenti a coppie utilizzano le loro risorse, la loro interlingua, per discutere un tema.

Questa modalità di svolgimento della consegna si è tuttavia dimostrata poco efficace. Gli studenti si essiccavano rapidamente, avvertendo una sorta di horror vacui. Se io non conosco la lingua come faccio a parlare? Perché questo compito assurdo, ed in fondo inutile? Ho messo in fila qualche parola di italiano, ben poche, molte in inglese e questo ti basti mio caro e velleitario insegnante.

Ciò che invece si è dimostrato ben più efficace è stato, manco a dirlo, il role play. La dimensione di gioco e divertimento, connessa all’utilità di misurarsi con situazioni di negoziazione tipiche ha prodotto risultati decisamente migliori. Gli studenti almeno si divertivano e si impegnavano. Non dimentichiamo poi che “fingersi altro” alleggerisce da responsabilità, e rende più disponibili. A questo proposito, altra piccola notazione della quale tenere conto, è che con i giovanissimi il risultato era meno brillante. Chi è molto giovane aspira ad essere considerato adulto, non uno sbarbino che fa giochini un po’ stupidi.

Ricostruzione di conversazione

Trattasi di attività un po’ speciale e complessa. In estrema sintesi, gli studenti devono ricostruire un dialogo attraverso il mimo e le indicazioni fornite dall’insegnante. Questi lavorerà sulle ipotesi prodotte dagli studenti, in modo tale da farli arrivare all’enunciato bersaglio. Attività molto interessante e proficua, permette di lavorare su diversi aspetti della lingua.

È stata assai gradita dagli studenti, e ciò non deve sorprendere. In primo luogo c’è da considerare una più spiccata centralità dell’insegnante nel guidare la classe verso gli obiettivi. Inoltre, il pur notevole impegno richiesto alla classe nella ricostruzione del dialogo, e nelle connesse attività di riflessione grammaticale, è ampiamente compensato dal clima di gioco, scoperta e “imprevisto” che è proprio della Ricostruzione. Da non sottovalutare, infine, l’importanza ludica della recita / interpretazione, che gli studenti americani sentono sia come “prova valutativa” dell’insegnante sulle loro abilità, sia come elemento che contestualmente (e paradossalmente) abbassa la soglia di stress. Si consiglia, soprattutto in una prima fase, di attenersi ad una versione “breve e dinamica” dell’attività, senza pretendere troppo.

Si è partiti da dialoghi molto semplificati, e quindi non propriamente autentici. Questo tipo di scelta è stata dettata da un duplice ordine di motivi:

  • presentare situazioni comunicative che dessero l’idea si risolvere immediati problemi comunicativi
  • proporre atti linguistici utili in sede di analisi e di introduzione di fenomeni linguistici quali articoli, concordanza, presente indicativo, etc.

Così come per le altre attività, si è progressivamente complessificato il dialogo proposto.

Analisi “morfosintattica”

Com’è facile intuire, per le attività di analisi (cloze o letture analitiche) i problemi sollevati dalla classe monolingue americana sono stati di latitudine più circoscritta. La “grammatica“ rappresenta un territorio per loro cognito e rassicurante.

Ci sono tuttavia taluni aspetti da non trascurare. Innanzi tutto, la necessaria verifica in toto dell’esercizio con l’insegnante, ciò dopo il confronto tra pari delle ipotesi prodotte. Non effettuare la verifica finale di tutto il testo – limitandosi invece a chiedere quali domande hanno da porre all’insegnante – potrebbe produrre il rischio di creare un “vissuto abbandonico” nello studente, rimasto solo con le sue lacune e imperfezioni. Bisognerà essere anche prodighi di spiegazioni alla lavagna ex ante e / o ex post gli esercizi. È infatti opportuno periodicamente riassumere o fare il punto su un dato argomento morfosintattico. Intendo dire, che appare più urgente che altrove non lesinare spiegazioni che “esplicitino le regole” trattate. Questo complesso di accorgimenti ha un doppio obiettivo:

  • evitare che gli studenti avvertano di essere abbandonati troppo a se stessi in un territorio tanto rilevante e decisivo per loro qual è la “ grammatica “
  • offrire alla classe un puntuale e incontrovertibile ordine di progressione grammaticale. Avere questo tipo di riferimenti assume per gli americani un rilievo peculiarissimo.

A questo punto, spero di aver almeno sinteticamente delineato un’esperienza complessa, ed anche faticosa, come quella sopra descritta. A ciascuno trarne il buono che forse c’è.

Naturalmente, l’elaborazione delle strategie di pratica didattica sono il frutto di un lavoro di gruppo, e di un confronto continuo fra i colleghi che hanno condiviso alla Dilit il mio stesso “destino”. Quindi, ringrazio soprattutto Piero, Luigi, Rita e Simonetta, senza i quali questo articolo – malgrado loro – semplicemente non esisterebbe.

[1] A. Berardinelli, “Tra il libro e la vita”, p.81, Bollati Boringhieri, 1990

[2] D. Sparti, Soggetti al tempo, p. 78, Feltrinelli, 1996

[3] H.G. Gadamer, “Verità e metodo”, p.411, Bompiani, 1983

[4] D. Sparti, op. cit., p. 86

[5] Salvatore Natoli, “ Stare al mondo”, p.70, Feltrinelli, 2002

[6] Paolo Jedlowski, “ Il sapere dell’esperienza”, p. 78, Il Saggiatore, 1994 ( corsivo nostro)