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Che cosa significa insegnare una lingua

Sono approdata alla Dilit dopo diverse esperienze di insegnamento della lingua italiana a studenti stranieri portandomi dietro un bagaglio di idee relative all’insegnamento sviluppatesi  nel corso della mia formazione accademica e in seguito ad altre esperienze formative abbastanza varie tra loro. Per quanto fossi consapevole che il cammino per diventare insegnante fosse ancora lungo e avessi ancora tanto da imparare, e nonostante io appoggi in pieno l’idea della formazione permanente degli insegnanti, che a mio avviso non possono pensare di considerare concluso il loro percorso di formazione ma devono aggiornarsi continuamente perché la lingua è vita e come tale si modifica rapidamente, alcune idee in me sembravano chiare… Soprattutto mi sembrava evidente che io, giovane aspirante insegnante appena ventisettenne fossi lontana anni luce dai metodi di insegnamento considerati tradizionali secondo cui l’insegnante è il detentore della conoscenza e della verità che deve riversare sullo studente: una mera personalità da plasmare. Concetti come “la centralità dello studente”, “lo studente è protagonista del suo processo di apprendimento”, “l’insegnante è solo una guida, un tutor, e la sua attenzione è totalmente rivolta ai bisogni dello studente” non solo mi sembravano assodati ma ero fermamente convinta che il metodo di insegnamento che avevo usato fino a quel momento fosse coerente con queste affermazioni.

È però bastato il primo giorno trascorso alla Dilit per capire che mi ero illusa di essere un’insegnante “alternativa” e che tra i concetti astratti e la loro trasposizione nella realtà c’era un abisso. Inizia così il mio processo di decostruzione e rielaborazione delle conoscenze precedentemente acquisite alla luce della nuova realtà su cui finalmente ho aperto gli occhi.

Il punto da cui mi sembra importante partire per continuare il mio discorso su cosa significhi insegnare una lingua, è uno dei primi concetti che Christopher Humphris ci ha presentato nel corso del primo giorno di formazione: la lingua è vita e ogni conversazione può considerarsi un incontro tra biografie. Questa idea mi fa pensare immediatamente al concetto di centralità dello studente. Se ogni conversazione è un incontro tra biografie, mi sembra importante che ogni studente sia considerato come tale, sia visto cioè nella sua interezza come una persona con una propria storia, con le proprie esperienze, con un proprio bagaglio di conoscenze e dotato di intelligenza e non venga  invece identificato, come troppo spesso ancora succede, con un numero o ancora peggio con la sedia su cui è seduto. Lo studente che, per svariati motivi, si accosta allo studio di una lingua vorrebbe, quindi, che questa diventasse per lui strumento di comunicazione e quindi di espressione del proprio io, con tutte le difficoltà che questo comporta. Perché questo possa avvenire il primo passo dell’insegnante, a mio avviso, deve essere quello di abbandonare il proprio posto abbarbicato dietro la cattedra, oltrepassare questo confine e andare incontro allo studente considerandolo una persona e creando un rapporto che sia basato sull’incontro e sullo scambio tra personalità differenti e non sulla superiorità dell’uno sull’altro. Mi rendo conto che questo possa creare confusione e, a primo acchito, anche io mi sono sentita spiazzata e mi sono chiesta: come faccio a creare un rapporto di collaborazione? Lo studente infatti nella maggior parte dei casi si aspetta dall’insegnante che questi soddisfi la sua sete di conoscenza, esponendo una serie di nozioni e rispondendo alle sue domande. Fino ad ora per me tutto ciò era abbastanza normale e  non significava affatto essere fautori di un metodo tradizionale; lo studente, infatti, aveva un ruolo centrale, tanto che le lezioni erano calibrate sui suoi bisogni, arrivava alla “scoperta” della regola grammaticale attraverso un metodo induttivo, tale regola però veniva poi riformulata dall’esposizione dell’insegnante e la sua applicazione veniva verificata attraverso una serie di esercizi, la cui correzione prevedeva sì, in una prima fase, il confronto tra pari, ma a questo seguiva la correzione in plenaria durante la quale era l’insegnante ad avere l’ultima parola e a fare da giudice stabilendo cosa fosse esatto e cosa no. Ai miei occhi era del tutto normale che dopo che lo studente avesse scoperto la regola, l’insegnante la ripetesse e la “arricchisse” di particolari e di esempi che mettessero gli studenti nella condizione di applicarla, così come era scontato che dopo il confronto tra pari, la correzione dovesse comunque passare attraverso l’insegnante in modo che lo studente potesse prendere atto di suoi errori e correggersi. Non mi rendevo conto che questo metodo non era poi così diverso da quello in cui l’insegnante, seduto dietro la cattedra, esponeva una serie di nozioni agli studenti soddisfacendo così il proprio desiderio di centralità.

Tuttavia lo studente per essere davvero protagonista del suo apprendimento deve essere considerato un ricercatore e, adesso che ho aperto gli occhi, mi sembra chiaro che il metodo che ho adottato finora non rispondeva a questo requisito.

Considerare lo studente un ricercatore significa innanzitutto abituarlo ad essere autonomo nell’apprendimento, per far sì che questo avvenga non deve avere paura di sbagliare ma, al contrario, deve sentirsi a proprio agio e libero di esprimere la propria opinione, consapevole che, qualunque cosa dica, non verrà deriso dai compagni o dall’insegnante vedendo così intaccata la propria dignità. Lo studente deve scoprire che se non si mette in gioco e non sperimenta non potrà mai essere il protagonista del proprio percorso di apprendimento e si sentirà sempre subordinato all’insegnante che, in qualità di unico parlante della lingua studiata è considerato detentore di una posizione di superiorità. Sta quindi all’insegnante far scoprire ai propri studenti che sono loro il fulcro del processo di apprendimento ed  è sempre compito dell’insegnante far crescere in loro la curiosità e la passione per la ricerca e la scoperta. Solo così, cioè solo liberandosi dal cordone ombelicale che lo lega all’insegnante in un rapporto basato sulle conferme che conferiscono sicurezza, lo studente potrà riconoscere l’importanza propria libertà nello studio e vorrà essere lui ad arrivare alla conquista delle conoscenze. Questo processo, a mio avviso, ricorda molto quello della crescita. Per un figlio o una figlia è spesso difficile e a volte anche doloroso staccarsi dalla sicurezza conferita loro dalla famiglia, cessare di delegare le scelte ai genitori e prendersi la responsabilità di essere artefici delle proprie scelte pur sapendo di poter andare incontro a degli errori che potrebbero provocare sofferenza. Ma, nella maggior parte dei casi, non appena questo processo di affrancamento dalla famiglia ha inizio e si comincia ad assaporare il piacere di essere il centro della propria vita e di non delegare ad altri questo compito, bè… è difficile che si torni indietro e che si rimpianga il vecchio rapporto di dipendenza.

Lo stesso fenomeno si verifica all’interno del processo di insegnamento-apprendimento di una lingua.

Ma come può fare l’insegnante a spingere lo studente a rendersi autonomo? Come può cioè fare in modo che lo studenti passi da una situazione in cui cerca la risposta alle proprie domande nell’insegnante ad una situazione in cui, attraverso la guida di quest’ultimo le cerchi in se stesso?

Innanzitutto è proprio l’insegnante  il primo a dover credere nell’idea dello studente ricercatore e nella sua autonomia. Per far questo bisogna innescare un processo di decostruzione dell’idea di insegnante detentore del sapere e trovare il coraggio di scendere dalla roccaforte della cattedra per avvicinarsi agli studenti, guardarli negli occhi e conquistarsi la loro fiducia. L’insegnante che porti avanti l’idea dell’indipendenza dello studente può andare incontro a due tipi di difficoltà: da una parte ha paura di destabilizzarsi e di non riuscire a mantenere il controllo della classe abbandonando il proprio ruolo di superiorità e mettendo da parte tutte quelle attività che, nonostante non valorizzassero l’autonomia dello studente, gli davano sicurezza. Alla difficoltà di ridefinire il proprio ruolo se ne aggiunge un’altra: potrebbe, infatti, trovarsi di fronte alla riluttanza degli studenti che lo ritengono il depositario del sapere e che vorrebbero che questi riversasse su di loro le sue conoscenze, mettendo così in discussione il metodo da lui adottato. L’insegnante deve quindi essere bravo a rimanere fermo nelle proprie idee anche se questo apparentemente significa non andare incontro allo studente ma è proprio così che evita di cadere nella trappola rappresentata dalla contraddizione di programmare qualcosa e metterne in pratica un’altra. Per far sì che questo non avvenga deve davvero credere in ciò che fa e soprattutto deve fare in modo che questo sia evidente agli occhi degli studenti. L’insegnante deve innanzitutto perseverare, perché molte cose a loro saranno chiare solo dopo un po’ di tempo e deve rendere evidente che crede davvero in ciò che succede all’interno della classe. Da dove partire? Innanzitutto dall’ambiente. Assodato che il posto dell’insegnante non è dietro ad una cattedra, a proposito dell’organizzazione dell’ambiente-aula si potrebbe dire davvero tanto; l’ideale sarebbe che l’insegnante fosse visibile in egual modo da tutti gli studenti e che si trovi in una posizione tale che, se chiamato, possa facilmente raggiungere tutti, abbassarsi, guardare gli studenti  negli occhi e rispondere alle loro richieste, nel caso lo ritenga opportuno, o rilanciare la sfida alla ricerca se la richiesta in realtà implica una delega del compito all’insegnante. Sarebbe auspicabile che l’insegnante riuscisse a modificare lo spazio a seconda delle attività proposte per cui ha previsto di alternare, per esempio, coppie faccia a faccia nel caso di attività di produzione libera o fianco a fianco nel caso di revisione tra pari. Nella preparazione dell’ambiente classe rientra anche la creazione di un’atmosfera che stimoli la motivazione dello studente, facendo nascere in lui passione e curiosità. Per fare questo l’insegnante può giocare con la luce, avvalersi di musiche, immagini, foto, oggetti e quanto altro ancora possa servire a stimolare lo studente e far abbassare in lui il livello di ansia e quindi a spingerlo a mettersi in gioco nelle attività proposte. A questo proposito bisogna fare attenzione al livello di difficoltà scelto, perché se da una parte un’attività troppo difficile creerebbe frustrazione nello studente, dall’altra una troppo semplice sarebbe in contraddizione con la nostra idea di studente ricercatore. Ed ecco entrare in crisi un’altra delle certezze acquisite nel corso della mia formazione accademica, quella per cui perché l’input venga acquisito è necessario che si situi all’interno dello spazio rappresentato dalla distanza tra la parte di compito che lo studente è in grado di svolgere da solo e il livello potenziale a cui può giungere cercando di svolgere il compito senza la guida di una persona più  esperta. Le attività che proponiamo devono avere un livello di difficoltà tale che si senta sfidato e attratto e che accolga tale sfida in modo tale da continuare a progredire nello sviluppo della sua interlingua. Questo punto è strettamente connesso a quello della correttezza o, sarebbe forse più esatto dire dell’autovalutazione. In un ambiente in cui lo studente è considerato un ricercatore e l’insegnante una guida che cammini insieme a lui lungo questo percorso, l’ultima parola sulla correzione non può spettare all’insegnante. Lo studente dovrà confrontarsi con i suoi pari, dando così luogo ad uno confronto che lo porti a volere scoprire da solo la risposta ai propri dubbi. Questo è uno dei punti che ritengo essere più critici. Da ex-studentessa di lingue ricordo che io ero proprio una di quelle interessate alla correzione degli errori, volevo essere consapevole dei miei sbagli per evitare di ricadervi e volevo che l’insegnante fosse disposto a chiarire un dubbio nel caso in cui la correzione non mi risultava comprensibile. Penso che all’inizio avrei accettato con difficoltà un metodo simile, in cui l’insegnante non corregge per intero l’attività proposta. È proprio in questo caso, quindi, che l’insegnante deve essere bravo a mantenere  la sua posizione di guida invisibile, resistendo alla tentazione di intervenire per rifilare agli studenti la solita lezione frontale nascondendo il tutto dietro una risposta ad una richiesta di aiuto. In questo caso infatti, l’insegnante non sta aiutando lo studente ma sta soltanto soddisfacendo la propria voglia di compiacimento. È naturale che gli studenti chiedano aiuto, anzi è auspicabile che facciano domande, perché significa che hanno recepito l’input e allo stesso tempo non hanno paura di esporsi, ma se sono stati abituati ad un lavoro autonomo ricorreranno all’insegnante come figura che li guidi nel percorso di scoperta e non delegheranno a lui la loro conquista del sapere.

Torniamo a questo punto all’espressione “insegnante come guida invisibile”, è lui che accompagna lo studente ricercatore nel suo cammino di ricerca. Innanzitutto non è un insegnante onnisciente, ma è in grado di ammettere i proprio limiti, demistificando così il proprio ruolo.  È una presenza costante ma non ingombrante e non ostacola l’autonomia degli studenti vantando la propria centralità, ciò non significa che abbia un ruolo passivo, anzi è perfettamente consapevole di ciò che avviene in classe ed è una presenza attenta ma discreta che sta in disparte non facendo sentire agli studenti il peso del suo sguardo che durante certe attività potrebbe interferire con la loro libertà di esprimersi. È tuttavia, una presenza vigile e immediatamente rintracciabile , deve avere costantemente  sotto controllo la situazione in classe per poter valutare il grado di sviluppo dell’interlingua dello studente e deve essere in grado di intervenire con colpi di scena in casi di cali di motivazione.

Questo atteggiamento è fondamentale per sviluppare l’autonomia degli studenti per trasmettere loro fiducia cosicché anche lo studente più insicuro riesca a credere nelle proprie capacità e anche quello più pigro sia spinto ad avere un ruolo attivo nel suo apprendimento. Ma per far ciò è necessario inoltre che l’insegnante non si perda in chiacchiere, dietro spiegazioni di cui lo studente non ha bisogno, deve invece fornire le informazioni indispensabili essere chiaro e coinciso e avvalersi dell’uso di altri linguaggi, come quello dei gesti, per colmare i limiti di quello verbale.

Questo insegnante deve occuparsi di curare tutti i minimi dettagli dalla scelta delle attività alla creazione dell’atmosfera attraverso l’uso di immagini e musiche alla propria posizione e a quella degli studenti e saper guidare i loro movimenti… ed ecco che improvvisamente l’espressione “insegnante regista”, incontrato innumerevoli volte nei manuali di didattica inizia ad assumere una forma reale e ad acquistare significato.

Quello che ho descritto sinora è  lungi dall’esaurire l’argomento “che cosa significa insegnare una lingua”, molti nuovi input stanno cercando di trovare un proprio spazio dentro di me, tuttavia mi piacerebbe concludere con un’idea che si è insediata nella mia mente non appena ho cominciato a riflettere su questo tema. Mi piace immaginare l’ambiente classe come un incontro tra due tensioni; da una parte quella degli studenti che lottano con la loro difficoltà tra ciò che vorrebbero dire e ciò che sono in grado di dire in questa fase della loro interlingua, e, dall’altra la tensione generata dalla lotta interiore dell’insegnante che è in bilico cercando di non oltrepassare la linea che segna il confine tra modalità di integrazione e modalità di trasmissione.