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Adattamento o compromesso?

Anche Jerome Bruner[1] lo dice parlando della scuola in generale (figuriamoci se gli alunni a cui si riferisce venissero da culture diverse come i nostri):

“qualsiasi innovazione che voi, come “veri” teorici di pedagogia, potete voler introdurre, dovrà scontrarsi, sostituire o modificare in qualche modo le teorie popolari che già guidano insegnanti e allievi. Per esempio se come studiosi di pedagogia siete convinti che il miglior apprendimento avvenga quando l’insegnante guida l’allievo a scoprire da solo le generalizzazioni, è probabile che vi scontriate con una convinzione culturale radicata secondo la quale l’insegnante è un’autorità, che ci si aspetta dica al bambino o alla bambina qual è il caso generale, mentre il bambino si dovrebbe applicare a memorizzare i casi particolari. E se studiamo come si svolgono in genere le lezioni in classe, scoprirete che le domande rivolte agli allievi dall’insegnante vertono per lo più su aspetti particolari e che le risposte possono constare di poche parole, o a volte addirittura di un “sì” o di un “no”. Di conseguenza il vostro tentativo di introdurre un’innovazione nell’insegnamento comporterà necessariamente una modifica delle teorie psicologiche e pedagogiche popolari degli insegnanti – e in misura sorprendente anche degli allievi.” (Bruner, 1996)

In questo brano, noto due idee importantissime: primo, l’allievo ha una teoria (detta “popolare”) e, secondo, questa teoria va modificata.

A volte, invece, qualche insegnante si illude che, quando gli studenti protestano, bisogna fare dei compromessi. Adottare un compromesso è una tattica ritenuta astuta. Se lo studente non accetta una pedagogia efficace si crede che facendo metà strada fra ciò che vuole lui e ciò che vuole l’insegnante si fa qualche passo verso una modifica della situazione. Pensate ad una coppia convivente di cui una delle due persone vuole dipingere il soggiorno bianco e l’altra arancione. Si può ritenere sul serio che dipingerlo giallo ridurrebbe la frustrazione? O non è più probabile che avremmo due persone  insoddisfatte? Insomma, tornando a noi, la “furbizia” di “incontrare lo studente a metà strada” in realtà non cambia niente nella sostanza. Può, nel migliore dei casi, far sì che lo studente non critichi più l’insegnante. Ma che misero risultato per un professionista: semplicemente “non mi criticano più”!

Vediamo meglio questo principio nella pratica. Faccio riferimento all’articolo che precede il presente in questo Bollettino Dilit. In tal articolo Katia D’Angelo non racconta “compromessi”. Racconta invece come ha adattato delle attività didattiche mantenendo il giusto obiettivo di cercare di modificare le teorie degli allievi. Descrive una situazione non facile, una situazione in cui senza l’adattamento delle varie attività alla situazione specifica, avrebbe senz’altro fallito come insegnante. Testimonia le difficoltà, ma non abbandona lo sforzo, non fa compromessi semplicemente per tenere buoni gli studenti, non abbandona i suoi principi didattici.

L’unico neo nel suddetto articolo è che la necessità di adattare le attività didattiche viene presentata come fosse l’eccezione. Molti lettori diranno “beata lei!”. Io penso, invece, che è molto comune la necessità di adattare attività didattiche alla situazione specifica; anzi direi che è la norma! Ad esempio, ciò che racconto ora è sucesso non più di due giorni fa.

Ascolto autentico

Vado in classe. È una classe promozionale e gratis di inglese offerta dalla mia scuola a Roma per attrarre chi vuole scegliere un corso per l’anno scolastico. Doveva essere una lezione di livello “intermedio” ma dopo una breve chiacchierata con le due studentesse presenti avevo capito che una era giustamente di livello “intermedio” (poteva iniziare un corso che la preparava a livello B1) e l’altra, invece, poteva tranquillamente cominciare a prepararsi al livello C2 (molto avanzato). Quest’ultima studentessa non la potevo mandare via perché, pur non potendo frequentare un corso avanzato per impossibilità oraria, ha dichiarato che intendeva avvalersi del suo diritto ad una lezione gratis!

Verso l’altra studentessa avevo il dovere (e l’orgoglio) di presentare come si lavora nella mia scuola nel caso decidesse di iscriversi. Volevo fare un Ascolto autentico.

Ho cominciato chiedendo alle studentesse quale fosse l’aspetto più difficile dell’inglese. Una ha sostenuto con convinzione che la pronuncia è la cosa più difficile e l’altra ha sostenuto con altrettanta fermezza che sono i verbi “frasali” l’aspetto più difficile. Ho risposto che l’aspetto più difficile era un altro e l’avrei subito dimostrato.

Avendo così destato un po’ di curiosità, ho portato il registratore al centro dell’aula davanti a loro e ho detto “Ascoltate questo.” E via con una conversazione spontanea di 3 minuti fra la moglie di un funzionario dell’ambasciata britannica a Roma ed un giovane californiano studente di teologia che parlavano delle difficoltà di imparare l’italiano (studiavano tutti e due alla nostra scuola).

Prima di andare avanti devo dichiarare quali fossero i miei obiettivi. E lo scarto fra questi e le aspettative che presumevo avessero le studentesse. Facciamone un elenco:

  1. far sì che riconoscessero l’utilità di ascoltare 6 volte un brano di 3-4 minuti che aveva tutte le sembianze di essere incomprensibile, partendo dalla loro probabile convinzione che non servisse assolutamente a niente!;
  2. far sì che accettassero di valutare loro stesse il proprio progresso nella comprensione auditiva invece di ricevere un giudizio “oggettivo” da parte dell’insegnante;
  3. far sì che accettassero di buon grado la consultazione fra di loro.

La strada dei compromessi menzionata nella prima pagina dell’articolo avrebbe condotto a una o più decisioni quali:

  • evitare registrazioni autentiche
  • fare pochi ascolti
  • chiedere agli studenti se vogliono ascoltare (e così probabilmente non fare più ascolti!)
  • fare ascoltare solo 3 volte
  • dare un questionario facile da compilare
  • ecc.

Proseguo con la descrizione della mia lezione. Dopo il primo ascolto (per me era il primo, loro probabilmente pensavano che sarebbe stato l’unico!) ho chiesto di valutare la loro comprensione in termini di percentuale. La studentessa di livello intermedio ha detto 3% e quella di livello avanzato ha detto 10%. Segnati questi risultati alla lavagna ho dichiarato che c’è una teoria che dice che ascoltando una seconda volta si capisce di più. “Vedete voi se è vera”, ho detto riavviando la cassetta.

Alla fine del secondo ascolto ho dato loro 3 possibilità: “Capite di meno, capite quanto prima, o capite di più?” Mi hanno giurato tutt’e due che avevano capito di meno! Non c’era verso di fargli cambiare idea!

Al che, sempre pronto a volgere ogni svantaggio in un vantaggio (volevo raggiungere i 6 ascolti!), ho detto “Non ci siamo capiti. Se vogliamo verificare questa teoria dobbiamo ricominciare da capo. Dimentichiamo tutto.” Loro erano molto soddisfatte di questa soluzione. Lavagna pulita. E abbiamo fatto un ascolto. Ho poi chiesto quanto capivano. Quella del 3% ha confermato il 3% mentre l’altra, evidentemente intimorita da una possibile responsabilità derivante dalla dichiarazione di un’alta percentuale, invece di confermare il 10% ha detto l’1%.Ho registrato i risultati alla lavagna. “Ok, questo è l’inizio. Ora verifichiamo la teoria.” Via con il 4° ascolto. Alla fine ho chiesto “Capite di meno, quanto prima o di più?” Tutt’e due hanno detto “Di più”.

Ho messo le loro sedie l’una davanti all’altra e ho detto alla studentessa di livello avanzato di raccontare la sua versione all’altra. Alla fine quest’ultima avrebbe dovuto giudicare il racconto “credibile” o meno.

Fatto questo sono state contente di riascoltare. Dopo il 5° ascolto ha dato alla studentessa di livello intermedio la possibilità di fare 3 domande a me (il compito dell’altra era di giudicare la correttezza della grammatica di ciascuna domanda ed eventualmente correggerla). Ho risposto.

Via con il sesto ascolto, durante il quale ho concesso alla studentessa di livello avanzato di fermare la registrazione al massimo 3 volte per farmi una domanda. In realtà ne ha usufruito soltanto 2 volte.

A quel punto ho chiesto quanto capivano. La studentessa del 3% originario ha detto il 7% e quella del 1% originario ha detto il 20%. Erano più che soddisfatte. Anch’io.

Ascolto analitico

Finito l’Ascolto autentico, volevo fare grammatica, tramite un’attività di Ascolto analitico politematico. Insomma, per chi lo conosce, un adattamento del Puzzle linguistico[2]. I miei obiettivi erano i seguenti:

  1. far sì che riconoscessero che la grammatica non si limita allo studio di singole regole trattate ciascuna isolatemente dalle altre;
  2. far sì che riconoscessero l’utilità di esplorare il contesto testuale e anche extratestuale per risolvere un enigma grammaticale;
  3. far sì che riconoscessero che la conoscenza di una regola grammaticale non è assoluta, bensì può essere parziale o anche “soltanto” intuitiva;
  4. far sì che accettassero di buon grado che studiare la grammatica non significa impossessarsi della conoscenza assoluta di una regola, bensì “semplicemente” raggiungere una maggiore comprensione dei fenomeni sotto esame;
  5. far sì che riconoscessero che lo studio grammaticale non esclude relazioni lessicali e semantiche né norme pragmatiche e socioculturali, né i vincoli testuali che creano coesione e coerenza;
  6. far sì che avessero maggior fiducia nelle loro risorse mentali, che si rendessero conto che sono in grado di fare molta più strada senza l’insegnante di quanto credono;
  7. far sì che riconoscessero che affrontare un lavoro analitico in modo molto più accurato, rispetto a come avevano fatto in precedenza, è più appagante.

Ho fatto sedere le due studentesse fianco a fianco. A quella di livello intermedio ho dato un foglio ed una penna, all’altra niente. Ho spiegato che avrei fatto ascoltare tantissime volte di seguito un brevissimo estratto del brano oggetto dell’Ascolto autentico e la studentessa di livello intermedio doveva cercare di trascrivere il testo come in un puzzle con l’aiuto dell’altra. Durante il lavoro, bloccavo con decisione ogni tentativo da parte della studentessa più brava di togliere la penna all’altra “per fare prima”. Dopo circa 15 minuti la studentessa di livello intermedio mi ha allungato il foglio, con il messaggio non verbale “Abbiamo finito”.

Era arrivato il momento della manifestazione del conflitto tra teorie didattiche di cui parlava Bruner. Ho rifiutato di prendere il foglio, dicendo “Mica lo correggo io; fatelo voi”; a livello non verbale tutto il mio corpo diceva “Quello che sto dicendo non è trattabile”. Risultato: hanno cambiato posizione fisica; i due corpi si sono spostati in avanti per leggere meglio il foglio; la studentessa di livello avanzato ha assunto l’espressione di chi sta cercando nella propria memoria qualche regola grammaticale; l’altra studentessa ha cercato il dizionario nella borsa. Hanno discusso, hanno indicato parole sul foglio, hanno consultato il dizionario, mi hanno chiesto più volte di riascoltare la registrazione, hanno modificato la trascrizione. Quindici minuti di intenso lavoro. Ovviamente soddisfatte, mi hanno offerto di nuovo il foglio. Senza prenderlo, ho chiesto se era perfetto. “Sì”, hanno detto. “Povere ingenue;” ho pensato, “non sanno ancora quanto è complessa la lingua autentica!”

Ho preso il foglio, l’ho guardato 2 secondi e ho detto che era lungi dall’essere perfetto. Ho restituito il foglio e ho chiesto se volevano un aiuto. Questa volta erano contente. L’approccio stava funzionando! Ho chiesto l’ortografia di “versus“, una parola contenuta nel testo ricostruito[3]. Mi ha risposto la studentessa di livello intermedio: “V,E,R,S,E,S.” (La pronuncia delle due parole in inglese è uguale.) La dichiaro sbagliata. L’altra studentessa non aveva seguito bene, ma sentendo il mio verdetto ha chiesto alla prima che cosa avevo detto. Quando ha capito il problema, è risultato che aveva sempre capito che la parola era la parola latina “versus” (non aveva fatto caso prima all’ortografia sbagliata). Mi preme puntualizzare che i dialoghi avevano luogo fra di loro: io ero sempre spiritualmente assente finché non mi interpellavano esplicitamente. (Altra puntualizzazione: tutto avveniva nella lingua inglese; il fatto che abbia riportato nel presente articolo discorsi in italiano è soltanto per facilitare la lettura.)

Dopo qualche altro ascolto, ho chiesto se erano d’accordo che la parola “versus” implicava un contrasto. Erano d’accordo. Quindi ho domandato “Tra cosa è il contrasto?” “Fra studying e picking up” mi hanno detto. Avrebbero avuto ragione… in un altro contesto! Gli ho spiegato che i due verbi in questo caso venivano usati come sinonimi (ah, quanti miti vengono sfatati quando studiamo con la lingua autentica!) E ho aggiunto che avevo promesso solo un aiuto, ne avevo già dati due ed erano cose che avrebbero potuto trovare da sole. “Al lavoro!” ho esortato e mi sono ritirato di nuovo.

La studentessa di livello avanzato si è responsabilizzata, ha portato il corpo in avanti, ha letto parola per parola insieme alla compagna, hanno discusso il significato di ciascuna di esse. Hanno voluto ascoltare più volte. Altri 5 minuti e ho chiesto se volevano un altro aiuto. “Sììì!” Ho indicato i due verbi studying e picking up alla lavagna e ho domandato “Sono transitivi o no?” “Sì” Ed io “Allora?”

Dopo un paio di minuti di riflessione, la studentessa di livello avanzato, visibilmente felice, ha cambiato “at in “it” (oggetto diretto del verbo) e ha spiegato il cambiamento alla compagna. Anche lei era contenta. Ora, però, la studentessa di livello avanzato non era più soddisfatta della parola “hear” che seguiva “at” (che ormai era diventato “it”). Prima la soddisfaceva la sequenza “studying at hear” a cui attribuiva un significato simile ad “imparare ad orecchio”, non sapendo che in inglese si dice “learning by ear”. Ora che “at” era diventato “it”, “hear” non aveva più senso. Hanno ascoltato altre volte, ma non sono riuscite a risolvere la questione.

Ho offerto di nuovo un aiuto. Sono tornato sul tema del contrasto. Ho scritto VS alla lavagna e ho detto “Se il contrasto non è fra “studying” e “picking up”, tra cosa è?” “Fra Italia e Inghilterra” hanno detto giustamente. “L’uomo dice England?” “Sì”. Scrivo “England” a sinistra di VS. “Dice Italia?” “No” hanno detto giustamente. “Allora, evidentemente usa un sinonimo.” E ho scritto un punto interrogativo a destra di VS con “= Italia” fra parentesi.

Avanti con altri ascolti e altre riflessioni. Poi, un urlo: “HERE!” (sapevano da molto tempo che la conversazione aveva luogo in Italia) e ci siamo congedati con i miei più vivi complimenti.

Sono venuto via dalla lezione completamente soddisfatto del fatto che che i miei obiettivi fossero raggiunti.

P.S. Penso che sarebbe molto utile se anche altri colleghi proponessero descrizioni dei loro adattamenti (e non compromessi) di attività didattiche. da pubblicare sul Bollettino Dilit.

[1] Bruner, J., The Culture of Education, Harvard University Press, 1996, trad. it. La cultura dell’educazione, Feltrinelli, 1997.

[2] Per una descrizione esaustiva di questa attività vedere Il Bollettino Dilit n.1 del 2006.

[3] La trascrizione corretta:

  1. It seems that it is helpful, though, to study it here versus, say, trying to pick it up in England.
  2. Oh, yes, it’s much quicker, because you’re being exposed to it all the time, and probably even subconsciously something’s going in. One hopes so, anyway.