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Tre mesi particolari

Nel novembre ’91 è stato attivato un corso di formazione di base per insegnanti di italiano presso il carcere romano di Rebibbia. Partecipanti al corso 3 detenuti ex-brigatisti e 3 volontarie esterne. La durata del corso è stata di 3 mesi con una cadenza trisettimanale. Le lezioni erano ripartite, come ormai prassi consolidata, tra lezioni teoriche e pratica didattica.

Per la pratica didattica sono state formate 2 classi composte da una trentina di detenuti stranieri desiderosi di migliorare la loro conoscenza della lingua italiana.

Presentare questo corso come formatore non è un compito facile. Quale taglio scegliere? Quello analitico, riflessivo? Fornire una valutazione didattica del corso stesso? Oppure privilegiare le emozioni, le sensazioni? È difficile scegliere. E pur scegliendone uno saprei di fare un torto all’altro.

Decido allora di toccare 2 aspetti, uno per parte:

1. Dal punto di vista didattico si è evidenziata la grande importanza che in un corso di formazione di base ha il momento osservativo, quando cioè si chiede ai formandi di osservare ogni giorno una lezione tenuta da un insegnante più esperto. Osservazione non intesa come appropriazione e ripetizione acritica di un modello, ma intesa come punto di riferimento per creare un proprio stile. Vista la situazione detentiva dei 3 partecipanti si è pensato di analizzare video registrazioni di lezioni. Si è in pratica confermata, a mio avviso, la bontà di strutturare un corso di formazione in 3 momenti: teorico, osservativo, di pratica didattica.

2. Dal punto di vista emotivo mi si è ripresentato un quesito che pongo alla vostra riflessione: l’insegnamento e la formazione sono processi unilaterali?

Lascio ora spazio ai partecipanti al corso, con la speranza che dall’attenta lettura del loro scritto nascano dubbi, riflessioni e stimoli. Cioè il carburante di questa nostra professione.

P.S. Proprio in questi giorni i partecipanti al corso di formazione hanno iniziato dei corsi di lingua italiana all’interno del carcere. Chiunque abbia voglia di corrispondere con loro per uno scambio di vedute, può farlo al seguente indirizzo: Carcere Giudiziario Maschile Rebibbia Nuovo complesso – Via R. Majetti – 00100 Roma.

Non si abita un paese, si abita una lingua
Gabriella Califano, Responsabile Caritas, coordinatrice del corso

Comunicare è l’evento più comune che l’uomo sperimenta e di cui è protagonista. Nel linguaggio si creano le culture e si sviluppa la storia degli individui. In Italia si è assistito al fenomeno di una presenza lievitante e ormai strutturale di soggetti stranieri. Nel carcere “specchio” della società, gli operatori Caritas hanno constatato le difficoltà dell’essere detenuto straniero poiché accanto all’isolamento si aggiunge la “diversità” linguistica e culturale.

La negazione di ogni forma di comunicazione, che già nella realtà esterna è elemento tale da poter pregiudicare pesantemente le possibilità stesse di una concreta integrazione civile e sociale, nella realtà penitenziaria assume toni drammatici.

Intorno a tali problematiche la Caritas insieme a tre detenuti italiani, sensibili e professionalmente interessati a tali tematiche, ha progettato un corso di formazione per insegnanti di lingua italiana all’interno della struttura penitenziaria. L’elemento di rottura con i tradizionali corsi di lingua italiana è evidente. Abbiamo creduto e rischiato in un progetto che vede gli insegnanti non più figure esterne alla realtà carceraria, ma a partire dalle stesse condizioni di vita, attraverso l’apprendimento di una strumentazione metodologica necessaria, in costante interrelazione dinamica con gli specifici bisogni espressi dagli studenti stranieri reclusi.

L’incontro con la Dilit-lnternational House non è stato casuale, ma frutto di una precisa e felice scelta, poiché per tale progetto non erano sufficienti solo competenze professionali, ma si richiedeva una condizione prioritaria ed irrinunciabile come quella di un’attenzione al problema delle comunicazioni intersociali a partire da una realtà di reclusione, di estrema povertà e totale emarginazione.

L’evoluzione e la concretizzazione del progetto iniziale, nonostante le continue difficoltà di carattere amministrativo e burocratico da superare, ci spinge a credere che sia possibile un modo nuovo di affrontare il problema linguistico in carcere, credendo nella affermazione di Cioran “non si abita un paese, si abita una lingua”.

Riflessioni dei partecipanti al corso
P. Bertolazzi, M. Capuano, P. Vanzi, P. Di Candio, N. Di Candio. V. Valente

Una breve premessa

Seduti davanti ad un tavolo, per la prima volta da quando abbiamo iniziato il corso, proviamo ad andare oltre le discussioni di questi mesi sulle singole lezioni e singoli aspetti per tentare una riflessione sulla esperienza fatta e tirarne un bilancio.

Per rendere maggiormente comprensibile quanto scriveremo ci sembra opportuna una breve premessa.

Innanzitutto, ed è la prima questione da noi affrontata, vogliamo esplicitare i contorni entro i quali abbiamo voluto mantenere la nostra riflessione.

La complessità della materia e la ricchezza del retroterra teorico su cui si fonda, ma soprattutto la centralità nell’insegnamento della pratica diretta e concreta, ci ha spinto ad evitare i rischi classici del “neofita” di inoltrarsi in valutazioni di merito o dissertazioni teoriche che l’esperienza ancora non consente, producendo così o inconcludenti sproloqui o, all’opposto, mutismi.

È fuori da questi rischi, vere e proprie gabbie mentali, che ci sembra si dia la possibilità di una esplorazione, dibattito e riflessione ampia e sicuramente più proficua: il tentativo cioè di raccontare, partendo dal bagaglio culturale e di esperienza di ognuno di noi, le impressioni, gli interrogativi, i problemi vissuti in questo primo impatto con l’insegnamento.

Due parole infine – ed è la seconda questione – su come sia potuto succedere che tre detenuti politici con lunghe pene e tre volontarie abbiano pensato ed organizzato dentro un carcere un corso di formazione per insegnanti di lingua italiana per stranieri, e in quale prospettiva lo abbiano fatto.

Parole non sui percorsi individuali che hanno portato ognuno di noi fino a scrivere queste righe, quanto sul contesto che ha reso possibile e legittima tale iniziativa.

Come tutti, in questi anni di profonda trasformazione, siamo passati da un approccio superficiale e distratto rispetto alla continua crescita delle presenze straniere in Italia a ritrovarci a vivere immersi in realtà, situazioni e problemi che ben poco avevano del conosciuto.

Negli ultimi anni un flusso costante di “migranti” – provenienti dall’Asia, Africa, Europa dell’Est – della consistenza di milioni di persone, si è riversato sull’Europa Occidentale, e diversamente dalle altre migrazioni di questo secolo, anche i paesi del Sud Europa ne sono stati coinvolti. Italia compresa.

Al di là delle motivazioni, cause e responsabilità, che rappresentano un campo a sé di analisi e discussione, ciò che è importante, crediamo, mettere in rilievo, è il suo non essere un fenomeno transitorio ma un dato strutturale di quest’epoca, destinato, con tutta la probabilità, ad aumentare quantitativamente e qualitativamente nei prossimi anni.

D’altro lato, la fisionomia, le aspirazioni e le esigenze di gran parte dei migranti sono mutate rispetto a quelle della figura tradizionale dell’immigrato. Un’immigrazione cioè che non si caratterizza più prevalentemente nella ricerca di un lavoro per un tempo limitato, per tornare quindi nei luoghi di origine, ma che è orientata verso un insediamento stabile e una accettazione piena, a tutti gli effetti, nel paese ospitante (anche se ciò tuttavia non significa affatto una volontà di perdere la propria identità culturale).

Per l’Italia questa trasformazione ha significato una vera e propria improvvisa “mutazione genetica”. In un breve arco di anni, paradossalmente, si è passati da un paese di prevalente emigrazione con ancora gli echi delle battaglie per un riconoscimento pieno e pieni diritti alle comunità italiane all’estero, ad un luogo meta di immigrazione. L’Italia si sta trasformando in un paese con all’interno rilevanti ed eterogenee minoranze etnico-linguistiche e culturali.

Un passaggio questo non facile, complicato dal fatto che il mutamento a società multietnica non è contenibile nel solo ambito della sfera politica ma investe sia la dimensione etico-morale che quella del comportamento individuale.

Contrariamente a quanto ci si è illusi inizialmente, la qualità nuova delle problematiche che l’immigrazione pone non trova nessuna continuità “naturale”, né un’evoluzione lineare con le tradizioni, la cultura, con le esperienze concrete di questo paese. Ed inoltre il richiamo ad astratte petizioni di principio, le pur giuste frasi sull”‘Uguaglianza”, la “Solidarietà”, ecc., così come il ricorso alle ideologie ed ai loro valori ha scarso valore pratico ed ancora minore efficacia reale senza una rielaborazione delle stesse che le caratterizzi come soluzioni possibili nel concreto della società attraverso battaglie politiche, culturali e sociali.

Il carcere non è ovviamente un’isola incontaminata dal resto del paese: parallelamente alla realtà esterna, anche questi luoghi si sono lentamente popolati di presenze straniere fino a raggiungere la quota del 10% dell’intera popolazione detenuta. (Assumendo come validi i dati rilevati circa un anno fa.)

La particolare funzione che svolge il carcere e la particolarità di popolazione “italiana e non” che vi è rinchiusa, pur creando un proprio ambito di necessità e di esigenze specifiche – a volte accentuando e drammatizzando alcuni problemi – non muta però sostanzialmente le problematiche di fondo.

Nel confronto che abbiamo avuto tra noi in questi mesi è infatti emerso con chiarezza come sia nella “società libera” sia dentro il carcere i problemi posti dall’immigrazione non trovano affatto adeguate e dignitose soluzioni: le attenzioni delle istituzioni, i loro provvedimenti sono più un tampone nella logica delle continue “emergenze”, che una scelta precisa per organizzare la convivenza nella società. E d’altro lato anche nella “coscienza collettiva” tali problemi sono vissuti come globalmente esterni, se non radicalmente contrapposti, alle problematiche della comunità nazionale. Recintati tutt’al più in un ambito di carattere lavorativo e puramente assistenziale, ma soprattutto dell'”ordine pubblico”, non devono in ogni caso mai ledere gli interessi “autoctoni”.

Un tipo di risposta quindi, o meglio di silenzio e di disinteresse, che rischia di marginalizzare una enorme quantità di persone e di fatto struttura una società con cittadini di seconda e terza categoria. Con le relative tensioni che ciò produce.

È il nostro vissuto di questi anni. Dove alla riflessione sulla dimensione politica del problema e delle sue possibili soluzioni si è intrecciato il piano più strettamente individuale ed ineludibile del misurarsi con il quotidiano delle relazioni sociali nel quale si è immersi e con il rischio di un loro silenzioso ma sicuro degrado.

Entro questo coacervo di problemi – fatto di silenzi e vuoti ma anche di iniziative e dibattito, per quanto frammentario – abbiamo inteso misurarci.

Abbiamo pensato al corso e alla possibilità di insegnare, che per qualcuno di noi potrà anche trasformarsi in una concreta prospettiva di lavoro, con il chiaro intento di intervenire direttamente sulla esigenza di relazione delle realtà extracomunitarie con le strutture purtroppo impreparate della nostra realtà socioculturale.

In questo senso il problema della lingua, o meglio della comunicazione, nonostante la sua attuale sottovalutazione, a noi sembra di primaria importanza. È attraverso la comunicazione e nella comunicazione che si dà la possibilità stessa di strutturare i rapporti sociali e la loro qualità.

Qualsiasi progettualità che voglia andare oltre l’attuale impostazione assistenziale per confrontarsi con le esigenze ed i bisogni degli immigrati e delle loro comunità non può infatti non tenere conto che una migliore capacità di comunicare permette una conoscenza dell’ambiente e della società italiana e rende possibile un pieno inserimento politico culturale e sociale di tali realtà. Oltre che, ovviamente, permette a noi una piena conoscenza, non viziata da falsi stereotipi e pregiudizi, del loro mondo, cultura, modi di pensare, ecc.

Il corso comincia. Le aspettative, il primo impatto e le “salutari rotture “

Detto ciò dobbiamo anche aggiungere che, inizialmente, gli aspetti più specificatamente “didattici”, e cioè la problematica del “come” riuscire ad insegnare una seconda lingua, non erano affatto considerati. O, più precisamente, venivano confinati tutt’al più in un ambito di carattere puramente strumentale – e quindi trascurabile – rispetto alle tensioni e all’ordine di problemi che ci avevano mossi a pensare una simile iniziativa dentro un carcere.

In questo senso una breve parentesi sul tipo di aspettative rispetto al corso, e precedenti al suo inizio, può essere utile per comprendere il percorso fatto in questi tre mesi e cosa ci ha dato in termini di arricchimento.

Abbiamo sempre pensato che un corso per diventare insegnanti di lingua italiana consistesse sostanzialmente nel riuscire ad impadronirsi di una serie di tecniche di insegnamento che, nella loro essenza e qualità, avrebbero ricalcato il classico, tradizionale, e per noi in quel momento ancora unico, approccio all’insegnamento della lingua a stranieri.

Un’idea, schematizzando, di un metodo incentrato su precisi corollari quali l’apprendimento di un corpo di regole grammaticali – considerato essenzialmente come modellizzazione rigida di norme morfosintattiche di comportamento linguistico – e con una serie di attività di “rinforzo” e di fissazione delle strutture linguistiche apprese e finalizzate al conseguimento di una maggiore abilità e “confidenza” con la lingua parlata e scritta. Ed ancora, con l’insegnante, figura centrale e predominante, nei panni di depositario e trasmettitore di certezze, regole e forme verbali corrette, che gli studenti dovevano sforzarsi di apprendere, e via dicendo. Certo, magari pensavamo che il tutto venisse colorato anche dallo sforzo di creare nella classe un’atmosfera “allegra”, meno seriosa del solito. Uno sforzo tuttavia che, in quest’ottica, restava comunque una semplice… divagazione rispetto al tema!

In conclusione, quindi un’idea dell’insegnamento con studenti di fronte a libri di grammatica e di esercizi – e per quanto ci sforzassimo di immaginarli “fantasiosi”, pur sempre i classici e noiosi libri di grammatica rimanevano -, con l’insegnante alla lavagna, magari pronto alla battuta e al “gioco”, ma sempre con il “gessetto in mano” e la voce un po’ roca per le spiegazioni date. Complice in ciò, non lo neghiamo, anche il modello tradizionale e dominante di insegnamento, mutuato da pregresse esperienze scolastiche in materia.

Questa, grosso modo, era l’aspettativa come “futuri insegnanti” e intorno a questi nodi credevamo si dipanasse il corso.

Il tutto si è però iniziato a problematizzare fin dalle prime lezioni. Non tanto e non solo nell’approccio avuto con le specifiche strategie didattiche, quanto soprattutto nel confronto con le premesse teoriche ed il discorso generale che ne sta a monte e le fonda metodologicamente: una concezione cioè della lingua come sistema ben più ricco ed articolato di una serie di regole e correlazioni morfosintattiche e grammaticali, il quale, per dirne una, chiama in causa per esempio una riflessione più profonda sui complessi rapporti che esistono tra lingua e convenzioni culturali/sociali.

A questo punto ci sembra non secondario sottolineare come non ci fosse affatto sconosciuto, almeno a livello di tematica generale, il corpo di tesi che definisce l”‘approccio relazionale” oppure la problematica della “pragmatica della comunicazione”. Ed inoltre nessuno di noi aveva mai messo in dubbio che la lingua fosse un qualcosa di separato o altro dalla capacità di agire rapporti e relazioni sociali. Nessun dubbio, cioè, sul suo essere espressione genuina e concreta del sociale e di quanto vive in esso, come frutto delle relazioni umane e delle convenzioni socioculturali date in una determinata società.

Ma tant’è!… come spesso e volentieri succede, nel concreto – e considerate le nostre aspettative – tale consapevolezza e queste conoscenze rimanevano tuttavia compartimentate o comunque non sufficientemente in comunicazione con altri campi a cui, per conseguenza logica, esse dovrebbero “naturalmente” integrarsi (più che superfluo per esempio soffermarsi sul come questa visione della lingua ecc., implichi anche una riformulazione radicale della metodologia didattica e dell’insegnamento di essa).

Non ci sembra quindi per nulla paradossale affermare che il “tradimento” delle nostre aspettative ha avuto, in questo caso, riscontri del tutto positivi. Per cui non ci resta che salutare questa “delusione” con piacere e soddisfazione, soprattutto perché ci mette in grado di poter affrontare in termini sicuramente più seri ed approfonditi tutta la problematica dell’insegnamento.

Salvo poi, ma questa è tutt’altra storia, il dover constatare anche l’avvenuta complicazione di ciò che già prima ci sembrava essere compito non proprio semplice!! Già: perché un conto è attrezzarsi per insegnare nei termini “tradizionali” una lingua come seconda lingua, ben altro è riuscire a farlo partendo dal presupposto dell’estrema complessità e profondità che essa possiede, e che quindi non può certo essere ingabbiata – ma ciò siamo in grado di affermarlo con una certa consapevolezza solamente ora… – solo nel gioco delle pertinenze e congruità grammaticali e morfosintattiche.

Senza volere con ciò entrare approfonditamente nel merito del corpo teorico-pratico che in questi mesi abbiamo appreso, vogliamo però tuttavia richiamare brevemente i punti a nostro parere qualificanti di tale “insegnamento comunicativo”, quelli che, comunque, più di altri hanno messo in discussione le nostre precedenti “certezze”, permettendoci contemporaneamente un’ampliamento dello sguardo su un terreno fino a quel momento sconosciuto.

Un primo punto fondamentale ci sembra essere stato quello dell”‘approccio comunicativo”, che considera la lingua come risultato dell’intreccio di più piani e non quindi unicamente inferibile da una prospettiva strettamente testuale-linguistica. Lo sforzo, cioè, di trattare la lingua – o la successione di atti comunicativi – come comportamento linguistico determinato da diversi elementi (il contesto linguistico, il contesto extralinguistico, le convenzioni idioculturali, I”‘enciclopedia” di chi parla, ecc., ecc.). O, in altri termini, il porre l’attenzione non solo al “come” si dice…, ma anche al “cosa” si dice, chi sono le persone che comunicano e quali scopi hanno in questa comunicazione, quali le relazioni, i ruoli e gli atteggiamenti psicologici, ecc.

Una riflessione questa che ha fatto emergere in tutta la sua estrema complessità ciò che “banalmente” ogni giorno e mille volte al giorno facciamo comunicando, con molta poca consapevolezza e tuttavia, salvo rari casi, sempre applicando in termini “corretti” i modelli e le convenzioni pragmatiche del linguaggio.

Da ciò ne è risultata una visione globale e su più piani dell’oggetto in questione (l’atto comunicativo) e di conseguenza è emerso anche con chiarezza come insegnare una lingua implica soprattutto il mettere in condizione lo studente di conoscere ed impadronirsi di un determinato modello socioculturale di comunicazione / relazione / interazione tra esseri umani.

Proseguendo in questo breve escursus non possiamo tralasciare di sottolineare l’importanza che ha avuto per noi il concetto di “Interlingua”, con tutto il complesso schema teorico che lo sostiene. Infatti, più che evidenti sono, per esempio, le implicazioni didattiche relative al fatto di considerare ciò che lo studente straniero riesce a produrre in termini linguistici non come collage caotico e casuale – quindi come errori e deviazioni più o meno ampie da un modello astratto di lingua – quanto invece come un vero e proprio sistema operante di comunicazione dinamico che esso possiede e da cui soprattutto occorre partire per portare lo studente ad un grado di competenza maggiore nella lingua (e quindi per spostare in avanti il livello e grado di complessità che la sua interlingua ha).

Ma le conseguenze dell’introduzione del concetto di interlingua non investono solo questo peraltro fondamentale aspetto.

L’enfasi posta sull’importanza, nell’insegnamento della lingua, dei meccanismi acquisitivi (che nell’approccio didattico tradizionale vengono considerati i parenti poveri, elementi secondari, del processo della conoscenza) e la conseguente problematica del dinamico (e mai predefinibile a priori) rapporto ottimale tra attività didattiche basate sull’apprendimento e quelle invece basate sull’acquisizione, trovano forse qui la loro più piena fondazione e giustificazione teorica. Così come del resto acquista la sua piena legittimità di essere, crediamo, la questione di una necessaria ridefinizione del ruolo dell’insegnante nella classe e della relazione tra esso e lo studente (con il baricentro spostato verso lo studente) che, inserita dentro quest’ambito di ragionamento, acquista una sua reale efficacia e operatività, evitando Così anche l’ambiguità di diventare un semplice omaggio ideologico all’altare di un democraticismo formale e vuoto.

E così, pur restando invariato l’interesse di partenza (la possibilità di cominciare a misurarci parzialmente ma nel concreto con i problemi connessi ad una società che sempre più sta diventando “multicolore”), oggi scopriamo anche il piacere di poter gettare uno sguardo più approfondito e praticare un terreno – quello della glottodidattica – di cui fino a ieri quasi ignoravamo l’esistenza.

Ma non c’è rosa senza spine

Nello svolgimento del corso si sono però anche evidenziati una serie di problemi, alcuni dei quali connaturati a un qualsiasi corso di formazione insegnanti, altri invece più specifici dell’ambito in cui il corso stesso si è tenuto (il carcere) e della fisionomia socio-culturale degli studenti stranieri che in questo ricoprivano il ruolo di studenti-cavie.

Per quanto riguarda il primo ordine di problemi, quelli cosiddetti “strutturali”, la cosa fondamentale che è emersa fin dal primo momento è che, nelle ore di lezione pratica con gli stranieri, la “centralità” è stata nostra e non di questi ultimi.

Anzitutto – e questo pensiamo sia stato un passaggio dovuto – proprio perché noi, nel doppio ruolo di studenti/insegnanti, andavamo ad introdurre progressivamente tutte le nozioni, tutte le varie tecniche di insegnamento che via via ci erano state fornite. Le lezioni erano quindi il momento di applicazione-verifica della didattica appresa e questo non solo non ha permesso di centrare l’attenzione sui bisogni linguistici e comunicativi della classe, come sarebbe indispensabile, ma in alcuni casi le attività svolte avevano poco senso per gli studenti stranieri. Vedi ad esempio le prime Ricostruzioni di conversazione, soprattutto nei livelli intermedi, dove la proprietà linguistica degli studenti era totalmente sottoutilizzata. Noi, infatti, intenti a cimentarci con il problema della mimica, abbiamo completamente e appositamente ignorato la loro capacità di comprendere la lingua, dando così corso a delle lezioni quantomeno strane. Difficile per loro dare un senso accettabile al fatto che noi ci ostinassimo a non usare nemmeno una parola di italiano quando loro erano perfettamente in grado di comprenderle, seppure solo a livelli bassi.

Ovviamente quando gli studenti non capiscono il senso di quello che l’insegnante fa fare loro, chi ne fa le spese è quel feeling su cui si misura l’andamento più o meno positivo di una classe.

Così ne sono uscite delle lezioni in cui (per forza) l’insegnante svolgeva anzitutto un’attività per se stesso, prima che per gli studenti.

Un paradigma rovesciato, di cui tuttavia riconosciamo la necessità

Oltre a questo carattere “oggettivo” che ci poneva come “centrali”, se ne è dato uno anche soggettivo. Nella stessa applicazione delle tecniche appena apprese la nostra attenzione e tensione è stata prevalentemente rivolta verso noi stessi, verso quello che stavamo facendo più che ai segnali che incessantemente, come è ovvio, gli studenti ci lanciavano.

D’altra parte la scarsa confidenza con le tecniche da applicare, la pressoché assoluta inesperienza sul terreno dell’insegnamento (con l’aggravante di doverla esercitare sotto l’occhio attento e critico del formatore oltre che degli altri neo-insegnanti), e non ultimo l’eccessivo senso del ridicolo che ci accompagna, soprattutto quando ci troviamo in una situazione nuova che non padroneggiamo (purtroppo siamo tutti un po’ prigionieri di una cultura che ci vuole sempre molto “compresi” nei ruoli che andiamo a interpretare. Liberarsene è sempre un’operazione abbastanza complicata, e che necessita dei suoi tempi) sono tutti aspetti che hanno avuto un loro peso nel nostro approccio con la classe.

Aspetti che la pratica – ne siamo certi – attenuerà fino a farli sostanzialmente scomparire. Ed infatti, nel procedere delle lezioni questi si sono già notevolmente ridimensionati.

Tutti questi, come abbiamo già avuto modo di dire, potremmo definirli come limiti strutturali a un qualsiasi corso di formazione per insegnanti.

Di ben altro spessore sono altri problemi che per ora abbiamo solo intravisto, ma che riteniamo siano connaturati alla realtà socio-culturale della immigrazione, di cui lo straniero detenuto è una determinazione.

Ovviamente la nostra conoscenza diretta di altre realtà d’insegnamento rivolte verso fasce diverse di utenza, come ad esempio quelle coperte dalla Dilit, è pressoché nulla. Le nostre osservazioni, quindi, sono unicamente il frutto di deduzioni logiche. Inoltre lo stesso spazio da cui le abbiamo rilevate è così limitato – poche ore di lezione – che non ci sentiamo di fare alcuna assolutizzazione, ma solo di porre alcuni problemi.

Il primo con cui ci siamo scontrati è quello degli analfabeti.

Circa un 14%, insomma una cifra che ci deve far riflettere. Certo, potrebbe essere stata anche una casualità; se però facciamo riferimento alla realtà dell’immigrazione allora è lecito pensare che il caso c’entri ben poco.

L’immigrazione ovviamente non può certo essere ridotta al luogo comune dell’analfabetismo e dell’ignoranza. Anzi, sappiamo che gli immigrati uniscono in sé sia il grande “bisogno” di un popolo, ma anche la forte determinazione a ricercare spazi e prospettive nuove alla realtà che essi vivono. In un certo senso potremmo definire gli emigranti come la parte più attiva ed intraprendente di un’area socio-economica in crisi (squilibrata).

Essi danno quindi vita ad una realtà socio-culturale estremamente composita. Sarà quindi più facile trovare analfabeti qui, piuttosto che fra gli studenti Dilit.

Questa constatazione ci rimanda a una serie di problemi che riteniamo tutt’altro che secondari. La metodologia di insegnamento, infatti, non nasce dal nulla. Non ha nulla di neutro. La didattica si costruisce dentro una pratica di insegnamento concreta; si forma attraverso una generalizzazione di questa pratica, e quindi esprime tutta la complessità, ricchezza e limiti, dell’ambito in cui si è formata.

L’analfabetismo perciò pone una serie di problemi metodologici e didattici che vanno ben al di là del fatto che lo studente non sappia leggere e scrivere. Un conto, infatti, è insegnare a un soggetto che ha già una conoscenza precisa di come la sua lingua è strutturata, dei suoi meccanismi logici, delle sue funzioni, del rapporto che intercorre fra queste e del come intercorre…; altro è insegnarla a chi è all’oscuro di tutto ciò, o più precisamente, non ne conosce gli aspetti teorici, visto che poi la sua lingua lui la pratica.

Lavorare in questo settore, crediamo quindi che comporti una elaborazione/sviluppo della metodologia finora appresa. Un suo riadeguamento alla diversa realtà con cui si va a misurare.

Insomma, un problemino abbastanza serio…

Un altro aspetto strettamente legato all’immigrazione – ed in particolare alla detenzione straniera – è la tendenza a rinchiudersi all’interno della propria comunità rendendosi impermeabili all’esterno. D’altra parte, in una realtà dove tutto ciò che circonda gli immigrati si presenta loro come ostile, un siffatto atteggiamento è più che naturale.

Tale rigidità comporta però dei seri problemi per quanto riguarda la socializzazione fra gli studenti. Quello della socializzazione è infatti un aspetto cardine dell”‘insegnamento comunicativo”. Già crediamo sia difficile normalmente rovesciare la tendenza “naturale” che ha lo studente a impostare e ricercare continuamente un rapporto privilegiato con l’insegnante; immaginiamoci come la cosa si complica quando a ciò si aggiunge una diffidenza di carattere etnico nei confronti degli altri studenti.

Qualcuno potrebbe osservare che la stessa diffidenza dovrebbe manifestarsi anche nei confronti dell’insegnante. Molto probabilmente l’insegnante si sottrae a questa proprio in virtù della “dipendenza” strutturale che lo studente avverte e riconosce.

Quello che è qui in discussione comunque non è una concezione più o meno democratica dell’insegnamento, ma un nodo didattico fondamentale: come si smuove l’interlingua dello studente.

Nel rapporto con l’insegnante lo studente non si lascia mai andare, è sempre sulla difensiva, misura ogni parola che dice nel timore di sbagliare; ma così facendo limita drasticamente la sua comunicazione con gli “altri”, cioè non sviluppa proprio la pratica fondamentale che gli permette di smuovere la propria interlingua.

È questo il motivo profondo che rende così decisiva la socializzazione tra gli studenti. Ed è per questo che riteniamo che qualsiasi insegnante di lingua che vuole operare in questo ambito dovrà fare molta attenzione a questa problematica. Smuovere le piccole e grandi diffidenze che questa realtà incessantemente produce sarà un’attività tutt’altro che secondaria.

Piccoli problemi, specifici proprio della realtà carceraria, sono invece rappresentati dalla possibilità di trovare partecipanti al corso animati più dall’individuazione di uno spazio che permetta loro di sfuggire alla monotonia e all’abbrutimento dello stare chiusi in una cella, piuttosto che da una tensione reale verso l’apprendimento dell’italiano. Il che, si badi bene, ha già in sé una valenza positiva. Sia perché, seppure animati da altre tensioni, già il fatto di prendere parte alle lezioni li porta a contatto con una realtà che, non è detto, non li “catturi” (un’altra volta… ??!!); sia perché tutto ciò che permette ad un detenuto di uscire dalla dimensione opprimente e totalizzante della galera, anche se solo per brevi attimi, non può che trovare il nostro pieno ed incondizionato sostegno.

Quindi, la partecipazione al corso intesa come evasione è sicuramente un dato di fatto con cui qualsiasi insegnante dentro il carcere non potrà non fare i conti. Un fatto peraltro che non va caratterizzato negativamente.

Un altro aspetto specifico di questo mondo è la tensione all’autoaffermazione spinta al limite della paranoia. Questo è da considerarsi un dato strutturale non tanto del soggetto detenuto, quanto un effetto indotto dall’Istituzione Carcere. In una realtà come quella carceraria, che tende ad annullare l’identità del detenuto, la tensione ad affermare se stessi in ogni cosa e in ogni momento è da considerarsi sicuramente come un fatto vitale. Ma d’altra parte questo fatto ha anche un risvolto non del tutto positivo sullo svolgimento del corso. Infatti, questa tensione così sviluppata all’autoaffermazione va sicuramente a discapito della socializzazione. Il compagno di corso viene identificato più come un concorrente che come un soggetto con cui collaborare. Anche in questo caso l’interlocutore privilegiato diventa l’insegnante.

A conclusione di questa nostra prima e provvisoria riflessione, vogliamo sottolineare ancora una volta che non siamo voluti entrare nel merito specifico delle singole attività didattiche apprese, tralasciando volutamente di dare valutazioni sul rapporto tra corpo teorico-metodologico e la sua concretizzazione nella pratica didattica.

Come accennavamo nella premessa, la scarsa esperienza di insegnamento non ci permette ancora di padroneggiare adeguatamente la materia in modo tale da poterci spingere in valutazioni su singoli aspetti.

Ciò tuttavia non significa che non siano sorti tra noi, durante lo svolgimento del corso, problemi e dubbi in merito. Solo che essi ci sono sembrati ancora privi di una loro chiara fisionomia: una loro definizione più netta e soprattutto comprensibile pensiamo possa darsi solo nello sviluppo della pratica concreta dell’insegnamento.

Ed a questo momento dunque rimandiamo.