Cerca

post

Corso di formazione Dilit – un anno dopo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Ho la fortuna di lavorare in una scuola che si rifà ai principi della Dilit IH di Roma e che mi lascia una notevole libertà di azione e sperimentazione. Le mie considerazioni partono dunque da questi favorevoli presupposti.

È passato oltre un anno da che ho partecipato al corso di formazione della Dilit e ripenso con piacere e nostalgia a quelle “giornate particolari” dove spesso nel corso di un pomeriggio poteva capitarmi di vedere capovolti i principi della didattica che fino allora conoscevo dalle esperienze scolastiche e universitarie. Era intenso quel periodo e con fremente curiosità si aspettava il mattino seguente. Il piacere delle scoperte quotidiane non era scontato come poteva essere per i capitoli allineati di un manuale. Certo, il cammino da percorrere era definito, eppure la sensazione era di prendere parte a un emozionante esperimento che richiedeva il coinvolgimento personale per essere realizzato. Il principio della “ricerca emozionante” che mi ha aiutato fino ad ora a rendere più bello il mio mestiere è forse l’aspetto di cui sono più grato al corso di formazione.

Senza dubbio devo ai miei formatori anche tutta una serie di piccoli e grandi suggerimenti pratici, “dritte”, che una persona ignara come ero io dell’insegnamento avrebbe potuto acquisire solo dopo faticosi trial and error. Il vantaggio di fare i propri primi tentativi sotto la guida di un insegnante e all’interno di un gruppo solidale è incalcolabile. Il rispecchiarsi negli altri, l’esporsi, l’agire alla luce del sole, il rendersi ragione dei propri comportamenti, il liberarsi dalla zavorra di piccole idiosincrasie e permalosità, e finalmente l’essere aperti alla critica fondata – per tutto ciò il corso di formazione è stato un ideale momento di autocoscienza e di crescita della personalità. A ciò si aggiunge che come partecipanti al corso di formazione si era contemporaneamente a contatto con un ambiente di lavoro “autentico”, non creato ad hoc come può avvenire per i seminari. Per una persona che inizia a lavorare anche questa conoscenza del mondo del lavoro dal suo interno non è da sottovalutare.

Ogni inizio racchiude in se il fascino dell’assoluto. Per questa ragione i perfezionisti sono quelli che in continuo riniziano. Si riparte da zero perché si crede di poter venire a capo della fallibilità umana. In questo senso il corso di formazione ha necessariamente un effetto benefico perché costringendo chiunque vi partecipi a ripensare tutto dall’inizio ristabilisce, come minimo, un contatto con la dimensione del possibile che pur ci appartiene e che apre le porte al cambiamento. Prima di divenire canone, se mai un insegnamento autocritico può avere tale aspirazione, tutto ciò che la tradizione ci ha fatto pervenire deve essere messo in dubbio. Anche chi non vi si riconosce, anche chi prenderà altre vie, più tradizionali o più sperimentali, è spinto dalla radicalità di questi principi a una fertile riconsiderazione. Quando rifletto sul mio lavoro provo dunque a ricordare la lezione dell’inizio: è anche un modo per tornare innocente, per espiare le colpe che necessariamente ogni insegnante accumula.

Tuttavia solo grazie all’organizzazione temporale del corso – così compatta e organica – si può giungere a un reale riesame critico dei propri principi didattici. Lo stesso programma svolto frammentariamente e diluito nel tempo mi pare destinato a riscuotere successi molto minori. Si capisce che stiamo parlando di una formazione di base, delle radici, non dell’aggiornamento. La coerenza teorica di ciò che si apprende è costruita giorno dopo giorno, segue una progressione dove mancare fasi intermedie potrebbe divenire fatale alla comprensione del tutto: non si tratta quindi di elencare idee o trucchi di diretta applicazione nelle lezioni, ma di avviare alla riflessione sull’insegnamento. Chi vi partecipa è costretto a lasciare quasi tutto da parte in quelle quattro settimane, e – volente o nolente – dovrà confrontarsi con le questioni e le proposte che emergeranno: nell’ipotesi più sfavorevole dovrà almeno giustificare un rifiuto, e questo è già tanto. In fondo non si può chiedere nulla di meglio alle persone, agli insegnanti che di ragionare sulle proprie azioni. Così, se anche il “metodo” offre per il singolo un prezioso orientamento pratico, la sua peculiarità sta nel richiedere a chi lo attua di essere autocritico, di considerarlo come una possibilità per nulla definitiva.

Non posso quindi che sottolineare l’importanza centrale della teoria, dell’approccio teorico, pena il rischio di diventare perpetui ripetitori di attività che “funzionano”. La dialettica di teoria e pratica giunge a mio avviso pienamente a compimento nel corso di formazione: se è vero che non c’è buona teoria senza pratica, tanto meno esiste una valida pratica senza teoria. Riconoscere la realtà e l’esigenza della teoria è essere consapevoli che in tutti i casi si percorre una via, ed è il primo passo per il cambiamento.

Avere assorbito, fatta propria la lezione, ossia sapere motivare personalmente le proprie azioni facendo riferimento a una teoria è fondamentale anche nel rapporto con gli studenti. Chi non conosce la situazione di una classe o di un singolo studente stranito dall’improvvisa autonomia che gli viene concessa? Parlare con gli studenti, renderli coscienti del processo di apprendimento che stanno attraversando, integrarli consapevolmente nei progetti di ricerca: tutto ciò sarebbe impossibile senza un plausibile riferimento teorico, renderebbe ridicolo colui che prende alla lettera un metodo d’insegnamento come il catalogo di trucchi di cui parlavo in precedenza. Infine come si potrebbero avvicinare gli studenti a uno dei cardini della didattica contemporanea, il concetto del lavoro autonomo, la responsabilizzazione del percorso di apprendimento di cui essi devono diventare consapevoli gestori, senza una chiarificazione teorica da parte dell’insegnante? Se spesso gli studenti hanno l’impressione di essere buttati nell’acqua è bene farli sapere perché ciò avviene. È forse questo del dialogo con gli studenti un aspetto che potrebbe essere più sottolineato nel corso di formazione. Introdurre nelle classi la teoria dell’insegnamento, spiegare agli studenti il perché di certe e non altre azioni può solo rendere più emozionanti e interessanti le lezioni per tutti.

Ho parlato molto di cambiamento, di riconsiderazione, di autonomia, di mettersi in questione in questo testo. Non vorrei lasciare tuttavia i lettori con l’impressione che l’insegnamento sia una faccenda di vita o di morte, di tutto o niente, di solo coraggio, di idealismo puro in cerca di realizzazione. Nelle quattro settimane del corso di formazione deve per forza essere così, almeno per una volta nella vita di un insegnante, perché, malgrado lo scetticismo e il cinismo, ognuno, come minimo nei suoi pensieri, agisce secondo una visione ideale. La realtà ci insegna che né l’insegnante né gli studenti sono pronti a queste sfide eroiche, a mettersi perpetuamente in questione, e ciò è troppo umano. (È stato detto che se tutti gli uomini fossero davvero autocoscienti scoppierebbe immediatamente la rivoluzione). Non vuole essere questo un invito a un qualunquismo piuttosto di moda, quanto invece un suggerimento a rivolgersi forse più spesso a quella “ricetta della nonna”, come l’aveva definita una partecipante all’ultimo seminario internazionale, che può aiutare a risolvere problemi non solo contingenti. Per i formatori questo può essere forse un utile spunto di riflessione. D’altronde ogni insegnamento è un’interazione, e ogni interazione avviene fra persone diverse, e tutte le persone diverse vivono in un tempo che è a cavallo fra il passato e il futuro, fra la tradizione e la novità. Navigare, barcamenarsi in queste acque non è sempre facile e, se si vogliono raggiungere la comunicazione e la trasmissione tanto ambite, affidarsi unicamente a una teoria può rivelarsi un mezzo infido. Allora rimane il senso comune, il common sense, una percezione saggia di alcune circostanze, un fare compromessi che in realtà aiuta la teoria, l’ideale. Ma questo chi lo può insegnare?