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A chi comunicare

Chi si pone nella condizione di insegnare e/o educare, ha di fronte a sé, più di altri, le seguenti questioni: perché, come e a chi comunicare. In questo scritto si pone l’accento sulla terza parte che riguarda “a chi”. Per quanto riguarda il tema specifico della comunicazione, sarà presentato a suo tempo un apposito scritto.

Per cominciare

A chi? A chi si sta comunicando? A un ingegnere? a un impiegato? a un cieco? a uno studente? a un bigliettaio? a un bambino? ad un giapponese? Per primo sempre si identifica, definendola, la persona che si ha di fronte: l’ingegnere, l’impiegato, il cieco, lo studente, il bigliettaio, il bambino, il giapponese. Questa pratica è assolutamente automatica cioè incontrollata, istantanea, vale a dire che si compie in tempi inavvertibili per l’essere umano, e comune, cioè riscontrabile in ogni persona. Quando l’automaticità e l’istantaneità rendono il fenomeno incontrollabile, invece di ammettere la nostra ignoranza a riguardo, lo nobilitiamo chiamandolo inconscio: inconscio è una bella parola che viene dalla nobile scienza della psicoanalisi; ignoranza è una brutta parola che fa vacillare il piedistallo che mi sono faticosamente costruito in tutti questi anni. Questo gioco di sostituzione, sostituire l’ignoranza con l’inconscio, è tranquillizzante ma ostacola il processo di conoscenza. Il fattore di comunanza accresce la tranquillità in quanto comune è assimilato a normale e sentirmi normale mi fa tirare un bel respiro di sollievo per lo scampato pericolo di essere un emarginato o un malato mentale. Qui c’è un altro gioco di sostituzione: nel passato erano comuni la schiavitù, lo jus primae noctis, il cannibalismo più o meno rituale, i duelli a difesa dell’onore, la pena della crocifissione,… non mi pare che ci si possa tranquillizzare per qualcosa che è comune o normale. L’unica cosa onesta che si può dire è che ignoriamo. Ma l’ignoranza è un insulto perché accende nel mio luogo della creazione immaginativa la relativa miseria materiale e morale intorno a me, ed io non voglio stare in quella posizione anche se solo virtuale: questo è un altro automatismo come quello sopra descritto che porta a definire chi mi sta di fronte. Se si vuole uscire dagli automatismi, l’ignoranza appare un bellissimo territorio da esplorare, ricco di sorprese e meraviglie: nell’ignoranza non c’è colpa, c’è limitazione alla libertà.

Prima osservazione: l’automaticità, l’istantaneità e la comunanza dei processi mentali sono controindicazioni ad ogni osservazione dei fenomeni. Per questo normalmente non si arriva alla formulazione della domanda che è alla base di questo scritto. Solo andando oltre le tre controindicazioni appena ricordate si potrà osservare per quale motivo sorge la ricerca della definizione di ogni persona con cui si entra in “comunicazione” e quali conseguenze ciò comporta.

Seconda osservazione: Il definitore attraverso la definizione crea i confini del definito. I limiti tracciati con il pensiero e con le relative parole sono soggettivi, quindi parziali; la definizione, così considerata, è un contenitore che racchiude il definito: chiunque sia il definitore, qualunque sia la definizione, chiunque o qualsiasi cosa sia il definito. Ciò non inficia l’utilità della definizione se la si utilizza sapendola approssimativa e temporanea, se pur vincolante. Nel campo dell’insegnamento e dell’educazione, basato su relazioni multiple e molteplici è necessario ricercare e perseguire una particolare chiarezza a proposito dei meccanismi che producono la definizione e le sue conseguenze, per garantire il buon fine del lavoro. Dovrebbe valere anche per gli insegnanti il primo principio di Ippocrate: primo, non nuocere.

Una chiave di lettura

L’archeologo non può limitare il suo lavoro al materiale che vede emergere dal terreno, anche se questo già può fornirgli interessanti informazioni; sa che sono solo indicazioni di massima e che ciò che cerca è soggiacente. Si immagini l’attività che qui si propone analoga a quella dell’archeologo: scavare con cura, attenzione, curiosità e pazienza come fanno loro, per andare a scoprire cosa si cela negli strati sottostanti. Qui si sta scavando sotto la definizione; e così si arriva alla terza osservazione.

Terza osservazione: la definizione presuppone un giudizio. Sembra ovvio, sembra banale. Ma lo è solo se si dà per scontata la conoscenza di cosa sia il giudizio, cioè se vogliamo fermarci a questo strato. Se invece il fine che ci prefiggiamo è la ricerca, o meglio, lo sviluppo, il lavoro inizia ora e ha per obiettivo l’osservazione e la scomposizione nei suoi minimi componenti del giudizio. Qui si propone solo l’introduzione a questo lavoro, che si perfezionerà ad ogni contributo che sappia andare al di là dei pregiudizi e della morale. Continuando a scendere si trova la:

Quarta osservazione: la portante del giudizio è la paura, che assolve alla funzione di arginarla, cioè ogni giudizio nasce per tappare il buco interiore provocato da qualche tipo di paura. Il buco interiore è uno stato del quale, per lo più, non ci rendiamo neppure conto e nel quale comunque non sappiamo stare da osservatori e automaticamente ne creiamo la colmatura attraverso il giudizio. Ma la paura di cosa? e di cos’è fatta la paura? Siamo ancora lontani dai minimi termini del nostro tema, ma per il momento verifichiamo quanto detto. Definizione, giudizio, paura: andiamo a vedere se sta in piedi quanto enunciato attraverso queste prime quattro osservazioni attraverso un intermezzo fantastico.

Visite inattese: il barbone e Leonardo da Vinci

Bussa alla porta di casa un barbone. È molto mal in arnese e chiede di entrare. Immagino che la risposta di tutti sarebbe negativa. Attenzione! Osservate il vostro primo umore che sorge alla vista del barbone, non il ragionamento che può far decidere in altri modi. Non siate preoccupati di fare bella figura con voi stessi, ciò che si sente di primo acchito è repulsione. Il giorno dopo suona alla porta Leonardo da Vinci (o altro personaggio analogo a piacere) e chiede di entrare. Questa volta immagino che non solo sarà fatto entrare ma che non ci sarebbe nulla da obiettare se volesse rimanere a cena e gli concederemmo il nostro stesso letto se domandasse ospitalità per la notte e forse lo pregheremmo di trattenersi qualche giorno, dandogli anche le chiavi di casa, in nostra assenza. Perché comportamenti tanto diversi? Oggettivamente si tratta di due esseri umani che domandano la stessa cosa. Il lato interessante di questa favola, che non è farina del mio sacco ma arriva dagli amici del Gruppo di Frascati, non sta nelle valutazioni di tipo etico ma nell’osservazione senza “tifo”, quindi senza moralismo, dei due comportamenti. Mentre sto guardando quel barbone sulla porta della mia casa nascono sensazioni, umori, di repulsione, di fastidio, di pericolo e conseguentemente le allontano allontanando il barbone. Se l’intensità delle sensazioni è particolarmente elevata, lo prenderò a male parole o addirittura chiamerò le forze dell’ordine. Anche l’obolo assolve alla funzione di esclusione alla vista.

Sensazioni di repulsione, di fastidio, di pericolo: insorgono così rapidamente e possono essere così indesiderabili che non si riesce a avvertirle per un intervallo di tempo sufficiente ad osservare di cosa sono fatte,… a meno che non si ricorra alla ” tecnica del tempo dilatato”, di cui si è già scritto negli Atti del Seminario Internazionale Dilit 1997 e 1998, rispettivamente negli articoli “Un erore di sbalio” e “Memoria, errore, fossilizzazione” e la cui conoscenza si da qui per scontata: non è altro che un semplice stratagemma che consiste nel trattare periodi di tempo infinitamente brevi come se fossero lunghi quanto ci pare e piace. Manipolare il tempo in questo modo permette, ora agevolmente, di andare ad osservare che succede all’interno dell’intervallo in esame, fotogramma per fotogramma ciò che accade nel luogo della creazione immaginativa e della memoria e nei luoghi fisici dove le creazioni immaginative fanno sentire i loro effetti di desiderabilità o di indesiderabilità: sono gli spazi che il Gruppo di Frascati chiama “Giasone” e “Narciso” e che corrispondono, con grande approssimazione, il primo a ciò che viene definito mente, cervello, memoria,… ed il secondo alle emozioni, alle sensazioni, ai sentimenti,… Attraverso l’osservazione alla moviola del tempo dilatato, quelle che fino ad ora sono state chiamate sensazioni, impressioni, idee, percezioni,… si presentano sotto una nuova luce; cominciano ad essere manipolabili, come filmati, i loro tempi di attuazione, i loro luoghi di emersione e, solo in parte per ora, i loro materiali. Compaiono così all’osservatore sequenze, scene e addirittura singoli fotogrammi.

La prima scena del filmato dell’azione che si sta considerando, il barbone e Leonardo da Vinci, ha luogo nell’ambiente esterno. Dall’esterno i contorni degli elementi dell’ambiente (barbone, portone di casa, strada,…) sono raccolti dai sensori oculari, olfattivi, uditivi,… e attraverso gli appositi percorsi, sotto forma di segnali, raggiungono il cervello là dove si crea l’immaginazione. Chiameremo questo ambiente “luogo dell’immaginazione o atrio mentale”. Una caratteristica di questo luogo è quella di permetterci di rivedere i particolari di oggetti, ambienti o persone che ora sono fuori dal campo visivo ma riemergono dalla memoria come su di un telone da proiezione: il volto della insegnante delle elementari, i mobili della cucina dell’appartamento dei vicini, le case dove abbiamo abitato anche se ora sono state abbattute, quel certo tramonto al mare l’anno scorso… o di vedere oggetti creati a piacere: un gatto verde con gli occhiali che balla il tango, un mandolino che volteggia nella stanza declamando poesie, io vestito in abito da cerimonia che ricevo a Stoccolma il premio Nobel,…

Nell’atrio mentale vengono accesi tutti i punti che risuonano alla polarizzazione della scena. Per avere una, se pur vaga, idea dell’effetto polarizzazione, si immagini il processo di formazione dell’alveo di un fiume: se dal pendio di una montagna inizia a sgorgare acqua, la massa scorre inizialmente lungo un percorso caotico, dettato dalle asperità del terreno. La traccia lasciata dal primo fronte d’acqua nel terreno forma la via preferenziale per ogni quantità d’acqua successiva, cioè l’acqua che sarà presente in quel certo luogo si troverà polarizzata verso quel percorso. L’alveo andrà via via definendosi; alcuni bracci finiranno per morire, altri per continuo passaggio si approfondiranno, vale a dire che si confermerà e si rafforzerà quella polarizzazione. L’acqua che seguirà subirà l’effetto scia all’interno del percorso che si è formato. Aumentando il solco dell’alveo aumenta la portata e ogni molecola d’acqua che sgorga dalla sorgente a monte ripeterà il tragitto polarizzato velocemente e automaticamente. Analogamente, in linea di massima, avviene con i segnali che dall’ambiente esterno raggiungono l’atrio mentale.

I punti che risuonano a una certa polarizzazione sono le cartelle relative a quell’argomento, il cui funzionamento è provvisoriamente considerato, per comodità ed ignoranza, similare a quello delle cartelle nei programmi del computer. Ogni cartella contiene più elementi “coerenti”, ma questi stessi elementi possono trovarsi anche in altre cartelle, che appartengono ad altre polarizzazioni. L’effetto dei film provenienti dalle cartelle risonanti costituiscono il fenomeno che è chiamato memoria.

A questo punto abbiamo le scene ricostruite dell’ambiente concreto e quelle risonanti provenienti dalla memoria che nell’atrio mentale si sovrappongono. Se le immagini che si originano dall’esterno e quelle che si originano dalla memoria si giustappongono armonicamente si avrà come segnale di stato la tranquillità; se invece la sovrapposizione è più o meno disarmonica e incompleta, origina una discrepanza. Un esempio per chiarire: se una mattina svegliandomi apro gli occhi e l’intorno mi restituisce i particolari che ricostruiscono, in Giasone, la mia camera da letto, Narciso risponderà con un segnale di stato, quasi inavvertibile, di quiete; se invece aprendo gli occhi, l’ambiente che si ricostruisce è la cella una prigione, Narciso comunicherà la forte discrepanza tra i profili della camera da letto e quel posto in cui mi trovo, attraverso il segnale di stato dei luoghi fisici preposti: il nodo alla gola, il pugno allo stomaco, il dolore al petto,… Tanto più forte è la discrepanza tanto più il segnale di stato relativo sarà intenso: il fastidio, la sgradevolezza, l’insofferenza, il dolore,… saranno i nomi con cui definiremo i segnali di stato delle discrepanze.

Ma ritorniamo al barbone. Mentre l’osservatore lo ha di fronte, nella sua memoria si accendono contemporaneamente le cartelle: stazione, dormire sui cartoni, mangiare dai cassonetti dei rifiuti, futuro vuoto e buio, gente che passa senza riconoscerti come simile e la conseguente perdita di tutto ciò che si ha: casa, affetti, riconoscimenti, sicurezze,…Queste scene che hanno come soggetto l’osservatore, in un incontenibile crescendo, si sovrappongono nel luogo dell’immaginazione alle scene che originano dall’esterno e danno come risultante una discrepanza intensa. Per un istante lui-barbone ed io-barbone sono la stessa immagine: io sono lui nel virtuale, con tutte le conseguenze del caso. La scena di questo film istantaneo ha come protagonista “me” e ciò è confermato dal fatto che le conseguenze di ogni fotogramma sono avvertibili fisicamente in “me” Questo disastro virtuale indica, attraverso i segnali di stato, a bersaglio in appositi luoghi fisici, il grado di disordine presente nel sistema. Visto in questo modo si tratta di uno stupefacente meccanismo segnalatore di disordine; se segnala il disordine ha come finalità il ritorno all’armonia. Non avendo dimestichezza con i segnali di stato “sgradevoli”, che in verità dovrebbero essere visti vaticinatori di equilibrio se opportunamente osservati, la soluzione più comune per risolvere la discrepanza è tappare il buco attraverso l’allontanamento del barbone. Carità o bastone assolvono alla stessa funzione.

Se si ha di fronte Leonardo da Vinci, la polarizzazione relativa porterà all’attivazione della cartella che comprende: nobiltà d’intenti, futuro radioso, riconoscimenti illimitati, onore eterno,… ed anche in questa occasione il soggetto è “io” perché è in me che viene letto e sempre in me si avvertono i segnali relativi, o sensazioni che dir si voglia. La semplice vicinanza a quello che ritengo un “personaggio” scatena quest’altro film, foriero di gloria e fama, di cui io vado a godere.

La scena in cui il barbone si fa insistente o quella in cui Leonardo da Vinci se ne vuole andare fa nascere la sensazione del pericolo; è il pericolo della perdita del proprio stato, una perdita che porta a diventare “nessuno”. Il pericolo è virtuale in quanto frutto dei meccanismi appena descritti ma l’effetto è concreto, fisico e per questo anche il pericolo è assunto come concreto: l’effetto che si avverte concretamente sul corpo non ci fa osservare che la sua origine è un film del luogo dell’immaginazione, per cui diciamo che il pericolo è concreto. È paragonabile all’affermare che la luna brilla di luce propria perché ne vedo la luminosità.

Ogni volta che si propone un ambiente o una persona come pericolo, si sgrana come il rosario questo meccanismo che ci lascia nel limbo dello stato di nessuno. Per uscire dal limbo di questo stato indeterminato immaginario, si ricorre ai tappi della definizione e del giudizio. La definizione ed il giudizio creano i confini di ciò che abbiamo di fronte; sono il rimedio al pericolo o meglio, alla paura da pericolo. L’effetto tappo scatta ormai automaticamente e così repentinamente che non si ha il tempo di osservarne e constatare la virtualità di tutto il processo.

Quinta osservazione: il pericolo è concreto ma non reale. Come si è detto prima scaturisce dalla virtualizzazione, quindi non è reale, ma si avvertono i suoi effetti a livello fisico: gola, petto, cuore, stomaco, pancia, pelle,… concretamente si fanno sentire. I mostri che ci spaventavano da ragazzini: non erano reali ma assumevano concretezza nella virtualizzazione (vedi il punto in cui si tratta del luogo dell’immaginazione il gatto verde con gli occhiali che balla il tango) e soprattutto attraverso l’effetto fisico della stessa. Lo stesso accade con i film del terrore o quando ci sembra di sentire dei rumori in casa la notte. I tappi assolvono allo scopo di lenire gli effetti fisiologici come in un automatico pronto intervento. L’istantaneità e l’automaticità che caratterizza questo meccanismo fa sì che non se ne sappia governare il processo di formazione. Questo fa riflettere: nessuno ci ha mai insegnato a governare i processi di formazione di quei fenomeni che si chiamano idee. Ma se non ne governo la formazione significa che nascono da sole, o meglio, si formano autonomamente con il materiale registrato e gli automatismi intrinseci nell’atrio mentale. Se così è, quando si pensa di formulare idee, liberi giudizi, in concreto, si rinnovano pregiudizi in quanto originati dall’assemblaggio automatico di vecchie registrazioni.

Anche nell’ambito di quella che si chiama scuola sia insegnante, l’educatore, che lo studente lasciano emergere pregiudizi, nel modo appena descritto. Tutto accade all’interno di un ambiente che ambedue definiscono “io” o “me”, cioè all’interno dei confini della pelle: i recettori del corpo raccolgono quelli che sono chiamati contorni, colori, suoni, odori, calore, massa,… ; tra il momento in cui i recettori sono raggiunti dai segnali e la voce che pronuncia il nome di quel colore o quell’odore o che altro, è passato così poco tempo che ci si sente autorizzati a dire che abbiamo espresso il nostro personale e libero giudizio: ci autorizziamo a credere di esserne gli autori. L’automatismo viene scambiato per libero arbitrio e come tale sarà difeso con tutti i mezzi.

Sesta osservazione: dall’ambiente circostante si opera costantemente una soggettiva, singolare selezione del materiale in entrata; ognuno è il responsabile del materiale che si ritrova in memoria. Gli elementi selezionati, dopo vari processi, si collocano nella memoria e da qui arrivano al momento opportuno per risonanza; ce li ritroviamo emergenti come fossero un nostro prodotto invece che una registrazione selezionata dall’ambiente. Un esempio a supporto della sesta osservazione arriva dalle certezze. Tutti hanno delle certezze e le difendono strenuamente. Almeno fino a quando non arriva il momento in cui si modificano; allora la certezza di ieri perde validità ora che è sostituita da una nuova. Quest’ultima rimarrà valida fino alla successiva modificazione. Facendo attenzione a quanto descritto è possibile affermare che la certezza non è legata all’oggetto o alla situazione, altrimenti di fronte allo stesso oggetto si avrebbe sempre la stessa reazione: le certezze non muterebbero, sarebbero assolute. Invece la certezza è relativa ad una condizione di discrepanza o meno del materiale interno alla memoria. Se non sentiamo discrepanza tra una cartella e le altre presenti asseriamo la nostra certezza. Quando dall’ambiente selezioniamo una nuova informazione, una nuova cartella, che contrasta con un’altra già in memoria, nasce la discrepanza che prende il nome di incertezza o dubbio: sono presenti contemporaneamente due certezze, una vecchia e una nuova. Quando gli elementi della nuova cartella si armonizzano con quelli delle altre relative, in modo più soddisfacente di quanto non lo siano quelli della vecchia, nasce una nuova certezza, più o meno differente dalla precedente.

Ma se si riesce a non innescare il meccanismo del giudizio, cosa ci si presenta di fronte? Avremmo davanti un organismo umano (il fisico), una cultura (le registrazioni selezionate in memoria) e le sue risorse. Dei primi due si è già detto, veniamo al terzo.

Settima osservazione: le risorse sono praticamente infinite; con la pratica diventano destrezze, quindi automatismi. Per verificare la settima osservazione basta guardarsi intorno proprio in questo momento: i movimenti della mano permettono di tagliare i cibi, suonare la chitarra, dipingere, operare chirurgicamente…; la scrittura e i libri trasmettono le parole attraverso lo spazio ed il tempo, come pure i dischi; il computer permette operazioni che solo qualche anno fa richiedevano enormi quantità di tempo o erano addirittura impossibili; la rete telefonica ci collega in tempo reale con tutto il mondo, passando per lo spazio; i medicinali risolvono in pochi giorni problemi che per i nostri nonni erano letali; gli occhiali che porto su naso mi consentono di svolgere ogni attività al pari degli altri; l’illuminazione consente di vedere la notte, come se fosse giorno sia in casa che per la strada; a piedi percorro pochi chilometri in un’ora, ma con la bicicletta posso arrivare a cinquanta, con la macchina comodamente oltre i cento e se voglio posso realizzare quello che si pensava fosse il sogno proibito per l’essere umano: volare nei cieli per arrivare dove mi va e qualcuno è arrivato anche sulla luna, con gran soddisfazione di Giulio Verne. Insomma gli oggetti e le strutture del quotidiano sono i frutti concreti delle risorse umane.

Quando si parla di questo argomento solitamente nascono commenti che riguardano l’intelligenza e le doti dei creatori e degli autori: lo scienziato, l’artista, l’esperto, il filosofo,… Da ciò si deve desumere che si nasca così perché sta scritto nel codice genetico o simili, anche se non esiste prova di ciò, vale a dire che il figlio di un genio ha le stesse probabilità di esserlo a sua volta che il figlio del barbiere. Ho letto teorie che spiegavano lo spiccato talento per la musica della famiglia Bach attraverso la presenza di una certa protuberanza cranica (il bernoccolo) retaggio del ramo maschile della loro famiglia ed altre che lo imputavano ad una dieta particolarmente ricca di carote e non mi ricordo di cosa altro. Ma Erik Satie una volta ha detto: “Non sapevo di essere un musicista fino a quando non mi sono autorizzato ad esserlo”, vale a dire fino a quando non mi autorizzo ad attingere alle risorse e le coltivo. Non è ciò che comunemente accade: il frutto delle risorse degli altri si può vedere ma non si può fare altrettanto con le nostre se giacciono ancora inutilizzate, quindi non possono dare ancora frutto. È un semplice fraintendimento di tipo logico: non si può paragonare un seme a un frutto, intendendo per seme la risorsa e per frutto il prodotto della stessa. È la stessa ingenuità che da bambino mi faceva dubitare di poter imparare a scrivere perché quando provavo non uscivano parole. Ma questo fraintendimento è sufficientemente comune da alimentare la formazione dei miti e creare di conseguenza i personaggi: ciò che è in loro, è di origine superiore! Loro sono degni, io indegno! Loro sì, io no! Questo malinteso collettivo fa si che si creino le “scale di autorevolezza” di cui si è parlato a lungo nello scritto “Un erore di sbalio”, Atti del seminario internazionale Dilit, 1997. Erano raffigurate così:

Il reticolo delle esperienze quotidiane di ognuno di noi comprende varie scale di autorevolezza, come quella sopra riportata, su cui posizioniamo attraverso la definizione (qui sarebbe interessante rileggere le prime cinque osservazioni) i vari personaggi, gli oggetti, le idee,… dell’ambiente circostante; ciò equivale all’assegnazione delle parti in una rappresentazione e seguendo le parti si svolge la sceneggiatura che si snocciola con tale scioltezza e automaticità da farci sembrare lampante che quanto accade è la verità e la realtà. Si è di fronte piuttosto a “previsioni auto realizzanti”. Era tutto sul copione. Fino a quando ci saranno scale di autorevolezza non ci sarà posto per altre verità ed altre realtà. Ma si è visto in precedenza che il materiale contenuto nella mente è frutto delle selezioni dall’ambiente e delle loro registrazioni. L’esperto, lo scienziato, l’artista, il filosofo di diverso dagli altri hanno solamente un certo numero di registrazioni in memoria ma soprattutto la loro stessa autorizzazione ad essere quello che gli altri pensano siano. Ognuno di noi è già esperto, scienziato, artista, filosofo in potenza. Ciò che ancora manca è la nostra stessa autorizzazione a manifestarlo, ma le risorse sono già presenti e le registrazioni di facile reperimento. L’ostacolo è costituito dall’ignoranza o meglio dalla paura dell’ignoranza che, come si è detto prima, invece di essere vissuta come un ampio spazio di ricerca di cose sicuramente splendide che ancora sono celate, innesca le cartelle della memoria dove si accende la miseria materiale e spirituale dell’ignorante; da questo insulto voglio all’istante fuggire utilizzando qualche tappo, qualche scappatoia. È il tappo che non ci permette di andare a scoprire che sotto il primo velo del comune intendimento dell’ignoranza c’è un bellissimo spazio che aspetta solo di essere esplorato.

Per mobilitare le risorse

  • il primo passo è conoscerne l’esistenza. Può sembrare banale ma non lo è. L’ingenuità, o l’ignoranza, ci persuade che i processi automatici sopra descritti non siano modificabili. Io li ho creati, io li posso modificare. È una informazione che ha bisogno di essere poggiata sulla conoscenza e sull’esperienza, non su un vago fideistico ottimismo;
  • il secondo passo è sperimentare personalmente le risorse. Solo se si vivranno direttamente si conosceranno. Non è questione di doti ma di progetti mirati. Se si individua una abilità a cui tendere, ciò che ci separa da quella stessa è un adeguato progetto che gradualmente mobiliti le risorse necessarie;
  • il terzo passo vede il consolidamento delle risorse attraverso le procedure del progetto. Con l’esperienza diventano automatismi, detti destrezze;
  • il quarto passo vede il riconoscimento di me come ospite di risorse finora sconosciute, quindi insospettate. Se questo sarà praticato in me, potrò identificare anche gli altri come ignari ospiti delle loro risorse;
  • il quinto è un’estensione del secondo. Se ho sviluppato una risorsa di cui non sospettavamo neppure l’esistenza possiamo inferire che ce ne siano svariate altre in attesa il cui numero e grado di affinamento dipende solo dalla curiosità del ricercatore che è in me;
  • Il sesto riguarda la disciplina dell’attenzione. La mobilitazione delle risorse è dipendente dall’energia di attenzione che sarà data ai primi cinque punti. Se scema l’attenzione non si praticano le risorse e di conseguenza si torna all’idea di doti misteriosamente elargite a pochi privilegiati. Il livello dell’attenzione è rappresentato graficamente così:

L’attenzione dell’osservatore A, simboleggiata dal suo occhio, in quella posizione avrà un campo di osservazione limitato o meglio, limitante. L’oggetto o l’idea che gli si presenta davanti è sempre e solo la stessa, senza possibilità di confronto con altre data la limitatezza dell’area di campo: è l’attenzione isterica. L’osservatore B vede lo stesso oggetto ma gode di un panorama più ampio che gli consente l’osservazione anche di altri elementi e la conseguente possibilità di relazionare l’oggetto in esame con gli altri dato il campo ben più vasto, e più si alzerà il livello della sua attenzione più aumenterà il panorama, gli elementi che ne sono ospitati e la possibilità di relazionarli: è l’attenzione dell’osservazione, questa è indispensabile per togliere il velo dell’ingenuità conseguente all’altra attenzione e cominciare finalmente a scorrazzare nelle risorse.

Ritorniamo ora al tema originario: a chi comunicare? L’ingegnere, l’impiegato, il cieco, lo studente, il bigliettaio, il bambino, il giapponese di cui si è parlato all’inizio ora appaiono quanto mai solamente definizioni, e la definizione per quello che è: una scatola. Ma adesso la scatola non è un semplice contenitore; dentro ora si sa esserci, per altro inconsapevole, il detentore delle risorse. È quindi a lui che ci si rivolgerà per poter dire che si sta comunicando. Altrimenti facendo si rinnovano i pregiudizi di cui prima, pesanti controindicazioni al lavoro in classe e non solo.