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Come va con la matematica?

Anche quest’anno mi è stato affidato un corso serale. Temevo che sarebbe successo e già mi preparavo a spiegare al direttore i motivi per cui, dopo ben tre anni di seguito, non sentivo il desiderio di prenderne un altro, quando è venuta fuori la novità: il mio sarebbe stato il primo corso ad avviare una sperimentazione, che altri colleghi avrebbero di lì a poco ripreso in altre classi; se ne parlava da tempo nei nostri incontri di aggiornamento, ma questa era sicuramente la prima volta che la direzione della scuola, e non più un singolo insegnante, progettava un ciclo di sperimentazioni/esperienze di questo tipo. Mi sono resa conto di non poter rinunciare.

Il nostro progetto è stato chiamato “un passo verso l’autonomia”; non chiedetemi quali siano i fondamenti teorici o i testi più o meno sacri da consultare in proposito, non lo so e non lo sapevo al momento di iniziare l’esperimento. So che l’idea di fondo è quella di far in modo che lo studente diventi sempre più protagonista del proprio apprendimento, in modo attivo e consapevole, trovando spazio per la propria curiosità: non ho molta esperienza, ma so che se questo avviene si impara di più e con maggior facilità.

Sperando che tutto questo avvenisse, ci siamo proposti di sperimentare, all’interno del normale orario di lezione, lo studio individuale e il colloquio con l’insegnante. In un corso bisettimanale, come quello che avrei iniziato ai primi di ottobre, per mezz’ora a settimana i miei studenti avrebbero lavorato da soli in laboratorio, in sala lettura o in sala ascolto, mentre uno di loro si sarebbe fermato a parlare con me. Alla fine del corso avrebbero studiato individualmente per 6 ore sulle 60 dell’intero corso (5 ore a settimana) e avrebbero avuto due colloqui con me. È chiaro che per suscitare nello studente un atteggiamento più attivo non può bastare solo questa mezz’ora se non è accompagnata da altre attività (Ascolti o Letture autentiche, Produzioni libere orali o scritte) in cui lo studente sia stimolato a focalizzare e a confrontare il proprio stile di apprendimento, la concezione della lingua madre e di quella studiata, nonché le proprie reazioni all’approccio con la lingua “bersaglio”.

Bene: la classe si è rivelata composta da “adulti”, per lo più trentenni, di cui solo uno non era tedesco, su 5 iscritti. Solo uno era in Italia per una vacanza, gli altri avevano motivi di lavoro o di famiglia; ma non tutti avevano la possibilità di parlare italiano al di fuori della lezione. A questi primi 5 studenti, si è aggiunto un austriaco, dopo 15 ore, e verso la fine del corso sono arrivate altre due studentesse di lingua tedesca. Una classe, quindi, molto simile a quelle dei nostri colleghi che lavorano all’estero, con i problemi però di lavoro e di lontananza tipici di Roma.

A ciascuno di loro, il primo giorno di frequenza, ho chiesto di scrivere una lettera, per raccontarmi la loro esperienza, le aspettative e le motivazioni che avevano nell’avvicinarsi all’italiano; tutti hanno espresso soprattutto l’esigenza di poter comunicare meglio in italiano, di trovare parole per un reclamo o per le proprie emozioni.

Questo mi ha fatto nascere molti dubbi: aveva senso proporre loro 30 minuti di studio autonomo se era così forte per tutti il desiderio di sfruttare ogni minuto disponibile per esercitare il proprio italiano? Loro avrebbero vissuto in Italia per diversi mesi, se non anni; avevano lo stesso bisogno di un rapporto diretto con la lingua degli studenti che rimangono solo poche settimane (o di quelli che studiano nel proprio paese)? Tra l’altro un paio di loro avevano già frequentato un corso intensivo e sicuramente conoscevano già le strutture per lo studio individuale, eppure non le frequentavano; sarebbero stati contenti di utilizzarle durante l’orario di lezione?

Queste domande mi sono rimaste dentro ed evidentemente erano anche la proiezione di una mia paura, quella di avere io meno tempo per svolgere il programma che mi propongo in genere per quel livello. Non credo perciò, di essere stata del tutto convincente, né nel proporre l’esperimento, né nell’organizzare la lezione stessa che non ha avuto poi molto spazio per quella riflessione sulla lingua ecc., di cui dicevo prima, da parte dello studente. Così ora non mi stupisco se sin dalla seconda settimana di corso c’è stata un’altissima percentuale di assenze; trattandosi di persone che lavoravano o abitavano lontano (tranne uno che però è sempre arrivato con mezz’ora di ritardo) era comprensibile che avvenisse, ma sicuramente la mia incertezza non li ha incoraggiati a fare uno sforzo in più per essere più assidui.

Risultato: delle 6 ore previste di studio individuale, solo uno studente ne ha fatte due e mezza, in tre ne hanno fatte due, in due solo una (alla fine del corso, con le due studentesse superstiti, ho sospeso la sperimentazione); dei due colloqui programmati con ciascuno studente, sono riuscita a farne uno solo, tranne che con una studentessa che ha interrotto il corso per motivi di salute. È ovviamente troppo poco per poter dire se il loro atteggiamento rispetto alla lingua italiana è cambiato nel senso di una maggiore consapevolezza e responsabilità.

Eppure a me questo esperimento è servito: ho appurato che dare spazio agli studenti, nel colloquio, rende diverso il rapporto con l’insegnante, anche se richiede una certa dose di attenzione e, quindi, di energia che non sempre io (lo ammetto) sono disposta a spendere con tutti i miei studenti e probabilmente devo ammettere anche la mia difficoltà a modificare gli schemi di insegnamento che ho, sia per i contenuti che per le modalità. Il colloquio con ogni studente obbliga l’insegnante a non pensare alla classe in termini di numeri o di astratte nazionalità (un tedesco, una giapponese, ecc.), richiede sicuramente un minimo di preparazione o di supervisione da parte di altri insegnanti, ma contribuisce notevolmente al benessere dello studente. Io, in tutta la mia carriera scolastica, e universitaria, non ho mai incontrato un docente che mi chiedesse, non so: “Come va con la matematica?”. E a voi, lo hanno mai chiesto?