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Risposta di Christopher Humphris alla lettera aperta

Lettera aperta al Bollettino Dilit
A proposito degli esempi di “Costruzione di conversazione” [leggi Ricostruzione di conversazione, Ndr] riportati nel Comunicare meglio*, con la ricerca eccessiva dell’autenticità non si corre forse il rischio di insegnare brani di lingua che appartengono esclusivamente al bagaglio linguistico del parlante? Quanto, cioè, è legittimo rendere trasmissibile, e quindi tradurre in materia di insegnamento, ciò che appartiene a un solo individuo? Esperienze, emozioni, stati d’animo, ecc., nelle forme che li esprimono, non sono forse un patrimonio linguistico così personale da non trovare necessariamente un corrispettivo interesse in chi deve fare “esperienza” di forme linguistiche “plurali”, forse anche “anonime”, per poter scegliere quali usare in modo personale? E, in generale, come è possibile selezionare i brani da insegnare? L’autenticità è sufficiente a garantire la scelta?
Il criterio di chi sceglie il brano da insegnare non comporta forse il rischio di un appiattimento selettivo nella scelta dovuto a quei linguaggi che più si avvicinano alle forme linguistiche correntemente praticate dall’insegnante?
Quanto, insomma, la familiarità con alcune forme linguistiche correntemente praticate dall’insegnante pesa nella scelta dei brani “autentici”?
Maurizio Gargano 
* Humphris, C., Luzi Catizone, R., Urbani, S. 1985 Comunicare meglio, Corso di italiano per stranieri – livello intermedio, Roma, Bonacci Editore.

Risposta di Christopher Humphris

Amo immaginare un giorno futuro in cui gli insegnanti di lingue, venuti a sapere che nei lontani anni 1980 la professione discuteva i meriti e i limiti del materiale autentico, rimangano stupiti. È vero che se guardassero ancora più lontano nel passato, agli anni ’60, ’50 e giù di lì troverebbero delle situazioni ancora più da brividi: l’assoluta assenza di materiale autentico.

Abbiamo quindi fatto un po’ di strada; ma perché siamo sempre gli ultimi? Gli insegnanti di storia, per esempio, insegnano la vera storia o un’altra? Che cosa mai sarebbe questa storia non-autentica? Una storia in cui si evita di parlare delle atrocità commesse da determinati regimi? Una storia “anonima”, “plurale” (per riprendere i termini del collega Gargano) per “tutti gli usi”, per permettere ai discenti di conversare tranquillamente con i peggiori tiranni? La geografia insegnata è autentica? Oppure l’insegnante fa capire che l’Italia è un po’ più grande di quello che è realmente? Oppure si studiano su mappamondi dai quali mancano molti paesi?

Insegnanti che adoperassero materiale dei genere non sarebbero sospettati di manipolazione, di adulterazione? Non si chiederebbe da quali obiettivi sinistri fossero motivati?

Allora perché l’inautenticità viene contemplata nell’insegnamento delle lingue? Vediamo un po’ che cos’è la lingua. Gargano giustamente riconosce che la lingua è un veicolo per l’espressione di emozioni, esperienze, stati d’animo, ecc., degli individui che parlano la lingua. Se inventassimo una lingua che non facesse ciò, come potremmo dire che è lingua? A mio parere, il vero problema del collega Gargano e di chi la pensa come lui è che con l’uso di materiale autentico ci si trova spesso ad insegnare con lingua che esprime esperienze, emozioni, stati d’animo, ecc., con i quali l’insegnante non si identifica, e questa sua mancanza di affinità con il parlante viene attribuita allo studente. La verità è che ogni individuo, studente o insegnante che sia, è diverso da ogni altro, e quindi le esperienze, emozioni, stati d’animo, ecc., non sono mai uguali a quelli di un altro.

Proporre che il problema sia risolto inventando una lingua “anonima” è un po’ come dire che le esperienze, le emozioni, gli stati d’animo degli studenti sono più vicini all’anonimità che a quelli di persone diverse ma reali. La vera risoluzione del problema, invece, va ricercata in una diversa concezione dell’apprendimento linguistico basato su un reale rispetto sia del parlante che dello studente.

Per quanto riguarda il rispetto per il parlante, volere che il parlante si esprima in un modo più anonimo equivale a volere che l’esperienza umana sia più piatta, più uniforme. Un desiderio questo che, a mio parere, assomiglia a quello del censore. Il censore desidera presentare alla gente una visione normalizzata della realtà, desidera tenere la gente al riparo delle cosiddette trasgressioni.

Per quanto riguarda lo studente, rispettarlo significa riconoscere che lui elaborerà la sua propria interlingua e che la farà arricchire in base alle proprie esperienze e al proprio carattere, e cercherà di esprimere le proprie emozioni, stati d’animo e idee. Riconoscere questo significa riconoscere che solo una parte di qualsiasi programma d’insegnamento verrà fatta propria dello studente. Lo studente opererà sempre una scelta, a volte conscia a volte inconscia, di ciò che diventerà parte del suo bagaglio produttivo. Il compito dell’insegnante è di assicurare che lo studente abbia una vasta esperienza della lingua autentica a disposizione per garantire che lo studente diventi sempre più competente nel distinguere fra i vari modi di esprimere del popolo italiano e nell’individuare quegli stili che siano più vicini al suo.

Sarebbe, comunque, sbagliato concepire lo studente come un’entità statica. Lo studente non ha smesso di crescere, di modificarsi, di arricchirsi. Non sarebbe giusto classificarlo con delle etichette fossilizzate e dire, per esempio, che ha un determinato carattere, che ha una determinata esperienza, che ha determinate emozioni e determinati stati d’animo, e quindi sappiamo che stile di lingua deve imparare. Lo studente, come qualsiasi essere umano, è vivo e quindi acquisisce esperienze, cresce, si modifica, si arricchisce. L’insegnante che crede di sapere in partenza di quale stile di lingua ha bisogno un determinato studente è un insegnante che non favorisce il pieno sviluppo dello studente. Che questo stile sia “plurale”, “anonimo” o, più propriamente parlando, stile prodotto da un parlante privo di personalità e di esperienza, e piatto affettivamente, o che sia quello, per esempio, di “un estroverso simpaticone che cerca sempre di creare allegria nelle persone con cui interagisce” o le milioni di altre possibilità, non diluisce la verità che nessun brano presentato in classe può corrispondere a ciò che cerca lo studente.

Il collega Gargano avrebbe fatto un discorso più convincente se avesse sostenuto che la Ricostruzione di conversazione non andava svolta affatto. Se, invece di proporre che gli studenti “imboccassero” (si mettessero in bocca) parole anonime, avesse detto che costringere gli studenti ad “imboccare” (a mettersi in bocca) parole non proprie era di per sé sbagliato e che bisognava elaborare un metodo in cui sono gli studenti stessi che decidono ciò che vogliono dire e l’insegnante si limita a fornire loro le parole idonee, si sarebbe allineato con alcuni insegnanti dei tempi moderni. Esiste, appunto, da parecchi anni ormai un metodo che si chiama “Community Language Learning”. La tecnica centrale di questo metodo consiste nel sistemare gli studenti seduti in un grande cerchio fuori dal quale rimane l’insegnante. L’istruzione di base è “Cominciate una conversazione”. Non appena uno studente dice una cosa, nella sua lingua o in un modo approssimativo nella lingua-bersaglio, l’insegnante gli va dietro e gli sussurra nell’orecchio la frase idonea ad esprimere ciò che vuole esprimere lo studente. Quest’ultimo fa ripetere la frase quante volte vuole e, quando è pronto la dice ad alta voce all’interlocutore scelto. (Viene anche registrato su un registratore posizionato in mezzo al cerchio, per permettere una successiva trascrizione.) L’interlocutore può, se vuole, rispondere, e il procedimento si ripete. E a poco a poco una conversazione collettiva viene creata. Il pregio di un tale metodo è facile da vedere: sono gli studenti stessi che decidono il contenuto della lezione.

Io ho, però, due grosse riserve sulla saggezza di un tale metodo. Il primo è che l’insegnante, non potendo entrare nella mente dello studente, deve “interpretare” ciò che intende lo studente ed a volte il risultato può essere più o meno distorto. La seconda riserva è che gli studenti, se non cambiano spesso l’insegnante, esercitano unicamente un solo stile: quello del loro insegnante.

Io non voglio difendere la Ricostruzione di conversazione a tutti i costi, ma desidererei che proposte di miglioramento fossero superiori e che non si proponesse di cercare di separare l’esperienza umana da ciò che l’esprime: la lingua. La Ricostruzione di conversazione va vista, però, per quello che è e non va investita di un ruolo che non ha. La Ricostruzione di conversazione è un momento fra tanti altri nell’iter dello studente. L’insegnante che vuole sentire gli studenti adoperare forme trattate durante una Ricostruzione di conversazione, in una successiva Produzione libera orale è un insegnante che sbaglia. Ciò che usa lo studente in una Produzione libera orale è una creazione sua, unica, completamente originale. È frutto di un processo di elaborazione, personale e diluito nel tempo, di dati linguistici di cui lui è venuto a conoscenza in un modo o nell’altro. Questi dati non entrano nella mente per poi essere risputati fuori interi al momento giusto. Vengono elaborati, scomposti, ordinati, riordinati, sistemati, combinati, modificati, in un modo strettamente personale.

Durante la Ricostruzione di conversazione, invece, gli studenti dovrebbero aver ben chiaro (e questo dipende dalla chiarezza di idee dell’insegnante) che non fanno altro che cercare di ricostruire ciò che un determinato parlante (il quale esiste in carne e ossa) ha realmente detto in una situazione realmente avvenuta. Se questo è ben capito ogni volta che si arriva ad un’ipotesi di un enunciato ritenuto dall’insegnante perfettamente corretto ed appropriato non si scandalizza nessuno se l’insegnante dice “Andrebbe benissimo, ma lui non ha detto così”, e aggiunge qualche altra informazione (per es. “Lui ha adoperato un verbo impersonale”).

Lo studente, quindi, durante la Ricostruzione di conversazione non cerca di essere se stesso, ma cerca invece di immedesimarsi in un’altra persona. Dato che questa persona non è uno stereotipo superficiale, “anonimo”, ma una persona realmente esistente, un tale approccio ci mette, direi, in ottima compagnia. La compagnia, cioè, di tutti quegli operatori culturali moderni che vedono nell’assumere ruoli altrui la base per l’estensione delle nostre possibilità sia linguistiche, che fantastiche, che altre.

Il risultato a lungo termine nella produzione linguistica dello studente è totalmente imprevedibile, e questo è vero qualunque sia lo stile dei parlanti. La Ricostruzione di conversazione è un’attività di analisi e di imitazione di un esempio minuscolo dello stile di due italiani presi a caso. In un iter ideale gli studenti farebbero la stessa cosa con tutti gli italiani. Siccome questo non è possibile, bisogna utilizzare un numero limitato di stili che siano il più possibile diversi l’uno dagli altri. Da questo punto di vista Comunicare meglio non sarà perfetto, ma direi che si difende piuttosto bene rispetto alle alternative attualmente a disposizione.