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Input comprensibile o input autentico?

Da un po’ di anni a questa parte si discute spesso nei dibattiti sull’insegnamento delle lingue l’importante concetto dell’input comprensibile. Lo studioso che ha coniato questa espressione è Stephen Krashen. In sostanza la teoria afferma che

“le persone acquisiscono una lingua straniera solo se ricevono un input comprensibile e i loro filtri affettivi sono sufficientemente bassi da permettere l’ingresso dell’input stesso” (Krashen, 1985, p. 4).

Mi trovo, in linea di massima, d’accordo con questa affermazione, ma avverto una debolezza nella sua articolazione in quanto essa, così come viene presentata, legittima anche certi progetti didattici che invece a mio parere vanno criticati.

Krashen è noto per aver elogiato, per esempio, il metodo Total Physical Response di Asher (Asher, 1982). Questo metodo funziona più o meno nel modo seguente. L’insegnante dà degli ordini facilmente comprensibili e gli alunni li eseguono. Per esempio: “Jane, alzati e vieni qui”, “Ora vai da Peter, prendi il suo libro e portalo qui”, ecc. Man mano che il corso va avanti gli ordini diventano più complessi.

Ora, non discuto il fatto che questi alunni acquisiscono la lingua. Discuto invece la rapidità con la quale l’acquisiscono. La qualità dell’input è estremamente impoverita, lontanissima dalla ricchezza della lingua che viene parlata dai parlanti nativi, e lontanissima dalla concezione conscia ed inconscia di lingua in sé che risiede nella mente dell’alunno. Anche qui, come in altri casi, abbiamo a che fare con il “programma nascosto”. Il messaggio nascosto che viene costantemente trasmesso allo studente è che per studiare la lingua straniera non serve fare riferimento al fenomeno “lingua” (di cui l’alunno è tutto sommato un esperto, essendo abituato ad elaborare e negoziare significati dalla mattina alla sera nella lingua propria). Con questo tipo di metodo l’alunno sfrutta solo una piccola parte delle sue facoltà cognitive, sola una piccola parte di quello che sa, solo una piccola parte di quello che è in grado di fare. Tutto sommato gli viene richiesto di capire una frase per volta e in modo assoluto. Cioè, se Jane non si alza quando l’insegnante dice “alzati”, l’insegnante insiste chiarendo il senso della frase mediante gesti e semplici ripetizioni della frase stessa.

Qual è l’errore teorico che porta a elogiare un tale metodo? A mio parere non si è riflettuto adeguatamente sul concetto di “comprensione”. Siamo alle prese con un’accezione assoluta del concetto, come se la comprensione fosse un fenomeno dicotomico (o si capisce o non si capisce). Ora, l’esperienza umana non è tale. La comprensione è prima di tutto soggettiva: ogni persona capisce alla propria maniera. Secondo, la comprensione è una questione di grado: si capisce un po’, si capisce abbastanza bene, si capisce molto bene, ecc.

Se l’esperienza umana è così nel mondo reale, che senso ha non sfruttare questa nostra capacità in classe quando si studia una lingua straniera? L’altro giorno ho fatto un sondaggio informale presso una mia classe. Sono italiani che studiano inglese ad un ritmo di 3 ore la settimana. Il livello della classe è medio-alto. Avevano terminato un’attività di Ascolto autentico, e cioè avevano lavorato per più di un’ora cercando di capire il più possibile di 4 minuti tratti da una conversazione spontanea fra due inglesi registrata su cassetta. Avevano ascoltato 7 volte in tutto, socializzando la loro comprensione in varie composizioni di gruppi di tre fra un ascolto e l’altro. Ho chiesto ad ognuno di concepire la comprensione come un valore compreso fra lo 0% e il 100% e di stimare la loro comprensione terminale di questa conversazione. I valori che mi hanno dato andavano dal 65% all’80%. Poi gli ho chiesto di cercare di ricordare quanto capivano dopo il primo ascolto. I valori che mi hanno dato andavano dal 5% al 15%.

Il lettore potrebbe obiettare che questi valori non hanno niente di scientifico, e avrebbe ragione. Io, però, voglio soffermarmi su due fenomeni che trovo alquanto interessanti. Il primo è che, almeno per questo gruppo di studenti, nessuno applica un concetto assolutistico della comprensione (altrimenti qualcuno avrebbe parlato dello 0% e/o del 100%). Il secondo è che tutti loro avvertono un significativo cambiamento nel livello di comprensione durante il corso della lezione. Eppure l’input all’inizio della lezione era costituito da una registrazione di 4 minuti, e l’input alla fine della lezione era costituito dalla stessa registrazione di 4 minuti. Fra l’inizio e la fine della lezione l’insegnante non ha spiegato niente e non ha fornito nessuna informazione. Allora è giusto parlare della comprensibilità come se fosse una proprietà dell’input? Non sarebbe più corretto parlare della comprensibilità come il prodotto di un’energia mentale da parte dello studente?

Cioè, è lo studente che attivamente porta un testo ad un certo livello di comprensibilità. In questa concezione la formulazione di Krashen cambia un po’, diventa:

     “le persone acquisiscono una lingua straniera quando si sforzano di aumentare la comprensibilità di un testo”

A questo punto dovremo confrontare lo studente principiante che segue un corso di Total Physical Response con un altro che partecipa frequentemente ad attività di Ascolto autentico. Il primo studente sa che la comprensione richiesta è assoluta e che il testo consiste in una sola frase. Per di più l’insegnante fa in modo che sia facile capirla. Il secondo studente sa che la comprensione richiesta è bassissima e che il testo dura 3-4 minuti. Sa pure che l’insegnante non farà nulla per aiutarlo a capire.

Il primo studente si trova in una situazione in cui lo sforzo da parte dell’insegnante di farsi capire è inversamente proporzionale allo sforzo da parte dello studente di capire. (Questo perché l’insegnante ha impostato la lezione in modo tale che non si può andare avanti finché lo studente non avrà eseguito l’ordine.) In altri termini le regole del gioco portano lo studente alla consapevolezza che la sua comprensione non è dovuta ad una capacità sua bensì alla capacità dell’insegnante.

L’altro studente, quando riconosce che alla fine della lezione capisce di più che all’inizio, sa che questo progresso è dipeso unicamente dalle sue capacità. Dal punto di vista psicologico questo studente è più gratificato e quindi trova più energia per procedere nello studio.

Ma non è solo un questione di motivazione allo studio. C’è ben altro nella decisione di applicare un’accezione di tipo continuum della comprensione e di svolgere in classe frequenti attività di Ascolto autentico. C’è, per esempio, il fatto che le regole da acquisire non si limitano a regole morfosintattiche. Una conversazione naturale di 3-4 minuti contiene anche tanti esempi di applicazione di regole di coesione testuale. C’è anche la complessa questione dell’appropriatezza e tutte le regole socioculturali che vengono applicate con coerenza. Coerenza che manca totalmente in una lezione basata su un comportamento autoritario da parte dell’insegnante, il quale per di più dà ordini uno dopo l’altro che suscitano comportamenti il cui senso è solo quello di dimostrare di aver obbedito. Già discutibile nell’ambito delle caserme, certamente non giustificabile in un istituto scolastico.

E già che stiamo parlando della scuola, dell’istruzione, della education, come dicono gli anglosassoni, non dimentichiamoci che insegnare una lingua è pur sempre contribuire alla formazione delle persone. E, in quanto tale, è una responsabilità di non leggera portata. Rimando il lettore interessato all’importantissima relazione di Basil Bernstein “On the Classification and Framing of Educational Knowledge” (vedere la bibliografia). Bernstein afferma che “il sapere scolastico [educational knowledge] è un importante regolatore della struttura dell’esperienza”. Per Bernstein la domanda pertinente da porsi è: “In che modo le forme dell’esperienza, dell’identità e della relazione vengono evocate, mantenute e cambiate dalla trasmissione formale del sapere scolastico e delle sensibilità scolastiche?”.

Bernstein dimostra come il “mistero ultimo” di una materia rimane nascosto al discente se il discente non arriva ai più alti livelli nella disciplina. Con “mistero ultimo” di una materia Bernstein intende la potenzialità di tale materia di creare nuove realtà. Il mistero ultimo non è coerenza, bensì incoerenza; non è ordine, bensì disordine; non è il noto, bensì l’ignoto. Pochi arrivano ad essere consapevoli che il sapere è permeabile, che i suoi ordinamenti sono provvisori, che la dialettica del sapere è chiusura e apertura.

Bernstein si chiede se questo nascondere la verità al discente comune non sia altro che una forma di alienazione. Una tesi, questa, con implicazioni gravi, che l’insegnante di lingua non può risolvere da solo. E tuttavia noi possiamo fare la nostra parte per invertire la tendenza, almeno per quanto riguarda la nostra piccola influenza sull’esperienza del discente.

Possiamo, cioè, ridurre i momenti in classe in cui il sapere linguistico è presentato come se ci fossero risposte assolute. L’attività di Ascolto autentico è un’attività in cui non ci sono risposte giuste o sbagliate: ogni studente lavora con le proprie ipotesi e cerca d migliorarle senza il riferimento obbligato a un punto di arrivo. E qui si delineano due vantaggi: anzitutto il mistero ultimo della materia non viene nascosto, e poi lo studente impara a vivere in questo stato di insicurezza, di disordine, di provvisorietà, di ambiguità. Il risultato è un discente più forte, più capace di vivere la dialettica del sapere, meno pronto a rivendicare un insegnante che gli dia le risposte giuste e semplicistiche.

Abbiamo qui anche il motivo per cui l’Ascolto autentico va svolto più spesso della Lettura autentica (anch’essa un buon mezzo per incoraggiare gli studenti a sforzarsi di aumentare la comprensibilità di un testo). Dato che la “socializzazione” al sapere subita in passato dallo studente è stata probabilmente una socializzazione all’ordine, un’esperienza ripetuta mille volte in cui il sapere viene rappresentato come impermeabile e permanente, lo studente sarà automaticamente indotto a trasferire nella nuova realtà di apprendimento i criteri di tale socializzazione e per conseguenza a selezionare strategie poco efficaci. Pertanto egli potrà accedere ad una vera trasformazione e liberarsi da questi sgradevoli condizionamenti quanto meno avrà la possibilità di intervenire sulle strategie di apprendimento riconducendole al modello ormai per lui divenuto abituale. Nella Lettura autentica la possibilità da parte dello studente di manipolare le strategie e di rimanere a contatto con un concetto di sapere impermeabile è assai maggiore che nell’Ascolto autentico. Nella Lettura autentica, nonostante le sollecitazioni dell’insegnante a leggere rapidamente, a non cercare parole nel dizionario, ecc., lo studente può benissimo non rispettare queste indicazioni. E comunque, essendo la lettura molto più facile dell’ascolto, lo studente ha probabilità notevolmente maggiori di terminare la lezione con una sensazione di “aver capito” il testo e di rinforzare così il concetto “ordinato” che capire sia l’antitesi del non capire. Se vogliamo aprire allo studente la strada verso un’altra concezione del sapere e se vogliamo sviluppare la sua capacità di tollerare l’ambiguità, questa sensazione negativa non può nascere nello studente alle prese con l’Ascolto autentico. Una alimentazione a base di frequentissimi Ascolti autentici sviluppa nello studente una sempre maggiore serenità davanti all’ignoto, al non-classificabile, una sempre maggiore capacità di contemplare più ipotesi simultaneamente, una sempre maggiore capacità di non ricorrere a tutti i costi ad una qualche soluzione semplicistica. Insomma, un progetto didattico che forma la persona a vivere bene con il disordine del sapere, con la sua provvisorietà e la sua permeabilità; una persona più disposta ad incuriosirsi con entusiasmo ogni qualvolta sopraggiungono dati che complicano il campo di ricerca; una persona, in definitiva, che acquista la mentalità del migliore ricercatore.

Conclusione

In questo articolo ho cercato di rivelare una debolezza nella cosiddetta “ipotesi dell’input” formulata e divulgata da Krashen. L’ipotesi è certamente molto interessante ma è, a mio parere, inquinata da una accezione non-problematica della “comprensione”. Ho poi considerato gli effetti negativi dell’applicazione di tale accezione facendo riferimento al concetto di “classificazione e framing del sapere scolastico” proposto da Basil Bernstein. Questo concetto è noto nell’ambito della pedagogia, e tale riferimento esemplifica la mia convinzione che, rispetto alle tesi della pedagogia, la glottodidattica è rimasta per troppo tempo indebitamente distaccata.

Bibliografia

Asher, J. 1982 Learning Another Language Through Actions: the Complete Teacher’s Guidebook, Los Gatos     (California), Oaks Productions.
Bernstein, B. 1975 “On the Classification and Framing of Educational Knowledge” in Class, Codes and Control:     Volume 3, Towards a Theory of Educational Transmissions, London e Boston, Routledge and Kegan Paul.
Krashen, S.D. 1985 The Input Hypothesis, New York, Longman.