Cerca

post

Al di là di ogni ragionevole dubbio

Lo dico subito, senza tergiversazioni, senza false modestie e senza pudore: questa è la cronaca di un mio successo. Lo dico: a) ovviamente, per vanità personale; b) perché si tratta di una conferma – come si vedrà, al di là delle legittime previsioni – di alcuni princìpi fondamentali dell’approccio metodologico che ormai da tempo viene divulgato attraverso questo Bollettino; e c) perché dispongo di testimoni oculari, dei quali posso fornire, su richiesta, nomi e indirizzi, e i quali, a meno di commettere spergiuro, dovranno far fede alle mie parole.

Poiché scrivo a più di un anno e mezzo dall’episodio, la memoria può aver sfumato qualche elemento di contorno, ma non ha intaccato la sostanza e i centri nevralgici dell’accaduto.

Dunque, nel giugno del 1985 mi trovo in Baviera per tenere un seminario di glottodidattica, promosso dal Verband Bayerischer Volkshochschulen (l’Associazione delle Università popolari della Baviera), su “Ricezione di lingua orale”, cioè su come aiutare, da insegnante, chi studia una lingua straniera a incrementare la propria capacità di capire le persone che parlano quella lingua. Come è mia abitudine nei seminari di glottodidattica che tengo, inserisco nel programma una lezione dimostrativa relativa al tema trattato, quindi una lezione di ascolto. Per l’esattezza, trattandosi del primo seminario sull’argomento in quell’ambiente e con quei partecipanti, stabilisco una lezione di Ascolto autentico (vedi, per es., R. Luzi Catizone, “Obiettivi di una lezione di ascolto”, Bollettino Dilit, 1980, n° 3) e non di Ascolto analitico (vedi, per es., C. Humphris, “Analisi del discorso orale”, Bollettino Dilit, 1983, n° 3).

Sennonché, come è ovvio, una lezione necessita di un insegnante e di studenti, e pare ci sia qualche difficoltà a reclutare studenti disponibili alla prova. Finalmente gli studenti vengono trovati: sono tre studenti di un corso per principianti, persone che hanno studiato l’italiano presso un centro dell’Università popolare (per circa dieci ore, se la memoria adesso non m’inganna), che non hanno lavorato secondo la metodologia che io proporrò e che quindi, in virtù delle loro scarse conoscenze dell’italiano e dell’inesperienza del metodo, produrranno reazioni interessanti da osservare. Dico questo perché ciò che io mi appresto a fare è sottoporre loro un brano di conversazione in italiano (della durata di circa 3’20”) tra parlanti nativi che si esprimono in modo fluente, naturale, spontaneo, cioè autentico (sull’opportunità di una simile opzione didattica vedi, per es., G. Piva, “Il materiale orale autentico”, Bollettino Dilit, 1980, n° 2) e so di aver a che fare con insegnanti (i partecipanti al seminario) in larga misura scettici circa l’utilità e la riuscita di espedienti didattici che gettano gli studenti in pasto a materiali non cuciti su misura per le loro attuali competenze linguistiche. Comunque, il problema degli studenti per la lezione dimostrativa sembra risolto.

Rimane però un aspetto che non mi soddisfa. Queste persone possono venire non prima del pomeriggio del giorno seguente (che è il giorno di lavoro più intenso: la prima sera serve soltanto da presentazione, discussione del programma e rottura del ghiaccio), quindi durante il secondo turno di lavoro, mentre a me sarebbe piaciuto averle al mattino, cioè durante il primo turno. Personalmente, preferisco infatti partire da dimostrazioni empiriche (eventualmente precedute da brevissimi inquadramenti teorici) e poi dibattere la teoria retrostante che non il contrario: per motivi di efficacia, per evitare la noia di sermoni inani, perché dai partecipanti a questi seminari proviene una marcata richiesta di moduli operativi concreti, perché il dibattito più utile, in circostanze simili, è quello che si imposta sul già visto, sull’ormai noto, perché cartesianamente so che la sintesi dovrebbe seguire l’analisi e non viceversa, e per altre copiose ragioni che meriterebbero un articolo a sé. E allora? Come occuperò domattina le tre ore del primo turno di lavoro?

La sera, terminato il primo incontro, mi ritrovo in trattoria con alcuni colleghi. Caso vuole (si tratta di un centro abitativo minuscolo: Schney) che al tavolo accanto al nostro siedano tre ragazze che per età e portamento non sembrano accanite viaggiatrici (si spera comunque non in Italia). Iniziativa (di chi scrive) vuole che io le proponga ai miei colleghi quali possibili “cavie” per la lezione dell’indomani, che in tal modo verrebbe anticipata al primo turno di lavoro. Intraprendenza (di un abile collega) vuole che il mattino seguente le tre (dichiaratesi totalmente digiune d’italiano) siano presenti al seminario, puntuali e disposte.

A rigor di termini l’esperienza è nuova anche per me. È vero infatti che io mi accingo a sottoporre al loro ascolto lo stesso brano registrato con cui normalmente inizio un corso per principianti (“inizio” significa proprio che questa è la prima attività del corso, il primo giorno, dopo le inevitabili presentazioni e rotture di ghiacci). Ma è anche vero che i miei corsi si svolgono a Roma e che per iniziare il corso i miei studenti a Roma devono esserci già arrivati, sia pure il giorno avanti, sia pure la mattina stessa (ma è un caso estremo) e che quindi da una certa (pur esigua) porzione di tempo sono già a contatto con l’ambiente italiano ed è molto probabile che da qualche parte (in treno, in aereo, in albergo, al bar, al ristorante, nella strada, ecc.) abbiano sentito parlare italiano. Se poi si aggiunge che in queste persone molto spesso, fin da prima di calcare l’italico suolo, è già scattata l’intenzione di imparare la lingua (una sorta di Sprachwollen), si capirà che, iniziando il corso, molti di loro non hanno semplicemente sentito parlare italiano, ma hanno già realmente ascoltato parlare italiano. Tanto più largamente positiva diventa poi l’incidenza dell’ambiente, quanto più lunga diviene la loro permanenza in Italia.

Ed è infatti forse questa l’obiezione principale che io mi sento rivolgere presentando all’estero un approccio nell’insegnamento delle lingue straniere, e dell’italiano in particolare, di cui questo articolo prende in esame un singolo aspetto (l’ascolto): l’approccio è valido ma in situ, in Italia, dove lo studente gode di molteplici apporti additivi rispetto alla lezione; come si può, ad esempio, far ascoltare a uno studente principiante, poniamo germanofono, che risiede in Germania e non in Italia (e che non è nemmeno agevolato da notevoli similarità interlinguistiche come lo sarebbe un ispanofono) un brano di conversazione autentica tra due italiani, senza fornirgli e spiegargli a priori le parole del brano stesso? Questo studente – così si argomenta – non vivendo sul posto, non disporrà di quel patrimonio linguistico necessario per capire, quindi non capirà niente o quasi, quindi rifiuterà l’attività, quindi avrà la sensazione di un lavoro faticoso e inutile, quindi abbandonerà il corso.

Spero che l’esperienza di cui sto per riferire valga a decisiva smentita di tali argomentazioni.

A questo punto chiarezza espositiva e ragioni di comprensibilità per chi legge m’impongono di rivelare quale materiale uso per la lezione e come lo uso. Il lettore sensibile capirà da quale profonda contrizione io sia assalito nel compiere un atto sempre in odore di promotion pubblicitaria e vorrà amabilmente accordarmi la causa di forza maggiore. Dunque: si tratta del primo brano registrato (attività 1) della 1° Unità (“Prendere una stanza in albergo”) di Luzi Catizone, Piva, Humphris 1981 Comunicare subito, Roma, Edizioni Dilit. A tale brano nel libro corrispondono le pagine 7 e 8, riportate al termine di questo articolo. Come si vede, gran parte delle due pagine è occupata da un preambolo in cui, oltre a indicazioni generali sul contenuto della conversazione, vengono forniti allo studente spiegazioni e chiarimenti sugli scopi dell’attività e sul modo migliore di lavorare. Questo è estremamente importante.

Prima di intraprendere una qualunque attività, lo studente deve sapere chiaramente perché farla e in che modo farla (in che modo è per la più gran parte determinato dal perché): questa è la condizione principale che garantisce il successo dell’attività. Per esempio, quando si appresta ad ascoltare un brano lo studente deve sapere che non importa quanto avrà capito al termine dell’attività (dopo cioè aver ascoltato sei o sette volte), non importa se sarà caduto in equivoci o incomprensioni, soprattutto non importa se non avrà capito una gran quantità di singole parole. Importa invece che abbia ascoltato con attenzione e concentrazione, che mentre ascolta abbia sviluppato, ricorrendo all’immaginazione, delle supposizioni anche vaghe sul contenuto del discorso, che si sia in parte dedicato agli esercizi proposti (ma come un gioco, come una curiosità, non con l’imperativo stringente di pervenire a soluzioni corrette), che abbia scambiato idee e impressioni con i compagni quando l’insegnante glielo chiederà. E questo perché si impara a capire lingua parlata solo ascoltando lingua parlata e quindi, più si ascolta, più si progredisce nell’abilità di capire.

Insomma, per farla breve: in un corso lo studente dovrebbe avere frequenti esperienze di ascolto da affrontare essendo a priori liberato dall’angoscioso dovere di capire. Il capire verrà, a poco a poco e sempre più, da sé. In un tipo di attività come questo la funzione principale dell’insegnante, se non l’unica, consiste appunto nell’informare e nel tranquillizzare lo studente, soprattutto le prime volte, in modo decisivo la prima volta, dissolvendo la potenziale traumaticità dell’esperienza.

Quindi, alla prima attività di ascolto, prima di cominciare ad ascoltare il brano, gli studenti devono almeno leggersi il preambolo. Non necessariamente in italiano (di fatto nessuno studente principiante lo capirebbe per intero, e noi sappiamo invece che deve essere capito nei minuti dettagli): esiste una traduzione nella lingua dello studente, o in una lingua veicolare, e lo studente viene rinviato a questa traduzione. Quando è possibile, si consiglia però, in alternativa, che sia l’insegnante stesso a comunicare a voce allo studente scopi, strategie e metodo dell’attività: in genere l’intervento dell’insegnante risulta, rispetto alla pagina scritta, più incisivo, più vivace e più simpatico (almeno è augurabile, anche se non c’è da giurare che sia sempre così).

Dunque: dopo aver fatto accomodare le tre ospiti più o meno al centro dell’aula, sedute su tre sedie allineate davanti a me, ritenendo di essere indubbiamente più incisivo, più vivace e più simpatico della pagina scritta, scelgo con loro la via della comunicazione a voce. Poiché non padroneggio il tedesco (mi par naturale che io, che insegno una lingua come lingua straniera e che insegno come insegnare lingue straniere, conosca poco e male le lingue straniere), il curatore del seminario si presta a fare da interprete al mio discorso introduttivo (sul quale mi soffermo piuttosto a lungo assicurandomi via via che risultino chiari tutti i concetti cui ho più su sinteticamente accennato).

Poiché in compenso non sono insensibile alle istanze della prossemica (cioè, in breve, delle relazioni tra rapporti spaziali e rapporti sociali), chiedo ai partecipanti al seminario – distribuiti lungo tre pareti dell’aula, che è di una certa ampiezza, alle spalle e ai lati (a distanza) delle tre “vagliande”, seduti dietro file di banchi allineati in un ordine regolare che conferisce al tutto una scenografia tra una seduta di esame di laurea e una udienza di Santa Romana Inquisizione – chiedo, dicevo, ai colleghi di eliminare l’interposizione dei banchi tra sé e le studentesse accostando i medesimi alle pareti e sedendosi dove capita, in modo sparpagliato e asimmetrico, più vicino quindi alle studentesse, anche se a una certa distanza per evitare fattori di disturbo (questo dovrebbe aiutare le studentesse a sentire gli altri compartecipi, assieme a loro, di un esperimento anziché osservatori giudicanti dall’esterno). Chiedo infine ai colleghi di rimanere in silenzio, per non disturbare, durante gli ascolti.

Introduco ora il tema del brano. Ho fotocopiato per ogni studentessa le pagine 7 e 8 del libro, ma non consegno ancora le fotocopie: faccio solo veder loro, tenendo io in mano un foglio, la fotografia lasciando capire che la conversazione si svolge in un albergo tra la receptionist e il signor Marchetti, un cliente. Credo (se il ricordo non falla) che non fornisco le spiegazioni analitiche che si trovano a pagina 7 sul contenuto della registrazione. Sottraggo cioè una agevolazione per lo studente: in genere quando accetto, o promuovo, una sfida, mi piace spingerla sino in fondo.

Poi accendo il registratore e faccio ascoltare tutto il brano senza interruzioni. lo non rimango davanti alle studentesse: mi allontano, mi siedo, resto anch’io ad ascoltare in silenzio.

Quando il brano è terminato, senza alcun commento, lo faccio ascoltare di nuovo, dall’inizio alla fine. A questo punto chiedo (sempre per interposto interprete) alle tre di consultarsi, ognuna di loro comunicando alle altre (in tedesco) ciò che ha capito. Specifico che “ciò che ha capito” non implica nulla di impegnativo qualitativamente o quantitativamente: può essere anche una sola parola, un’espressione, un’idea generale, un’intuizione a qualunque livello, o magari di più, o di meno. Le ragazze parlano tra di loro, io rimango lontano, non suggerisco niente, non le ascolto (oltretutto capirei pochissimo) e invito i colleghi (i quali capirebbero) a fare altrettanto: le studentesse non devono sentirsi sentite in ciò che dicono.

Dopo circa un minuto (o forse qualcosa in più) faccio partire il registratore per il terzo ascolto, al termine del quale ripeto l’invito alla consultazione reciproca, di circa un minuto (o poco più).

Ora hanno già ascoltato tre volte (tempo totale di ascolto: circa 10 minuti). Dal punto di vista degli obiettivi dell’attività, tre volte sono poche: troppo poco il tempo di esposizione alla lingua orale e troppo scarsa l’occasione di ascolto di quel particolare brano, di cui sicuramente possono capire ancora di più. Ma per un normale livello di sopportazione in chi ascolta, tre volte non sembrano ulteriormente accrescibili. A meno di creare degli incentivi ulteriori, dei compiti da svolgere, delle curiosità da appagare, degli enigmi da sciogliere, degli stimoli che seducano gli studenti inducendo la necessità di ascoltare di nuovo.

Consegno allora le fotocopie, assegno l’esercizio 1 di pagina 8 spiegando che cosa devono fare e chiarendo il significato delle parole che non conoscono e lascio ascoltare il brano una quarta volta: al termine, le invito a consultarsi, questa volta non in generale sul brano, ma circa i risultati dell’esercizio 1. Io non guardo ciò che hanno fatto.

Adesso gioco la seconda carta: l’esercizio 2 (anche qui mi accerto che comprendano il senso delle due frasi). Solo che, essendo l’esercizio 2 limitato nel contenuto, contemporaneamente assegno anche il compito di controllare i risultati dell’esercizio 1 (sul quale è probabile che abbiano riscontrato delle divergenze). Siamo al quinto ascolto, seguito, come al solito, dalla loro reciproca consultazione e dalla mia latitanza come entità che osserva e giudica.

Gioco ora l’ultima carta, l’esercizio 3, destinato a tenerle impegnate per tutta la durata del brano (sesto ascolto).

Ricapitoliamo: le studentesse hanno ascoltato tre volte “liberamente”, cioè senza compiti da eseguire; poi hanno ascoltato tre volte in modo “pilotato”, come si è visto, e nel far ciò hanno approfondito determinate aree (preselezionate dall’insegnante); sono ora pronte per un ultimo ascolto “libero”, privo di compiti, globale, da effettuare senza leggere le informazioni scritte. Do indicazioni in questo senso (faccio girare il foglio in modo che non possano vederlo) e procedo al settimo e ultimo ascolto. L’ultimo atto è costituito da una consultazione finale sul brano in generale.

A questo punto dico che la lezione è terminata e che, se ci trovassimo in un corso effettivo, passeremmo ad altra attività. Ringrazio le gentili ospiti e le trattengo ancora – precisando che quel che seguirà non ha a che fare con l’attività o con il corso, ma con il fatto che ci troviamo in un seminario per insegnanti – perché io ho qualche domanda da rivolger loro e immagino che anche i colleghi (che vedo e intuisco bramosi di metter mano sui fogli scritti dalle studentesse e di interrogarle su che cosa avranno capito) ne abbiano.

Inizio io, anche per mostrare, provocatoriamente, che a me non interessa sapere quanto e che cosa hanno capito (almeno in quanto pedagogista; poi è chiaro che io condivido le curiosità di tutti gli esseri umani, quand’anche non le superi per numero e intensità), ma interessa sapere: a) se l’attività è stata o no di loro gradimento (se son state bene o no nel farla, se gli è piaciuta); b) se hanno la percezione, ora, dopo il settimo ascolto, di aver capito di più che non dopo il primo; c) se, dovendo frequentare un corso d’italiano, vorrebbero o no che il corso comprendesse anche attività come questa. Lascio intendere che questi sono per me i nodi cruciali per giudicare “riuscita” l’attività. Rispondono, pressoché negli stessi termini: a) che l’attività gli è piaciuta anche se l’hanno trovata impegnativa; b) che certamente hanno capito sempre più durante i successivi ascolti e verificare questo è stato interessante e piacevole; c) che ritengono utile un tipo di attività come questa e quindi vorrebbero averla, tra le altre, in un eventuale corso.

Passo quindi la parola e la prosecuzione delle indagini ai colleghi. I reperti cartacei, che vanno a ruba, evidenziano un lavoro svolto con padronanza e cognizione di causa: per di più, sorprende l’alto numero di parole scritte al punto 3. Intervistate sul contenuto del brano, le signorine stupiscono gli astanti con dichiarazioni altamente prossime al vero, anche se non immuni da equivoci e vuoti di comprensione.

Infine, messe alle strette da pressante interrogatorio, le inquisite cedono: non hanno mai prima d’ora studiato l’italiano né mai partorito l’idea di dedicarsi allo studio del medesimo, non si sono recate in Italia né presso comunità italofone né hanno intrattenuto con italofoni rapporti (di qualunque tipo), non hanno letto né esaminato né scorso tra le mani stampa italiana, inoltre non conoscono né hanno studiato altre lingue romanze (spagnolo, francese, ecc.). Si è trattato quindi veramente di una “prima volta” che ha violato una verginità assoluta.

Il violatore (particolarmente soddisfatto perché in genere, come ho detto più su, ha a che fare con verginità in un modo o nell’altro già contaminate) potrebbe a questo punto astenersi da ogni altro commento e lasciar parlare i fatti esposti, di per sé eloquenti. Egli però, se da un lato è conscio del valore della prova fornita, teme dall’altro le insidie di una sempre rinascente renovatio dubitationis, alla quale, se si vuole, possono non venir mai meno argomenti e appigli: “Le studentesse dell’esperimento erano giovani (e perciò intellettivamente efficienti), fresche (non provenivano da una giornata di duro lavoro), membri delle generazioni più recenti (quindi disponibili alle novità), integre nella loro fisicità (non menomate acusticamente, non affette da torpori subitanei, non avvizzite nell’abuso di alcool, oppiacei o simili), inclini alla collaborazione e alla socialità (e non irrevocabilmente incallite in un acido solipsismo): ah, se i miei studenti fossero così!”.

Non si creda che io stia scherzando: ho solo riunito in unico paragrafo, e riferito all’esperimento descritto, osservazioni realmente raccolte nel corso di vari seminari e usate come obiezioni alla applicabilità delle metodologie che proponevo. Alle quali obiezioni non ho che da rispondere in due modi: uno destruens e uno construens.

Il primo è che è inutile voler insegnare a un merluzzo a suonare il violino (cosa che in sé non discredita né i violini né tampoco i merluzzi). Esistono effettivamente dei casi disperati (io sarò particolarmente fortunato ad averne incontrati pochissimi) in cui lo studente, magari per ragioni “oggettive”, è allergicamente refrattario a un determinato approccio metodologico (ma non vorrei con questo discorso fomentare diagnosi affrettate e ultimative che non abbiano preventivamente e accuratamente sondato eventuali possibilità terapeutiche). In casi del genere è meglio “lasciar perdere” (al giudizio dell’insegnante se lasciar perdere l’attività di ascolto e al limite l’intero approccio metodologico o se lasciar perdere lo studente).

Il secondo modo in cui mi sento di rispondere, quello construens, va nella direzione di un esperimento da condurre sempre con elementi totalmente vergini, ma con in più almeno alcuni dei requisiti di cui le succitate obiezioni lamentavano l’assenza (unici requisiti esclusi, quelli totalmente inabilitanti, tipo sordità superiore al 95% senza l’ausilio di apparecchiature suppletive, arteriosclerosi in stato di avanzata degenerazione, documentate sindromi schizofreniche, ecc.).

All’uopo suggerirei: che i soggetti siano sufficientemente vetusti (meglio se prelevati da prescelto istituto gerontologico); che vengano selezionati, tramite accurati test psicologici, i più scontrosi, riottosi, intolleranti, e via discorrendo; che dall’alba al tramonto del giorno designato i medesimi vengano duramente messi alla prova nel fisico (attività manuali, esercizi ginnici, faticosi turni di lavoro) e nella mente (passando, per esempio, da una dotta disquisizione sul teorema di Gödel a una minuziosa analisi dei rapporti intercorsi tra Dc, Psi e Pci nell’ultimo quadriennio); che l’esperimento che ci riguarda avvenga, con tali soggetti, a sera inoltrata (magari dopo una cena consumata nella sede ove l’esperimento avrà luogo, cosa che non mancherà di accrescere il loro cattivo umore).

Aspetto quindi inviti in proposito e volenterosi organizzatori. Certo, in questo caso, la violazione della verginità sarà meno gustosa, ma ad ogni modo, come ama ripetere leccandosi i baffi (che non ha) un noto figuro della televisione nazionale, “ne vedremo delle belle”.