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La visione didattica di Christopher Humphris non è stata concepita per essere necessariamente “adattata” e “aggiustata”. Né i dettagli procedurali delle attività didattiche andrebbero considerati giusto “indicazioni di massima”.

di Federico Madeddu Giuntoli

Ho partecipato, come sempre con grande piacere e soddisfazione, al 27° “Seminario Internazionale per insegnanti di lingua” della scuola Dilit International House di Roma, lo scorso 23 ottobre 2021. L’edizione verteva sulla Produzione Controllata Scritta.

I laboratori all’interno del seminario, come molti di voi ben sanno, lasciano uno spazio significativo al dibattito in plenum e alla condivisioni di esperienze fra le colleghe e i colleghi partecipanti.

Alcune di queste condivisioni hanno suscitato in me una riflessione, che però in quel momento non ho espresso per il timore di non riuscire a veicolarla nella maniera giusta. Sono grato per il grande privilegio di poterla condividere adesso qui sul glorioso e prezioso Bollettino Dilit.

Una necessaria premessa

La visione didattica del maestro Christopher Humphris, sviluppata negli anni con la fondamentale collaborazione dei colleghi della scuola Dilit, richiede – da parte dell’insegnante che la vuole realizzare in classe – un’eccezionale apertura verso la complessità, un entusiasmo incrollabile per la sfida della costante ricerca didattica, e l’immensa dedizione necessaria per coltivare, momento per momento, un’ecologia sana e sostenibile in classe.

Come si sa, l’insegnante deve affinare costantemente le proprie abilità tecniche nella gestione delle varie attività didattiche: di per sé un compito certosino, minuzioso, processo di un’intera vita professionale. Ma ciò non è tutto. Anzi, a ben vedere è solo il requisito minimo!

È  ancor più vitale, a lungo termine, che l’insegnante sia consapevole del livello di novità estremo che la propria didattica rappresenta, sia per la maggior parte dei propri studenti, sia per i vari attori del contesto didattico nel quale opera (direzione della scuola, responsabili di dipartimento, colleghi, ecc…).

Dovrà, infatti, tenere di conto e fare i conti con vari tipi di resistenze e di perplessità che sorgeranno intorno a lei/lui con una certa regolarità. Oltre ovviamente a vegliare costantemente sulla qualità del proprio operato in classe. Insomma: un lavoro doppiamente impegnativo, laddove doppiamente è solo un eufemismo!

È  opportuno “adattare” e “aggiustare” sistematicamente la visione didattica del maestro Christopher Humphris?

Fatta la necessaria premessa sulla complessità del ruolo dell’ insegnante “nuovo”, sento la necessità di affermare che la visione didattica che ci ha indicato Christopher Humphris, e alla quale facciamo riferimento, non credo sia particolarmente indicata per “adattamenti”, “modificazioni”, “aggiustamenti”, “interpretazioni” di varia sorta, specie quando essi diventano routinari, strutturali, consolidati, ed hanno la sola funzione di rappresentare comode (ma fuorvianti) scorciatoie didattiche.

E il motivo è che, se così fosse, si sottovaluterebbe il livello di finezza logica e di consapevolezza psicologica sulle quali si basa non solo l’intera visione, ma anche ogni singolo passo delle procedure delle varie attività didattiche, frutto di sperimentazioni lunghe decenni!

Di più: Christopher Humphris ricordava spesso che le varie attività didattiche proposte costituiscono una sola unità organica, e che una realizzazione questionabile anche di un solo passaggio di una singola attività avrebbe creato una lesione di tale organicità e una delegittimazione dell’insegnante di fronte agli studenti.

(Delegittimazione, sì, perché nel momento in cui l’insegnante dà allo studente un’istruzione – magari all’apparenza controintuitiva e in conflitto con l’idea preconcetta che lo studente ha dell’apprendimento delle lingue – deve poterla giustificare non tanto verbalmente, ma con la forza della coerenza, facendone percepire l’organicità rispetto a tutte le altre istruzioni che ha dato e che darà. Confidando che gradualmente lo studente si renderà conto della logicità e soprattutto dei benefici della visione didattica che sta sperimentando!)

Alcuni esempi di “adattamenti”, per capirci

Andando nello specifico, promuovere consultazioni fra pari in gruppi di tre studenti invece che a coppie di studenti (oltre lo stretto necessario, ovvero nel caso di un singolo trio in una classe dispari di studenti), non “è uguale, cioè non rappresenta una pratica didatticamente consigliabile. Lo si può certamente fare, e le “giustificazioni” che uno si può dare sono molteplici, ma lo si dovrà fare con la consapevolezza di causare un abbassamento medio del livello di partecipazione attiva degli studenti. E dunque di efficacia dell’apprendimento.

Allo stesso modo, non interrompere l’attività dell’intera classe allorché un primo studente dichiara di aver terminato il proprio esercizio scritto (per procedere immediatamente alla fase di collaborazione fra pari) rimane una decisione criticabile: per quanto ci si sforzi di giustificarla con razionalizzazioni più o meno elaborate, continua ad essere scelta strategica che permette l’instaurarsi di un certo livello di inattività degli studenti in classe.

Ancora, al momento di fare grammatica: vacillare sulla necessità di utilizzare testi (speriamo autentici!) invece che frasi (presumibilmente inventate ad hoc, o forzatamente isolate dal proprio naturale contesto) è una pratica poco condivisibile e difficilmente difendibile, se non con arbitrarie auto-assoluzioni riguardanti “le difficoltà e le specificità del mio contesto didattico” (ma quale contesto didattico non presenta peculiarità o specifiche difficoltà? Chi certifica che sia impossibile operare in modo differente anche in quel particolare contesto, magari attraverso un lungo e certamente arduo periodo di sperimentazione?), oppure adducendo che “è compito dell’insegnante trovare il giusto mezzo” (qual è il giusto mezzo fra frase e testo?) o che “si può scegliere fra testo e frase a seconda del tipo di studenti” (esistono dunque studenti “da testo” e studenti “da frasi”?), o addirittura che “alcuni fenomeni grammaticali si studiano meglio con frasi e altri con testi” (Quale sarebbe il motivo linguistico? Ci sono basi scientifiche e sperimentali per le quali, ad esempio, i pronomi combinati si studiano meglio utilizzando frasi e invece altri fenomeni grammaticali utilizzando testi?).

Ma allora senza “adattamenti” come si risolvono le difficoltà?

Dirci la verità sull’evidente arbitrarietà e non-scientificità di questo tipo di “adattamenti” non significa, però, ignorare o sottovalutare le resistenze che alcuni studenti o altri attori del nostro contesto didattico possono opporre alle nostre proposte didattiche. Sarebbe, oltre che poco sincero, auto-distruttivo.

Una risposta integra e soprattutto efficace a queste innegabili difficoltà dell’insegnante credo passi dal realizzare che tali resistenze non sono necessariamente permanenti: si possono sciogliere con il tempo.

Infatti, le avversità che si incontrano nell’applicazione ortodossa della visione didattica illustrataci da Christopher Humphris sono ampiamente prevedibili, preventivabili, in qualche modo tipiche, archetipiche. Esse denotano semplicemente che gli studenti sono entrati in un nuovo “spazio”, stanno scoprendo un nuovo modo di essere studenti e di apprendere. Prima che riconoscano come proprio tale “spazio” ed accettino se stessi come studenti “nuovi”, attraverseranno un periodo di transizione più o meno lungo e intenso, ma certamente non permanente.

Dunque, inizialmente può essere condivisibile applicare strategie per “addolcire la pillola”, ovvero per persuadere gli studenti in modo non brusco, per accompagnarli con empatia in questa fase di transizione didattica. In questa ottica, può essere tollerabile e finanche appropriato limare le procedure di alcune attività didattiche per farle sentire meno sfidanti, meno esotiche, più “affrontabili”.

Ma tale limatura è da considerarsi assolutamente transitoria, eccezionale: un insegnante integro vorrà lasciarsela alle spalle il prima possibile, raggiungendo ben presto la pienezza didattica insieme a propri studenti.

Conclusione

Credo sia importante percepire la differenza fra due opposti posizionamenti che un insegnante può avere di fronte alle tipiche resistenze che possono manifestarsi in classe.

Uno è quello dell’insegnante che, per evitare problemi, strutturalmente ritocca le procedure delle varie attività didattiche, senza l’obiettivo di tendere ad una realizzazione integra della visione didattica, ma abdicando definitivamente a tale missione.

L’altro è quello dell’insegnante che difende il metodo didattico dalla propria avventatezza e, se deve, opta per una transizione didattica graduale ma breve, empatica ma snella ed efficace.

Ritengo che i dettagli procedurali delle attività didattiche consegnateci dal maestro Christopher Humphris non vadano considerati giusto “indicazioni di massima”. Amore (e dunque rispetto sincero) per questa visione didattica credo significhi tendere attivamente e costantemente ad una sua applicazione integra e organica. Certamente, nella piena consapevolezza che possa talvolta rendersi necessario accompagnare i nostri studenti in un periodo di transizione dal vecchio al nuovo.

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