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Della valutazione e degli altri demoni

Valutare è difficile. Sono sempre riluttante a farlo e quando lo faccio, lo faccio malvolentieri. Ho come la sensazione di voler chiudere, insaccare, comprimere tutta la vita di una persona dentro a un numero, una sigla, qualche aggettivo (del tutto parziale e soggettivo).

La valutazione è un limite. Si può davvero valutare il processo di apprendimento di qualcuno? E i parametri che usiamo sono giusti, obiettivi, corretti?

E se anche, ma io non ci credo, questi parametri fossero giusti e obiettivi, lo siamo noi che li applichiamo? Anche il modo in cui li si applica potrebbe non essere imparziale.

Quando valutiamo uno studente quanto è importante la nostra storia? Quanto incide il nostro vissuto di apprendente e il nostro naturale e istintivo atteggiamento nei confronti di quella persona? E la nostra stanchezza, la nostra energia o la nostra visione del mondo di quel momento preciso nella nostra vita?

Inoltre, quando valutiamo uno studente stiamo davvero valutando lui o piuttosto stiamo facendo una valutazione del nostro lavoro e in ultima analisi di noi stessi? Stiamo valutando il livello raggiunto dallo studente o quello raggiunto da noi secondo il programma e gli obiettivi che ci eravamo prefissati?

Ho la sensazione che nella valutazione si tenga poco conto di chi deve essere valutato e che, al contrario, ci si occupi molto di noi e di quello che dobbiamo fare. Dovremmo tenere presenti gli obiettivi prestabiliti ma ho il dubbio che a quegli obiettivi ci si possa facilmente sottomettere e, in qualche caso, rimanerne schiacciati.

Supponiamo adesso un caso: il migliore dei casi possibili in cui uno studente, che chiamerò Candide, né genio né in difficoltà serie, sia uno studente medio. Con medie capacità, media motivazione e un tempo ragionevolmente sufficiente per studiare a scuola, fare i compiti a casa e tutto il resto. Mettiamoci anche che non sia uno studente proveniente da un paese e da una lingua non troppo distante dall’italiano. In 24 settimane gli sarà richiesto (sempre nel migliore dei modi possibili) di arrivare alla fine del B1. Con altre otto settimane gli sarà richiesto di arrivare a un B2.2.

In classe saranno state proposte le attività con quell’obiettivo, trattati gli argomenti e le funzioni previste nel programma ma lo studente sarà un B2.2? Saprà usare la lingua? Saprà fare con la lingua? Avrà acquisito ciò che ha visto, fatto, letto e ascoltato in modo da saperlo riutilizzare in modo corretto ed efficace?

Realisticamente, uno studente che ha concluso (come attività e programma) il B2.2 che livello può aver raggiunto davvero? Un B2.1? Un B1 completo?

Sono possibili, naturalmente, tutte e due le cose e anche che sia effettivamente un B2.2. Ma il nostro Candide che livello sarà? Non sarà molto probabile e realistico che sia un B1? E se così fosse non sarebbe auspicabile, buono, giusto e naturale?

Quello che succederà invece, molto probabilmente, è che lo studente si sentirà indietro, l’insegnante si sentirà frustrato e la scuola avrà un problema perché si sentirà quasi in dovere di giustificare quel gap tra livello raggiunto e programma svolto.

Cosa avrei dovuto fare allora? Rallentare il ritmo? Mandare indietro lo studente a un livello inferiore? In questo caso, però, non avrei risolto il problema perché la stessa situazione si ripeterà anche per gli altri studenti che avranno (nella maggioranza dei casi) lo stesso problema.

Inoltre, andare avanti (in modo ragionevole) col programma e aggiungere i pezzi del puzzle mi aiuterà a far emergere elementi che ancora non sono emersi e che affiorano solo in un certo momento.

Qualche giorno fa facevo queste considerazioni con una collega e notavamo che spesso miracolosamente si sistema il passato prossimo quando si inizia ad introdurre il trapassato. Ma questo vale anche per le preposizioni, gli articoli ed altro su cui non mi dilungo adesso.

Insomma, è come se un livello superiore o anche il mezzo livello superiore mi servisse da spinta, propulsore o addirittura cornice all’interno della quale quello studente può lavorare, mettere insieme i pezzi, vedere meglio i confini del suo puzzle (anche se dai confini è ancora lontano) e sperimentare.

Il problema è che il processo di apprendimento è qualcosa di delicatissimo e costringerlo ad entrare dentro un sistema rigido, freddo, numerico come quello della valutazione è difficile, innaturale e perfino, direi, sbagliato.

Che cosa ha davvero a che vedere il mio progresso, il mio lavoro come studente, la mia motivazione e le mie capacità personali con la valutazione se non la necessità di entrare dentro uno schema che mi consentirà (o non mi consentirà affatto) di essere competitivo in una società competitiva all’interno di un mondo competitivo?

La competizione, si sa, non vuole saperne di tempi personali e naturali, non considera i sogni e i desideri della gente, non considera le emozioni, le passioni, le storie passate. La competizione genera stress, abbattimento, frustrazione a ogni passo anche se è competizione con noi stessi perché non si tratta del superamento dei nostri limiti (cosa positiva e auspicabile) ma si tratta, piuttosto, di una gara le cui regole sono state stabilite da altri.

Alla competizione ho sempre preferito la cooperazione e credo che sia l’unico modo per rafforzare la stima che abbiamo di noi stessi, l’unico modo per essere se stessi e per rispettare le proprie capacità e peculiarità personali.

Valutare ed essere valutati fa parte del gioco quando si insegna e si impara qualcosa. O almeno è quello che ci hanno sempre insegnato e a cui siamo stati abituati. Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna e che mi sembra profondamente inutile se non dannoso quando quella stessa valutazione si abbatte pesantemente sul lavoro e sul progresso fatto con ripercussioni sull’apprendimento successivo. L’apprendimento successivo, infatti, sarà condizionato dalla valutazione dell’insegnante in un modo o nell’altro.

 

Il sillabo – croce e delizia

Che cos’è il sillabo? È un programma per l’insegnamento della lingua.

A che serve il sillabo? Il sillabo mi dice che cosa devo fare per arrivare al livello tale, quali funzioni, quali strutture grammaticali trattare in classe.

Bene. Quindi a chi serve il sillabo? Il sillabo serve all’insegnante.

Perché gli serve? Perché è uno strumento importante per lo svolgimento del programma.

Riepilogando: il sillabo stabilisce che cosa fare per arrivare a un certo punto secondo dei tempi prestabiliti (ad esempio un mezzo livello per mese, seguendo quel programma con quelle funzioni e quelle strutture grammaticali).

Dunque il sillabo serve all’insegnante. Tutto buono e giusto. Ma quanto serve allo studente? È stato pensato per lui? Tiene conto di quali tempi? Quelli che abbiamo deciso noi? Quelli che ha deciso qualcuno che il sillabo lo ha concepito? Si è fatta una media generale di quanto apprendono e come apprendono le persone?

A me sembra che il sillabo decida e comandi quali devono essere i tempi di apprendimento degli studenti. E se lo studente non riesce a entrare in quei parametri beh… abbiamo diverse possibilità:

  1. tirarcelo per i capelli
  2. spingercelo dentro, farcelo entrare comprimendolo qua e là e poi tirare un sospiro di sollievo
  3. arrendersi all’evidenza e dichiarare il nostro fallimento
  4. arrendersi all’evidenza e dichiarare il fallimento dello studente
  5. chiedersi fino allo sfinimento e all’autoflagellazione dove abbiamo sbagliato

C’è qualcosa che, ancora una volta, non torna. Ma cosa? Non può essere che tutto questo vada semplicemente contro l’idea stessa che è alla base dell’approccio comunicativo? Se lo studente, come diciamo spesso, deve essere al centro del processo di apprendimento, quale importanza può avere un sillabo buono per tutti e in tutte le stagioni? O sarà improponibile o sarà inattuabile.

L’insegnante potrà usarlo, certo, ma allo studente servirà? Quale programma, quale sillabo seguirà lo studente allora?

Bene. Udite, udite! Userà… il suo! Il suo personalissimo e privatissimo sillabo. Il sillabo del suo progresso e dei suoi risultati. Proprio come è sempre stato e come probabilmente sempre sarà.

Potrò fare qualunque cosa in classe ma lo studente, sempre, comunque e giustamente, non seguirà il mio programma in nessun caso. Seguirà il suo. Quello di cui è capace. Al massimo cercherà di adattarsi, di cambiare un po’ il suo ritmo, si sforzerà.

Ma seguirà il suo programma e raggiungerà il livello che il suo programma gli permetterà.

Lo studente che “noi” stiamo valutando secondo la “nostra” visione e percezione e con l’aiuto di uno strumento così prezioso come il sillabo seguirà, in barba a tutta la “nostra” superbia, il “suo” (e non il nostro) sillabo. Secondo i “suoi” tempi naturali, le “sue” capacità, la “sua” motivazione, i “suoi” obiettivi. Sembrerà pure la scoperta dell’acqua calda ma come mai non consideriamo questi dati che sono dati di fatto? Il sillabo, allora, dovrebbe essere individuale e non per tutti, naturale e non sintetico, elastico e non rigido. Una specie di calzino adatto alla misura del proprio piede e che è meglio non scambiare o confrontare con gli altri pena, sicuramente, qualche inconveniente poco piacevole. Se lo studente deve essere al centro del suo processo di apprendimento, se deve essere autonomo, cosciente e attivo, questo significa che, allora, deve essere anche al centro del suo personalissimo sillabo.

Noi, da parte nostra, possiamo restarne fuori, guardare, facilitare, aiutare, dare qualche direzione e lasciarlo in santa pace mentre cammina. Non possiamo entrarci dentro e imporre le nostre regole, i nostri obiettivi, le nostre valutazioni. È un sistema, questo, che fallisce nove volte su dieci. Vale la pena di rifletterci su.